In Brasile, il racconto, oltre a diventare uno degli strumenti letterari prediletti dai suoi massimi scrittori otto e novecenteschi (Machado de Assis, Graciliano Ramos, Guimarães Rosa, Clarice Lispector, Jorge Amado, solo per citare i nomi più noti in campo internazionale), rappresenta – nelle parole di Luciana Stegagno Picchio – «la vera misura del narratore brasiliano». Alimentandosi
«da un lato di un filone popolare che gli fornisce la matrice simbolica, l’intento moralistico, la malizia dell’exemplum; e dall’altro di un’imitazione europea, francese soprattutto, che trova il suo respiro nel “folhetim” d’appendice, nella mezza pagina di giornale da riempire quotidianamente» [STEGAGNO PICCHIO, 1997: 495].
Quanto in particolare agli scrittori di racconti brasiliani del nostro tempo si dividono, sostanzialmente, in due macrocategorie: quella che raggruppa gli scrittori i cui elementi stilistici e tematici – fatta salva l’universalità della cifra di ognuno di loro – sono rimasti fondamentalmente ancorati alla tradizione letteraria nazionale; e quella che annovera gli scrittori che sono riusciti con le loro opere a introdurre nella letteratura brasiliana – senza per questo recidere il “cordone ombelicale materno” – una sicura ventata di novità, meglio ancora di modernità. Una modernità, non di rado, caratterizzata da toni duri e aggressivi, insieme alla rapidità o concisione stilistica tipica dei modelli anglosassoni e nordamericani (Joyce, Woolf, Faulkner, ecc.).
Coloro che appartengono a quest’ultima categoria sono, in genere, autori di microracconti: testi concisi e intensi a un tempo, nei quali il quotidiano a volte convive con l’immaginario, e le cui “storie” si esauriscono nell’arco di poche pagine, quando non proprio di poche righe, dando così spesso forma a dei veri e propri hai-kai narrativi. È questo il caso, innanzi tutto, dei microracconti del paranaense Dalton Trevisan – forse il vero caposcuola nel genere –, ma anche di quelli di Helena Parente Cunha, scrittrice e poetessa baiana di raro e sorprendente talento (1).
Premetto, da subito, che Parente Cunha non è una memorialista. È piuttosto diffusa, tra i critici, l’opinione che una delle principali prerogative della letteratura femminile sia la memorialistica. Forse perché, ragionando un po’ per stereotipi, la scrittura femminile, rispetto a quella maschile, è stata ritenuta in passato, e continua a esserlo in parte ancora oggi, come un tipo di scrittura più metaforica, più “verticale”. Nel senso che si suole intravedere nella donna una maggiore predisposizione a isolarsi tra le mura domestiche, e perciò a ricordare senza muoversi da casa.
Questi parametri – alquanto discutibili, senza dubbio – si presentano completamente ribaltati nella scrittura di Helena Parente Cunha, una donna del nostro tempo, che non ha vissuto e non vive isolata in una torre d’avorio, creando cerebralmente un suo universo letterario. È una donna che ha viaggiato molto, anche all’estero, convivendo con persone e ambienti differenti, e che è, quindi, in continuo e stretto contatto con la realtà di tutti i giorni. Una realtà, quella del Brasile odierno, e urbano soprattutto – fatto di intensi e profondi contrasti sociali –, che la scrittrice trasferisce nei suoi racconti, i quali hanno il pregio di presentarsi con un tipo di narrazione concisa, rapida come lo stesso tempo che viene ritratto.
Tutto questo è una conseguenza della posizione molto critica assunta da Helena Parente Cunha nei confronti della società contemporanea. Una società – lascia intendere la stessa scrittrice brasiliana – che, nello stabilire dei valori definitivi, e perciò dimenticandosi come tutto sia in costante e rapida evoluzione, fa un’opera sotterranea di “fiscalizzazione”, di coazione sui comportamenti degli individui. In particolare sulla donna, la quale, sebbene abbia conquistato la libertà o le libertà “esteriori”, rimane mentalmente fragile, in balia di pregiudizi che vogliono l’uomo ancora e troppo spesso “signore di tutte le verità”.
Di conseguenza, attenzione particolare alla donna e ai suoi problemi, ripresa – dentro e fuori della famiglia – ora nella sua condizione di moglie o di nubile ora in quella di madre o di figlia. Senza scadere, tuttavia, nel femminismo stereotipato. Poiché – come ho già avuto modo di scrivere oltre vent’anni fa nella presentazione a un’antologia bilingue di suoi racconti (2) –
«Helena Parente Cunha, più che alla rivendicazione di valori femminili in senso antitradizionale o alla posizione antagonistica della donna rispetto all’uomo, sembra essere interessata ad un femminile che assurga a “categoria letteraria”» [DE CUSATIS, 1998: 11].
