Ultimo libro, in ordine di tempo del saggista Marco Iacona. “Novecento assassino. Nietzsche, Mishima, Camus e gli altri” (Historica – Giubilei Regnani). Saggio su un Novecento distruttore di forme e immagini, che tramanda ai posteri l’idea che un mondo o una “dimensione” stiano per risolversi. Secondo Iacona non si intravede ancora la luce dell’aurora, ma nel buio della notte solo piccole ombre di trafficanti di resti umani.
Qui sotto un breve estratto:
Come André Gide, come Pier Paolo Pasolini, [Céline] ha preferito sporcarsi, vivere con abiti e pensieri trasandati, non chinando il capo innanzi a ragioni che non potevano essere sue. La politica, naturalmente, con i marchi di antisemita e collaborazionista impressi sulla pelle céliniana, con tecnica raffinata. Alle accuse deciderà di reagire in modo sincero, perfino brillante, e con un donizettiano «Evviva la Francia!». C’è una frase pasoliniana che riassume decenni di impegno fuori dagli schemi; una frase recitata (a caso?) durante un collegamento con la tivù francese: «Io credo che scandalizzare sia un diritto, essere scandalizzati un piacere e chi rifiuta il piacere di essere scandalizzato sia un moralista». Si riferiva, PPP, a Salò o le 120 giornate di Sodoma: centoventi minuti di oscenità; lavoro sconcio, violento, come solo un figlioletto di Céline avrebbe potuto partorire.
Quell’uomo che aveva vissuto gli ultimi dieci anni da guaritore di miseri pazienti, circondato da miseri animali, da povertà e bisogno. L’uomo che oggi viene considerato – come Pasolini appunto – né più e né meno che il padre delle forme di ribellione aperte, “popolari”, cupe, profonde, intense, sacrileghe, letterarie anche se ineleganti. L’uomo che citava le banlieue così come l’autore delle Ceneri di Gramsci narrava delle borgate romane e che aveva anticipato il messaggio sui danni potenziali arrecati dalla televisione. Che aveva col potere – e i potenti – un rapporto a dir poco tremendo. L’uomo che alla regolarità del mondo (moderno) e della società di massa preferiva le libertà e i disagi dell’anticonformismo. Un mondo al quale, naturalmente, aveva indirizzato gran parte del proprio disprezzo, un mondo abbellito da note nietzscheane, da onori e oneri di comuni, altezzose, avversioni.
Quel giorno di luglio 1961, Céline venne maledetto ancora. E con lui, il Voyage au bout de la nuit che faceva storcere il muso nonostante il successo; figuriamoci le Bagatelles pour un massacre. Lo si maneggia con cura oggi (anzi: lo si amministra), perché Céline è andato al di là della tollerante polemica. Ha detto troppo. Perfino per un anarchico. In Francia, se ne vietano le celebrazioni per i cinquant’anni dalla morte; in Italia, prova a citarlo Paolo Sorrentino all’inizio della Grande bellezza, film (capolavoro) sulla morte della spiritualità e dell’anima, e sul supplizio della parola.
Veniva da terribili esperienze di guerra: dragone ed eroe nella Grande guerra, tra i protagonisti in negativo della Seconda. Data simbolo: Céline moriva all’inizio di quei Sessanta che avrebbero cambiato vita, abitudini, gusti e modi di pensare dei giovani d’Occidente. Spinti da nuove esigenze, nuovi temi ma anche da nuove guerre (il Vietnam), i giovani si ribellavano anch’essi, rompendo vecchi, melodici bla bla.
Alcuni, dentro il calderone delle ideologie fino al collo – fascisti, comunisti e creduloni d’ogni colore –, molti invece non rinunciando a una formazione diversa più per temi che per contrapposizioni. Céline, per se stesso e come figlioletto di Nietzsche, era uno dei nuovi maestri (seppur, appunto, maledetto) e maestri lo saranno altri viaggiatori in epoca beat, fino a Charles Bukowski, céliniano per concetti ed espressioni.
Maestro lo era (ma non per tutti) anche uno dei pallini del vecchio Hank. Quell’Ernest Hemingway che spirito dei tempi, morirà suicida il giorno dopo il dottor Destouches. Mago della penna che seppe mettere nero su bianco il proprio esclamativo talento per libertà, avventura e successo. Primo tra i personaggi globali del nostro tempo – è stato detto: al pari di una Callas – Hemingway è narratore schietto, diretto; in fuga dai giri di parole, poeta lontano anni luce dalle smancerie o dai virtuosismi delle tradizioni vuote e galanti che ogni paese era ed è orgoglioso di vantare. Si leggano le poesie, si capirà l’uomo.
C’era una volta, un contenitore di simboli sovrastato da un “motore immobile”. Con Hem e per Hem va in pensione il gusto un po’ antico per l’eleganza di un narrato morbido, ammiccante, beneducato. Al suo posto un’arena nella quale uomini e parole si sfideranno in sofferenza. Compagni o di sventura o di sbronze. Fiesta ha l’efficacia e la grazia di un pugno nello stomaco. Addio alle armi è il romanzo del Dio assente. In un “coordinato” di vicende e toni, a vincere sarà il destino. Romanzo amarissimo su un futuro indifferente al passato. Cos’è la vita? La parola “fine” in coda a un meccanicismo cieco, sordo e muto.
Su Hemingway è possibile perdersi in una quantità infinita di affermazioni. Omaccione non privo di un piacere tutto americano (moderno), per il sangue e l’azione; è stato uno dei più attivi testimoni delle guerre del secolo trascorso (un altro titolo, almeno: Per chi suona la campana). Decorato come Céline, anche lui girò il mondo, per poter capire e scrivere, dosando realtà ed emotività senza smancerie. Materia e spirito, appunto. Anche lui, così bravo (aggiungiamo alla lista Georges Simenon), da rendersi irritante.
Anni prima, a Roma se n’era andato Corrado Alvaro; calabrese, come un beat anch’egli giramondo; anch’egli inviato di guerra, anch’egli ferito al fronte. Le esperienze giornalistiche, le collaborazioni al Mondo di Giovanni Amendola, a Omnibus dello schiaffeggiatore Leo Longanesi, fecero di lui una voce importante del nostro Novecento. Tra Cesare Pavese e Moravia, vinse lo Strega.
Negli ultimi anni di vita gli fu vicino Cristina Campo, venere di un’anima forse ritrovata. Lo vide morire: «se n’è andato a occhi chiusi, dopo una lotta che appariva una suprema concentrazione» scrisse. Come il personaggio di una novella. Anche lui carne, anche lui spirito.