Che prima o poi sarebbe accaduto me l’aspettavo da tempo. Che, già prima dell’emergenza pandemica, fosse in atto un tentativo d’imporre una dittatura salutista, era abbastanza evidente. I primi segnali erano venuti dal terrorismo psicologico messo in atto nei confronti del consumo di tabacco, terrorismo oltre tutto ipocrita, visto che lo Stato italiano da un lato lucra sulla vendita di sigarette, dall’altro ammonisce i fumatori con immagini raccapriccianti sulle conseguenze del loro consumo, versione laica del memento mori cristiano. Si è passati, come spesso succede, da un eccesso all’altro: dalle sigarette fornite ai soldati di leva insieme alla decade, un po’ come genere di conforto, un po’ perché la “voce da fumatore” è sinonimo di raggiunta virilità, al divieto di fumare persino nei giardini pubblici. Un tempo, si fumava dappertutto, persino a scuola, e non era giusto. I ragazzi al gabinetto, fra la tacita connivenza dei bidelli, i professori in cattedra. Un ex alunno del poeta Mario Luzi, che prima di insegnare letteratura francese al Cesare Alfieri di Firenze era docente di liceo, mi raccontava che i suoi allievi potevano dedurre che giorno del mese fosse dalle sigarette con cui li affumicava. Il 27, quando aveva riscosso lo stipendio, erano Muratti o Malboro, poi pian piano, scemando i soldi, nazionali senza filtro o Alfa. Per le professoresse, ancora nei primi anni Sessanta, vigeva una diversa morale. Una stimata docente di letteratura francese mi raccontò una volta che, quando faceva una supplenza a un istituto tecnico della provincia di Firenze, il preside l’aveva ripresa perché fumava in classe: una donna rispettabile non poteva fumare in pubblico. Le volute di fumo della sua sigaretta suscitavano la morbosa curiosità dei brufolosi adolescenti.
Non sono mai stato un fumatore, non per virtù (se il tabacco fosse un vizio ce l’avrei senz’altro, come diceva Pio IX al cardinal Antonelli), ma semplicemente perché non mi è mai piaciuto e anche perché, allergico con tendenze asmatiche quale sono, non mi farebbe bene. Ho sempre detestato il tanfo di cicca stagnante nei portacenere mai puliti degli uffici, ma quando avverto nell’aria l’aroma di un sigaro toscano o di una Muratti provo una sensazione piacevole, un po’ proustiana, un po’ di ritrovata libertà; e incontro crescenti difficoltà a riconoscermi in questo strano paese che da un lato depenalizza gli spinelli e dall’altro penalizza chi vuol fumarsi in santa pace una Nazionale esportazione comprata con tutti i crismi della legalità dal tabaccaio.
Nei confronti di alcolici e superalcolici il percorso è stato più subdolo. La penalizzazione dell’alcol è cominciata col nobile alibi della sicurezza stradale. Che guidare ubriachi sia pericoloso è evidente, e in passato i criteri per stabilire il livello di ebbrezza erano molto empirici. Alla fine, però, si è finito per imporre limiti così bassi da rendere di fatto consigliabile a chi guida di astenersi completamente dal vino per evitare brutte sorprese. Il risultato è che per quanti non dispongono di un amico o di un consorte astemio il piacere di una cena al ristorante è vanificato: si può gustare un piatto di riso, che com’è noto nasce nell’acqua e muore nel vino, o una bistecca alla fiorentina pasteggiando ad acqua minerale o a coca-cola? Proprio nel campo dell’infortunistica stradale si è verificato per altro quello che i medici chiamano l’effetto paradosso: molti responsabili di incidenti fuggono dopo il sinistro, per sottrarsi alla prova dell’etilometro, con grave nocumento per la vittima. L’introduzione del reato di omicidio stradale, voluta per ridurre le vittime di incidenti, ha finito per moltiplicare i casi di omissione di soccorso.
Anche nel mondo militare si sono stravolte le consuetudini. Il quartino di vino era parte integrante del rancio del soldato e nelle notti di guardia – come qualcuno ha ricordato su questo sito – alle sentinelle veniva fornita come genere di conforto insieme a una barretta di ottimo cioccolato fondente una bustina di cordiale. Fra gli ufficiali, poi, ogni occasione era buona per una bevuta: un rapporto quadri, con tanto di brindisi del reparto, un passaggio delle consegne dall’ufficiale di picchetto smontante a quello montante, una sciocchezza fatta da un subalterno, tenuto a pagare da bere. Oggi negli appalti esterni per il rancio dei soldati non è più compreso il vino: per i conducenti di mezzi l’etilometro deve essere a tasso zero.
Anche nel mondo del lavoro è in atto una sorta di semiproibizionismo. Nelle pause pranzo, in caffè che forniscono svalutati pasti in cambio di altrettanto svalutatissimi buoni pasto, chi osa prendere un quartino o una birra per annaffiare squallide “insalatone” è guardato storto come una persona che sottrae lucidità e impegno al lavoro pomeridiano. E il piacere della convivialità scompare davanti a scomodissimi tavolini con la fretta del badge da strisciare.
