Un libro tedesco e un film italiano inquadrano bene l’anno appena finito, analizzando la realtà e i suoi probabili sviluppi meglio di qualsiasi inchiesta giornalistica. Il film è l’ultima fatica di Pif, sgradevolmente intitolato E noi come stronzi rimanemmo a guardare, disponibile da qualche settimana su Sky Cinema. È una commedia che descrive con amara ironia il degrado sociale e soprattutto lavorativo della società iperconnessa, verso la quale ci stiamo dirigendo velocemente e soprattutto inconsapevolmente, dove sono gli algoritmi a decidere il nostro futuro; gli impiegati e i lavoratori, ridotti a pura manovalanza priva di tutela e diritti, sono costretti a sorridere sempre e comunque di fronte a richieste sempre più esose e persino palesemente assurde. Fabio de Luigi, insieme con lo stesso Pif, mette efficacemente in scena un futuro non troppo lontano e molto simile a quello preconizzato un secolo fa da Fritz Lang nel suo Metropolis, con la differenza che, qui, i lavoratori devono mostrarsi felici e sempre pronti ad assecondare il padrone/cliente in ogni desiderio, ancor prima che venga espresso. Un mondo da incubo, insomma, che rischia molto concretamente di diventare realtà, ci avverte il regista, se noi continueremo a fare quello che dice il titolo, ovvero rimarremo, come degli str***zi, a guardare, invece di reagire e, per usare un logoro slogan, “restare umani”.
Sulla stessa lunghezza d’onda, anche se dalla commedia amara passiamo al saggio disincantato, è il libro del filosofo, tedesco di adozione ma di origine coreana, Byung-Chul Han, presentato dall’editore come uno “tra i pensatori più importanti e più letti dei nostri tempi” a autore de La società senza dolore. Perché abbiamo bandito la sofferenza dalle nostre vite (Einaudi, pp.82 €13).
La lezione di Junger
Partendo dalle riflessioni di Ernst Jünger esposte nel saggio “Sul dolore” (raccolto in Foglie e pietre): “Dimmi il tuo rapporto con il dolore e ti dirò chi sei”, Han critica l’algofobia che caratterizza la nostra società, tesa a evitare il dolore sotto qualsiasi forma si manifesti. Viviamo nella società dei like, dimenticando il valore catartico della sofferenza, e in quel recinto compiacente è rinchiusa anche l’arte, diventata esclusivamente oggetto di consumo, dimenticando la sua funzione principale che è quella di “sconcertare, disturbare, inquietare e anche saper fare male”.
Riprendendo poi le intuizioni di Ivan Illich contro la medicalizzazione della società, il filosofo critica la riduzione della vita a mera sopravvivenza, intrisa di anestetici, farmaceutici o virtuali. Non c’è traccia di un fine più alto, e tutti siamo chiamati a essere sempre sorridenti e compiacenti, proprio come nel film sopra citato, dove chi non è felice deve sforzarsi di esserlo, e dove, al posto della rivoluzione, subentra la depressione. La vita viene ridotta semplicemente alla sua dimensione misurabile, e la digitalizzazione -che letteralmente significa esattamente la riduzione in cifre- ha imposto un ordine dove tutto deve essere disponibile subito, seguendo i dettami di un’intelligenza artificiale che intelligente non è, né potrà mai esserlo, perché è fatta solo di calcoli mentre “intelligenza” significa, invece, capacità autonoma di scelta.
I risultati di questa deriva sono sotto gli occhi di tutti: isolamento, solitudine, narcisismo, egoismo e soprattutto sottomissione, volontaria e volenterosa, ai padroni del discorso, ancora più forti e potenti grazie alla pandemia che ha rafforzato l’atomizzazione della società, frantumando e dividendo qualsiasi aggregazione personale, diffondendo paura e incoraggiando odio e delazione. Alla fine della pandemia, conclude Han,
“ci dirigiamo verso un regime di sorveglianza biopolitica. Il liberismo occidentale fallisce dinanzi al virus (…) e la persona umana viene degradata a una congerie di dati che portano guadagni”. Insomma: la vita priva di dolore non sarà più tale, e l’uomo, se non cambia, “potrà forse raggiungere l’immortalità, ma al prezzo della vita”.