Gerald Donaghy aveva solo diciassette anni il giorno in cui morì, mentre correva verso il Glenfada Park di Derry, cercando di scappare dai colpi dell’esercito inglese.
Non ce la farà: una pallottola lo raggiunse allo stomaco, uccidendolo sul colpo in uno spoglio parcheggio dei Rossville Flats (un complesso di palazzine di edilizia popolare).
Assieme a lui rimasero per terra altre dodici persone; John Johnston, morirà invece alcuni mesi dopo per le ferite riportate, divenendo la quattordicesima vittima (delle quali nove tra i diciassette e i ventidue anni) di una marcia “militarmente” inoffensiva e politicamente moderata.
A cinquant’anni esatti da quel 30 gennaio 1972 (forse “la più simbolica” delle tre Domeniche di sangue, dopo quella di Dublino del 1920 e di Belfast del 1921), vale ancora la pena interrogarsi sul valore del loro sacrificio, in nome di una causa più grande, quella dell’Irlanda, una terra germogliata letteralmente sul sangue di coloro che per lei si sono immolati, nel tentativo, a seconda della prospettiva, di soggiogarla o di liberarla.
Sullo sfondo il concetto di nazione, quale vincolo cardine, comunitario e politico ma che oggi sembra essere relegato in secondo piano, nonostante ci siano popoli interi che ancora cercano un loro posto nella storia, distrutti da un imperialismo che non è soltanto militare ma anche economico, finanziario e culturale, un imperialismo che schiaccia, annientandole, le singole peculiarità.
Dividi et Impera
Le radici storiche della “Questione irlandese” sono conosciute, prodromi di una stagione di lotta armata, scioperi della fame e spietate repressioni: dopo la guerra civile e la firma del trattato anglo-irlandese (1921) che sanciva la divisione dell’isola in due diverse entità, per i “cattolici” del Nord sarebbero arrivati tempi molto duri, ancor di più in seguito alla costituzione, nel 1949, della Repubblica d’Irlanda.
Poveri come quelli del Sud, costoro dovevano per di più convivere con un sistema che li discriminava in quanto minoranza, ghettizzandoli.
In questo sostrato di disperazione, la religione non è solamente una questione di fede e di ricerca del conforto ma è valore civile, motore politico e sociale, affermandosi comunque negli anni ‘60 una forma di protesta non violenta per il ripristino delle libertà civili, sul modello di quella degli afroamericani negli Stati Uniti: un modo di lottare, questo, assolutamente non settario e apartitico, lontano persino dall’intransigenza repubblicana e indipendentista.
Dal 1922 infatti, il regime normativo è quello (e lo sarà fino al 1972) dello Special Power Acts (SPA), grazie al quale i soldati e la polizia (la famigerata Royal Ulster Constabulary) ottenevano i massimi poteri: si poteva arrestare senza processo, perquisire senza mandato, venivano eliminate le libertà personali, ammesse la tortura e la flagellazione; non fosse abbastanza, in caso di timori per l’ordine pubblico, si potevano vietare cortei e feste e in ultimo, si poteva rifiutare il ricorso alla Corte di Giustizia o all’ Habeas Corpus.
Derry: 30 Gennaio 1972
Sarà proprio in nome dei diritti civili, e in particolare per chiedere la revoca dell’internamento senza processo (reintrodotto nel 1971) che in quella fredda Derry di fine gennaio doveva tenersi una marcia: un ennesimo tentativo pacifico.
Addirittura, era stato intimato all’IRA, che aveva accettato suo malgrado, di allontanarsi e di non presenziare alla manifestazione che sarebbe cominciata verso le ore 15:00 locali: il corteo s’incammina dalle strade del Bogside, in una Derry dal cielo plumbeo, organizzata come una prima linea di guerra.
A presidiarla, infatti, sono le immancabili le truppe britanniche, tra le quali, per l’occasione, il Governo di Londra, guidato all’epoca da Edward Heath, ha persino “scomodato” il Primo Battaglione del Reggimento Paracadutati dell’Esercito, così da tenere sotto tiro tutti gli avvenimenti.
La marcia prosegue senza difficoltà per un’oretta, fino alle 15:55, quando si sentono distintamente alcuni colpi: in un primo momento sembra regnare la confusione, c’è chi subito cerca di mettersi al riparo, chiedendosi cosa stesse succedendo, giacché di solito l’IRA, pur nell’efferatezza dei suoi ingiustificabili attentati che coinvolgevano purtroppo anche i civili, almeno in teoria poneva l’attenzione su obiettivi di natura economica e strategica.
La natura delle cose è ben presto chiara: ad aprire il fuoco erano stati proprio loro, i Paracadutisti, che, ricevuto l’ordine da Londra, avevano cominciato a sparare sulla folla inerme che per altro, come appurato, era ampiamente disarmata, colpendo ventisei civili e ammazzandone tredici sul colpo.
Da quelle 15:55, dal momento in cui i paracadutisti aprono il fuoco, la storia cambierà inesorabilmente il proprio corso: i Troubles, iniziati formalmente tre anni prima con l’assalto delle squadre unioniste al Bogside, con la conseguente ristrutturazione interna all’IRA, sono ormai guerra.
Di quella tragica domenica, ci restano delle indelebili istantanee: su tutte, Edward Daly, Vescovo di Derry, che corre con un fazzoletto bianco tenuto a mo’ di bandiera, completamente imbrattato di sangue, mentre cerca inutilmente, assieme ad altri, di portare in salvo il diciassettenne John Duddy, appena colpito al petto da una pallottola.
La via della storia
Nonostante la guerra civile tra unionisti e repubblicani abbia visto delle stragi caratterizzate da un maggiore numero di morti, in termini assoluti, per singolo episodio (Dublino 1974, Birmingham 1974, Omagh 1998), l’efferatezza e la “gratuità” (termine orribile ma che forse pone l’accento al meglio sull’insensatezza di una repressione assolutamente settaria) dei gesti compiuti dalle forze dell’ordine verso pacifici civili, fanno della Bloody Sunday il simbolo dell’inutilità e del male di questo conflitto, forse anche grazie al ruolo del cinema, dell’arte e della musica, che l’hanno scolpita così prepotentemente nell’immaginario collettivo.
Quella data, in verità, fu uno spartiacque, giacché la lotta era appena cominciata e la violenza si radicalizzava: arriveranno nuove misure repressive, le bombe, la Thatcher e il suo disconoscimento nei confronti dei prigionieri (politici) nazionalisti, declassati a semplici criminali comuni ma anche Bobby Sands e i gloriosi scioperi della fame nel carcere di Long Kesh, con i patrioti irlandesi lasciati a morire come mosche per tutto il 1981.
Fortunatamente arriverà anche un timido e formale processo di pace, che culminerà nell’Accordo del Venerdì Santo del 1998, oggi rimesso in discussione dalla Brexit e da un clima che si sta facendo nuovamente torbido.
L’errore più grande però, questa volta, sarebbe quello non solo di non voler ricordare ma anche quello di non ripercorrere una via già battuta, che la storia ha cesellato duramente in quest’ultimo secolo.