La natura, però, si prende la rivincita. La stessa natura che induceva un tempo l’uomo a sedare il male di vivere col vino, una delle poche sostanze che alle funzioni di integratore alimentare abbinano quelle di blando (se bevuto con oculatezza) psicofarmaco, lo spinge oggi a rifarsi appena liberatosi dalle catene magnetiche del marcatempo. Giunge così (o almeno giungeva prima della pandemia) il momento dell’happy hour, dell’apericena, degli “sciottini”, della trasgressione, dei superalcolici, della movida e della malamovida. All’alcol da pasto si sostituisce l’alcol da sballo. Con le conseguenze che tutti conosciamo. Anche in questo ci stiamo avvicinando ai tristissimi paesi del Nord, dove proprio il proibizionismo ha finito per aumentare il numero degli alcolisti.
Oggi, però, il consumo di vino è sfidato da due nuove minacce. Una è una concezione virtuistica e pedagogica della sanità, in base a cui l’assistenza sanitaria pubblica non sarebbe un diritto soggettivo – per altro pagato col prelievo fiscale, almeno da chi dispone di un reddito – ma un premio da guadagnarsi praticando stili di vita ritenuti corretti. Oggi c’è chi, in Italia come in Francia, propone di far pagare le cure a chi rifiuta di vaccinarsi; ma sui giornali cominciano ad apparire le prime lettere di medici che si lamentano per dover curare persone che fumano o addirittura che “consumano alcolici”. Analogo sdegno non avverto invece nei confronti dei tossicodipendenti, ma questo meriterebbe un discorso a parte.
L’altra minaccia proviene, guarda caso, dall’Europa, e ha un nome: Nutriscore. È un’idea bislacca, partorita da Serge Hercberg, nutrizionista ed epidemiologo francese, e come tutte le idee bislacche è stata seriamente presa in considerazione dalle istituzioni comunitarie. È un sistema di etichettatura di tutti i cibi e le bevande (si salveranno forse solo gli alimenti per animali), da cui risulta la loro maggiore o minore nocività. All’apparenza, si tratta di un’iniziativa dettata da intenti umanitari, volto a tutelarci dai rischi di un’alimentazione nociva. Peccato che non vi sia nulla di più opinabile e cangiante della dietologia, e che i criteri selettivi previsti dal dottor Hercberg siano quanto meno opinabili, dal momento che non considerano a rischio la coca-cola (sia pure light) mentre bollano come dannosi il parmigiano reggiano o l’olio extravergine di oliva. In un tweet, Hercberg ha emendato il suo elenco proponendo di apporre la lettera F, quella che bollai prodotti più dannosi, sulle confezioni di generi alimentari che contengano alcol, “anche in minima quantità”. Un sistema virtuistico, ma al tempo stesso terroristico, dinanzi al quale sarebbe superficiale illudersi di potersela cavare con una risata, visto che, una volta accettati certi criteri, è tutt’altro che improbabile che l’efficientissima, a modo suo, tecnocrazia di Bruxelles non s’inventi penalizzazioni per i prodotti incriminati, come il divieto di pubblicità o l’aumento delle aliquote fiscali.
Sarebbe un errore considerare il Nutriscore un mero tentativo dell’Europa del Nord, da sempre egemone nelle istituzioni europee, di penalizzare i prodotti della cosiddetta dieta mediterranea. Oltre tutto la classificazione proposta, su cui dovrà pronunciarsi il Parlamento europeo, demonizza anche la birra e la fatwa di Hercberg, che è francese, colpirebbe il vino, di cui proprio i suoi connazionali sono grandi produttori e consumatori. Senz’altro, intorno alla maggior parte delle direttive europee ruotano enormi interessi, che il commissario Maigret, a furia di pinte di birra, di bicchieri di Calvados e Pernod nonché di caffè corretti, riuscirebbe senz’altro a scoprire. E fanno bene i viticultori italiani a insorgere. Ma il problema non è solo colturale, è culturale, e mira a demonizzare un alimento che da sempre fa parte della nostra storia e della nostra identità, nei versi di Alceo come nei versetti del Vangelo, nella liturgia cristiana come nelle liturgie conviviali dalle nozze di Cana in poi, per proiettarci in un mondo tristissimo per cui la paura di morire finirà per toglierci ogni voglia di vivere. Come del resto sta avvenendo, da due anni a questa parte, con l’emergenza pandemica.
Verissimo, Enrico, ma forse qualcuno protesta per le strade, attua boicottaggi, sfascia qualcosa?
Certo che una vita senza tabacco, vino , cocktails, insaccati e carne di maiale, è proprio come un’eiaculazione senza patata e… dintorni!
A molti giovani piace fare i pirla ecologisti, animalisti, vegani, gretini…
metteranno anche il bollino bianco per i prodotti ( coca, eroina, oppio, maria ecc. ) ritenuti ottimi dai coglioni di Bruxelles.
i prodotti di cui sopra servono a distruggere ulteriormente la mente dei popoli europei già duramente colpita dalle guerra batteriologica del covid.
Ma perchè la Destra non organizza, con adeguata pubblicità, il rogo pubblico (pacifico) delle normative UE che ci danneggiano di più? Non si tratterebbe di un rogo di tipo tridentino o ‘nazista’, contro l’arte e la letteratura degenerate, ma il simbolo del rifiuto di un popolo a farsi asservire toccandolo nei suoi interessi e nella sua identità. Ed a tutti i partecipanti il ‘dono simbolico’ di un quarto di buon vino e di un panino di porchetta (o mortadella, per logistica spicciola). Cioè, non un rituale che il sinistrume bollerebbe come lugubre, perverso, oscurantista ecc., ma una festa popolare allietata da musiche allegre, piene di vita…