Qui si lascia intravedere in filigrana la lezione di una Virginia Woolf o, per restare in ambito brasiliano, di una Clarice Lispector, scrittrici alle quali peraltro, e in particolare alla prima, la Parente Cunha attinge la prosa riflessiva, introspettiva, nonché la preoccupazione costante per il linguaggio, disciplinato e semplificato sino, a volte, alla rarefazione.
Con una cifra contrassegnata a livello semantico e, in alcuni casi, anche visivo da una prosa che si fa poesia, con una sintassi scarna e un periodare economico, in cui il ricorso costante allo sperimentalismo verbale comporta lo scarso uso, quando non proprio, a volte, la completa assenza d’interpunzione, in un andare e venire, secondo tecniche più che sperimentate, di dialoghi e monologhi, di narrazione in terza persona e di narrazione in prima persona, Helena Parente Cunha riesce a condensare alla perfezione situazioni, scene fondamentali, impulsi indimenticabili.
Nei suoi racconti e microracconti sono presenti pochi elementi “scenografici”, ma sufficienti a racchiudere, in poche righe, l’essenziale, quelli che sono i registri e i temi cui la scrittrice è interessata: il conflitto tra i valori tradizionali e i nuovi modelli etico-culturali; il rapporto-scontro sia generazionale sia tra i sessi; la problematica della famiglia, in cui risalta la figura autoritaria del padre, con la conseguente sottomissione della madre o degli stessi figli; l’erotismo femminile represso (la qual cosa fa sì che la scrittrice sia ricordata spesso, all’interno della letteratura femminile e femminista brasiliana, come “adepta” del genere erotico – designazione che personalmente reputo riduttiva). E ancora: l’innocenza degli adolescenti, vittime degli egoismi e degli errori degli adulti; gli sciancati o i mutilati e gli emarginati, che vivono la loro difficile condizione ora con disperazione ora con dignità e rassegnazione; gli anziani, spesso incompresi e abbandonati al loro destino.
Tutte “storie” che si presentano come ritratti di un Paese e delle sue condizioni. Ritratti e condizioni, tuttavia, che sembrano travalicare le contingenze storico-sociali del Brasile contemporaneo, per tramutarsi in metafora del mondo e dell’esistenza umana. Una sorta di brevi epicleti joyciani: tanto nel senso di un tipo di forma narrativa (appunto quella dell’”epicleto”, termine che Joyce coniò, alludendo all’epiclesi nella liturgia della chiesa ortodossa, per la serie Dubliners) caratterizzata da situazioni non momentanee e uno spazio non circoscritto, quanto nel senso – lungo una direttrice sempre indicata dallo scrittore irlandese – di giungere a tracciare, per il tramite dei legami esistenti tra i temi delle diverse “storie”, un ampio e organico quadro sociale, connotato ideologicamente.
Per “fotografare” il malessere dell’individuo, i falsi moralismi, le brutture e le ingiustizie della società odierna, e brasiliana in particolare, Helena Parente Cunha ricorre a toni sia forti, che si accompagnano a ribellione o rabbia, sia lievi, in cui prevale l’ironia.
È certo – anche alla luce di quanto è stato scritto e detto, da più parti e in epoche diverse, sull’argomento – che oramai nessuno oggigiorno mette in discussione il valore dell’ironia nella vita personale dell’uomo. Scrive a tale riguardo Kierkegaard:
«Ciò che il dubbio è per la scienza, è l’ironia per la vita personale. Come pertanto i fautori della scienza sostengono che nessuna vera scienza è possibile senza dubbio, così a egual diritto si può sostenere che nessuna vita umana autentica è possibile senza ironia. […] L’ironia limita, finitizza, definisce, e con ciò dà verità, realtà, contenuto, corregge e castiga, e con ciò dà coerenza e consistenza» [KIERKEGAARD, 1989: 251].
Tali affermazioni sono sintomatiche del perché l’ironia sia diffusamente presente in letteratura e, soprattutto, in quegli scritti – romanzi e racconti – in cui la descrizione della realtà predomina sull’invenzione.
Quanto specificatamente alla scrittura femminile, l’ironia assume spesso una caratterizzazione propria in termini di teoresi, poiché
«ancorata ai fatti e al corpo, di volta in volta viene utilizzata [negli scritti delle donne] come strumento analitico operativo e smascherante nella sua immediatezza, come pausa che dà vigore alla riflessione e, infine, alla maniera socratica, come uno strumento seduttivo che si pone all’origine di un potenziamento della comunicazione» [FORCINA, 1995: 8].
