L’anomalia Giuseppe Berto, scrittore di grandissimo successo (Il cielo è rosso, Il male oscuro, ovviamente) e d’appartati inabissamenti, popolarità tribolamenti e fughe periferiche, continua ad affascinare certuni, a discapito di una immotivata patina fané che ne avvolge la complessa figura, facendolo sembrare all’oggi elegantemente fuori moda, un inattuale da grandi tirature nei mercati dell’usato. Dev’essere stata la nomea indebita di autore neorealista, etichetta affibbiatagli che puzza d’obsolescenza e di fasulle quanto ingenue nostalgie poveriste, di innocuo esistenzialismo e complessi d’inferiorità nei riguardi dei francesi, di fuligginoso bianconero dopoguerra; oppure, come per altri grandi solitari nostrani pas engagé (Landolfi, Piovene, Morselli, Parise, Comisso eccetera), v’è difficoltà a ricavarne un santino pop, spendibile o fruibile nella babele del citazionismo compulsivo postmoderno. Tanto meglio. Di certo la convinta adesione al fascismo, purgata poi nel famigerato campo di concentramento per non cooperanti di Hereford, in Texas, non rese la vita facile al romanziere di Mogliano Veneto, giacché in Italia si ricorda con estremo scrupolo o si si dimentica con una pacca sulla spalla in base alla confraternita d’appoggio, si soprassiede a seconda di certe simpatie di convenienza, semmai poi accogliendo a salotto il redento o isolando il reprobo, a seconda di criteri miseramente omologanti. Nel dopoguerra Berto, assestatosi nei pressi di un liberatorio quanto eticamente dignitoso “a-fascismo”, costretto da incomprensioni politiche e da ideali infranti a rifugiarsi nell’individualismo anarchico, riuscì nella straordinaria impresa di inimicarsi tra gli altri due protagonisti assoluti della cultura cosiddetta ufficiale: Nientemeno che Alberto Moravia e Pier Paolo Pasolini. Bingo.
Ci interessa il secondo – va da sé intoccabile, trasversalmente adorato dai più per sentito dire, martire ad Ostia, verboso ed eclettico dall’ego straripante, intellettuale impegnato per antonomasia, conclamata celebrità, immorale eppure pedantemente moralista, probabilmente meno letto di quanto si creda ma assai citato per far vanto di capziosa o emulativa erudizione, sovente a sproposito; qui P.P.P. è convitato di pietra d’un libello assai curioso, commissionato fuori commercio da Rizzoli, andato poi perduto ed ora sottratto all’oblio dalla benemerita casa editrice Settecolori. Elogio della vanità, Ovvero vediamo un po’ come siamo combinati malamente è una di quelle anomalie letterarie in grado di suscitare curiosità nelle menti meno impigrite, affatto supine al feticcio culturale preso sempre per buono, capace di fare breccia nei lettori immuni da timori reverenziali.
Sorta di pamphlet psicologico, libriccino piacevolmente solipsistico, bellamente oscillante tra interiorità e posa, a tratti saggiamente delirante eppure ficcante nell’abilità di saper cucire un paradosso sull’altro, conferendo al tutto un’atmosfera ingannevole di ponderata logica; testo sottilmente strategico, financo perfido, vieppiù sottotraccia nella capacità dell’autore di decretare la vittima designata senza mai nominarla, anzi dando ad intendere di volteggiare astrattamente nei massimi sistemi – tutto è vanità, vanità è nulla, nulla in fondo è vanità – col necessario disincanto, in compagnia di Leopardi, La Rochefoucauld, Freud ed altri illustri ospiti.
Giuseppe Berto nell’Elogio della vanità fa con tutta evidenza pratica di sprezzatura, come si conviene senza annunciarla, addirittura mette in piedi un gioco di candido cinismo e caustico dileggio, eppure riesce miracolosamente ad armonizzare le sue nevrosi polarizzanti, lo fa mimetizzando le frustranti doglianze morali, aggrappandosi al salvagente dello stile, al salvacondotto d’una ricognizione sulla vanità, nella cinquantina di pagine, esteticamente sublime. Viene in mente un vecchio episodio, il pubblico screzio tra Carmelo Bene e Vittorio Gassman, allorquando il primo in cattedra per un seminario alla Sapienza, delineando la figura dell’attore quale impiegato statale, mestierante in costume d’epoca, ripetitore fedele o infedele di un testo a monte morto a prescindere, prende di mira proprio il più bravo: nominato per plebiscito d’applausi principe della rappresentazione teatrale, istituzione vivente e perciò il migliore dei peggiori, mentre proprio Gassman, seduto in sala, percepisce in quelle parole anti-corporative, blasfeme, iconoclaste, uno stato d’accusa a tradimento: il più grande attore italiano messo alla berlina da un guitto geniale, senza la necessità di fare riferimenti espliciti. Ci si è riconosciuto da sé nel ritratto, bravo e in qualche modo mediocre, almeno soppesandone la piccata sceneggiata, certamente frutto di orgoglio ferito e vanità vilipesa. Tornando a bolla, quale morale trarre dal libro di Berto? Forse che tutto è vanità, ed è quasi niente quel tutto.
Ho riletto anni fa Il cielo è rosso, il romanzo con cui esordì Berto. Lo lesse Longanesi (all’epoca gli editori leggevano i manoscritti, non si rivolgevano agli agenti letterari), gli piacque, lo definì il romanzo sulla resistenza di un centurione della Milizia e fu un best seller. Debbo dire che non mi è piaciuto, forse perché datato, mentre ricordo che mi piacque molto Il male oscuro, romanzo sulla depressione, divenuta di moda al tempo del miracolo economico in cui, non avendo più da preoccuparsi di mettere insieme il pranzo con la cena, gli italiani cominciarono a permettersi il lusso di avere problemi psicologici.
Secondo me Berto fu uno scrittore grande, non grandissimo, dignitoso nel suo afascismo non afasico, coraggioso nel pubblicare il diario della sua “Guerra in camicia nera”. Quanto al fatto che i suoi sono ormai best seller da mercati dell’usato, si tratta di un male comune. Se dovessi convincere un giovane a rinunciare al sogno della gloria letteraria, lo porterei davanti al banco di un bouquiniste, dove per pochi euro, a volte uno o due, si possono comprare romanzi che un tempo furono osannati dalla critica. Credo che della nostra letteratura della seconda metà del Novecento rimarrà pochissimo, e non per colpa solo dei librai.
Forse che rimarranno Pitigrilli, Guido da Verona, Grazia Deledda? A parte D’Annunzio (scrittore però di gusto ottocentesco), Malaparte, Buzzati, Piovene, Pavese, Arpino (non tutto) e Pirandello (teatro) anche il ‘900 non abbonda di grandi scrittori…Gadda, Moravia, Pasolini e gli ermetici non li sopporto, ad esempio..
Enrico: però si scrive più ‘per far chiarezza di sé’ (o almeno tentarci) che per vanità letteraria, di lettori, di plaudenti…