Non è qui il caso di dilungarci troppo – poiché esula dal tema del presente articolo – sulle differenziazioni funzionali dell’ironia nella scrittura maschile e in quella femminile, nonché sull’annosa questione concernente il concetto stesso di “ironia”, termine che di per sé si presta, ancora oggi, a molti equivoci e attorno al quale sono nate non poche dispute (3).
Di certo, una delle caratteristiche fondamentali dell’ironia è che essa preferisce, per così dire, giocare su più piani. Ciò dipende dall’oggetto dell’ironia stessa: «è solo quest’ultimo che può creare un campo d’azione adeguato» [ALLEMANN, 1971: 146]. Cosicché, lo sfondo dell’ironia può essere multiplo, anche all’interno dell’opera di un medesimo autore. Ad esempio, in Thomas Mann, nella cui opera procedimenti ironici e parodistici occupano una posizione dominante, abbiamo a volte un’ironia a sfondo sociale (Altezza Reale e i tanti racconti, quali Tonio Kröger e La morte a Venezia), altre a sfondo scientifico (La montagna incantata), altre ancora a sfondo storico-scientifico e mitologico (i romanzi del ciclo di Giuseppe).
Tornando a Helena Parente Cunha, la sua ironia, mai associata al fantastico, è sempre, o quasi sempre, utilizzata come strumento di denuncia di condizioni umane reali. Un’ironia, di conseguenza, più che altro a sfondo sociale, e che si presenta sotto varie sfaccettature.
Talvolta è un’ironia mordace, per certi versi grottesca. È il caso del racconto Il preside [cfr. CUNHA, 1998: 36-41], il cui protagonista esige tanto dagli alunni quanto dal personale docente della sua scuola un comportamento moralmente integro e sano, fatto di rispetto e ordine. Gli studenti e i professori finiranno tuttavia per scoprire – attraverso i giornali, per essere stato coinvolto in una rissa – che il loro non tanto amato preside, apparentemente probo e integerrimo, è un “viado”, un travestito che batte il marciapiede.
Altre volte è un’ironia amara, funesta, come nel microracconto Vendetta [cfr. IDEM: 60-61], in cui una moglie molto gelosa, stanca di ascoltare le avventure amorose e piccanti che il marito mutilato tutti i giorni è solito propinarle, ingoia – non si sa bene se con l’intento di morire o solo come minaccia – delle compresse di barbiturico. Al mattino, il marito non potrà alzarsi dal letto per chiamare il medico, così da sottrarre la moglie alla morte, poiché lei gli aveva rotto la gamba meccanica.
Altre volte ancora è un’ironia tragicomica. È il caso sia del racconto Il padre [cfr. IDEM: 20-27] sia del microracconto Eccitazione [cfr. IDEM: 58-59]. Nel primo – in cui l’autrice ricorre a una tecnica molto in uso nello stile ironico, quella della “ripetizione” (la frase «Il padre fermo sulla porta», presente in tutti i capoversi, eccetto tre, del racconto) – si assiste, in un’atmosfera fatta di situazioni per certi versi ridicole, spesso al limite del grottesco (la descrizione dei parenti, impacciati e malvestiti, riversatisi dall’entroterra in occasione del «ballo di laurea»), alle coazioni che una donna, prima da bambina poi da adulta, deve subire dal padre come conseguenza di rigide convenzioni familiari e sociali di tipo patriarcale. Nel secondo, si parla di una donna in «perenne stato di eccitazione», talmente «insaziabile» da organizzarsi una «sua galleria d’uomini eccitanti»; per poi, alla fine, il lettore scoprire che la donna vive da sola in una stanza, e dorme su un «angusto letto da nubile, zitellona, cinquant’anni, stanza di ragazza vecchia, vergine».
Esaminando, nel loro complesso, le tematiche che sottendono sia questi sia altri racconti brevi di Helena Parente Cunha dello stesso tenore ci si accorge di come la scrittrice brasiliana sappia fare buon uso dell’ironia. Un’ironia “dosata” nella giusta quantità, sempre coinvolgente a livello emotivo, ma mai cinica e sfrontata, mai esagerata a tal punto da distogliere l’attenzione del lettore (poiché per esserci ironia occorre la presenza dell’”altro” che intenda o semplicemente ascolti) dal vero “messaggio” che questi, nelle intenzioni dell’autrice, deve recepire e meditare.
Note
(1) Helena Gomes Parente Cunha è nata nel 1930 a Salvador, capitale dello stato di Bahia, nel nordest del Brasile. Laureatasi in Lettere Neolatine, ha iniziato la sua carriera accademica all’Universidade Federal baiana, come docente di Lingua Italiana. Nel 1954 ha ottenuto una borsa di studio per l’Università per Stranieri di Perugia, in cui si sarebbe specializzata in Lingua e Cultura Italiana. Trasferitasi a Rio de Janeiro, ha insegnato dapprima all’Universidade Estadual e successivamente, a partire dal 1968, alla Facoltà di Lettere dell’Universidade Federal, conseguendo la libera docenza in Lingua e Letteratura Italiana. Di quella Facoltà, e prima di pensionarsi nel 1997, è stata oltre che Preside anche titolare della cattedra di Teoria della Letteratura.
Nata artisticamente poetessa, i suoi primi versi d’ispirazione “concretista” e “praxista” – ossia un tipo di poesia sorta in seno all’avanguardia sperimentalista brasiliana della seconda metà del secolo scorso – risalgono agli anni ’60. Pubblicherà cinque libri di versi: Corpo no cerco (Rio de Janeiro, 1978), Maramar (Rio de Janeiro, 1980), O outro lado do dia. Poemas de uma viagem ao Japão (Rio de Janeiro, 1995), Além de estar. Antologia poética (Rio de Janeiro, 2000) e Cantos e cantares (Rio de Janeiro, 2005). Debutta come autrice di racconti con il libro Os provisórios (Rio de Janeiro, 1980), subito alla sua uscita salutato positivamente tanto dal pubblico quanto dalla critica. Seguiranno, con eguale fortuna, altri tre libri di racconti: Cem mentiras de verdade (Rio de Janeiro, 1985) – tradotto in Francia (100 mensonges pour de vrai, Paris, 2016) –, A casa e as casas (Rio de Janeiro, 1996) e Vento, ventania, vendaval (Rio de Janeiro, 1998). È anche autrice di tre romanzi: Mulher no espelho (São Paulo, 1985) – tradotto in Germania (Ich und die Frau die mich schreibt, St. Gallen / Wuppertal, 1986) e negli Stati Uniti (Woman between mirrors, Austin, 1989) –, As doze cores do vermelho (Rio de Janeiro, 1989) e Claras manhãs de barra clara (Rio de Janeiro, 2002). Come saggista è autrice sia di libri – tra i vari titoli, O lírico e o trágico em Leopardi (São Paulo, 1980) – che di numerosissimi articoli, apparsi su riviste e giornali, brasiliani ed esteri.
(2) Tutti i riferimenti e i brani estrapolati dai racconti di Helena Parente Cunha, e qui riportati, provengono da questa antologia [cfr. CUNHA, 1998].
(3) Tra le più celebri, quella che vide coinvolti Friedrich von Schlegel, con il suo concetto di “ironia romantica”, e Novalis. Sull’argomento, cfr. ALLEMANN (1971): 50 e ss. Per una visione d’insieme sul concetto d’ironia, si rimanda: a JANKÉLÉVITCH (2006).
Bibliografia di riferimento
– ALLEMANN, Beda, 1971. Ironia e poesia [ed. orig.: Ironie und Dichtung, 1956-1969], traduzione di Giorgio Voghera. U. Mursia & C., Milano.
– CUNHA, Helena Parente, 1998. Racconti. Antologia bilingue, presentazione, selezione e traduzione a cura di Brunello De Cusatis. Antonio Pellicani Editore, Roma.
– DE CUSATIS, Brunello, 1998. Le “storie” di Helena Parente Cunha, in CUNHA, Helena Parente, 1998. Racconti. Antologia bilingue, cit.: 9-12.
– FORCINA, Marisa, 1995. Ironia e saperi femminili. Relazioni nella differenza. Franco Angeli, Milano.
– JANKÉLÉVITCH, Vladimir, 2006. L’ironia [ed. orig.: L’ironie, 1964], a cura di Fernanda Canepa. Il Nuovo Melangolo, Genova.
– KIERKEGAARD, Søren Aabye, 1991. Sul concetto di ironia in riferimento costante a Socrate [ed. orig.: Om Begrebet Ironi med stadigt Hensyn til Socrates, 1841], a cura di Dario Borso. Guerini e Associati, Milano.
– STEGAGNO PICCHIO, Luciana, 1997. Storia della letteratura brasiliana. Einaudi, Torino.