Uno dei vantaggi che comportano le chiusure imposte dall’emergenza Covid è il fatto di concedere più tempo da dedicare alla lettura. La rarefazione dei contatti umani, insieme alle difficoltà di accesso alle biblioteche pubbliche, mi ha indotto ad attingere libri della mia biblioteca privata, approfittando dell’occasione sia per aprire volumi rimasti metaforicamente intonsi, sia per salutari riletture. Riletture che in certi casi sono autentiche letture ex novo, sia perché in un primo tempo mi ero affacciato al testo con supponente svogliatezza, sia perché, come secondo il Filosofo non ci si bagna sempre nella stessa acqua, così dopo diversi anni ci si può accostare a un libro con spirito mutato. Nel caso mio, due cattive abitudini che mi porto dietro dall’adolescenza – fare “l’orecchietta” alle pagine che ritengo più interessanti e scalfire con l’unghia i brani con cui consento o a volte da cui dissento – costituiscono un notevole vantaggio, quando mi capita di accostarmi a distanza di tempo allo stesso testo. Scoprire mezzo secolo dopo che lo stesso passaggio di Guerra e pace o il medesimo aforisma di Nietzsche continuano a coinvolgermi suscita in me un’emozione che sconfina a volte in commozione. Al tempo stesso, debbo ammettere come romanzi che furono i livres de chevet della mia giovinezza non reggano al filtro di una rilettura. La rilettura di Les sept couleurs di Brasillach, con buona pace di una straordinaria studiosa che mi gratificò di un immeritato trenta e lode in letteratura francese e che, pur essendo di idee politiche molto lontane, ha consacrato buona parte della sua vita all’opera del letterato fucilato per collaborazionismo, mi ha lasciato piuttosto freddo. Più che per il narratore mi ero commosso per il martire, e questo è sbagliato: è un errore confondere il sangue con l’inchiostro.
Mi rimane più vicino, forse per la maggior virilità del personaggio, Gilles di Pierre Drieu La Rochelle, romanzo di formazione che lessi a diciannove anni prima nell’edizione livre de poche, poi in una un po’ pedestre traduzione di Luciano Bianciardi (ma non era pedestre Bianciardi, era l’industria culturale da lui detestata che pretendeva traduzioni letterali degli autori stranieri). Il fatto è che certi libri sono un po’ come certe donne, di cui c’innamoriamo in determinate fasi della nostra vita mentre se le avessimo incontrate due anni prima o due anni dopo ci sarebbero rimaste indifferenti. Con la differenza che per un’infatuazione giovanile, nel caso dei romanzi, non siamo condannati a pagare per tutta la vita gli alimenti, anche se certi amori letteraripossono indurci a scelte che pagheremo ancora più care.
Esistono poi libri che valgono per tutte le stagioni, anzi che, ben invecchiati, col tempo acquistano di valore e di sapore. Primi fra essi collocherei i volumi dell’autobiografia di Ardengo Soffici, un’opera che ho divorato in più occasioni, specialmente in frangenti critici (l’ultimo è stato il cosiddetto lockdown del 2020), ritraendone ogni volta quello slancio vitale, quel desiderio di vivere e di agire che l’artista toscano sosteneva di aver ricevuto in gioventù dalla lettura della Vita di Benvenuto Cellini. Accanto a essa collocherei i diari di Giuseppe Prezzolini, grande scuola di cinismo e di realismo (purtroppo i due sostantivi vanno spesso d’accordo) da cui ritraggo sempre nuove lezioni. Così come nei momenti di tristezza mi capita di sfogliare qualche pagina del Journal dei fratelli Goncourt, mediocri narratori ma sommi diaristi, capaci di portare a livelli sublimi l’arte del pettegolezzo.
Fra le riletture di queste ultime settimane un piacere imprevisto mi è stato recato da una raccolta di elzeviri di Roberto Ridolfi, Le cantafavole, pubblicato nel 1977 dalla Sansoni presso la tipografia Giuntina di Firenze. Di solito non aggiungo mai nella citazione di un libro l’indicazione dell’azienda stampatrice a quella dell’editore, ma in questo caso mi sembra giusto fare eccezione. Intanto perché, nella beata età del piombo, conclusasi negli anni Ottanta, il tipografo non era un mero stampatore, ma convertendo in caratteri un testo dattiloscritto (o a volte, come credo nel caso del marchese Ridolfi, manoscritto), sovrintendendo a tre o quattro giri di bozze, correggendo spesso “refusi d’autore”, poteva essere in certi casi considerato coeditore del testo. La Giuntina, poi, era la prima tipografia di Firenze e una delle prime d’Italia, con maestranze ipersindacalizzate ma bravissime, capaci di comporre a mano in greco e in ebraico, e aveva sede a Firenze, in via Ricasoli, in locali per la verità mal aerati, in un palazzotto dove aveva sede per una singolare coincidenza anche la Siae.
Dal 1980 al 1985 trascorrevo due giorni e mezzo della settimana in un bugigattolo senza finestre dove, accanto a un correttore di bozze, redigevo e impaginavo, naturalmente a piombo, il settimanale dell’Associazione Industriali di Firenze. Narrare come fossi arrivato a quell’incarico, che mi consentiva di aggiungere un reddito certo agli aleatori guadagni di insegnante precario, meriterebbe un intero Giornale di Bordo, forse due. Mi limiterò a dire che mi capitò spesso d’incontrare il marchese Ridolfi a correggere le bozze della “Bibliofilia” sui banconi dei tipografi, come del resto facevano quasi tutti gli autori, anche i più prestigiosi, a partire da Gioacchino Volpe, che tagliava di persona i suoi articoli per il “Tempo” di Angiolillo quando le righe risultavano esuberanti rispetto al menabò. Un residuo di adolescenziale timidezza m’impedì sempre di fermarlo per parlargli; eppure avrei avuto molto da dirgli: la mia ammirazione per la sua biografia del Savonarola, che avevo studiato nel primo anno d’università, la mia empatia per le pagine intense anche se a tratti un po’ frettolose della sua vita di Giovanni Papini, scritte a caldo dopo la morte dello scrittore, e soprattutto la mia gratitudine per avere concesso il permesso di ripubblicare un suo ricordo di Ardengo Soffici nel volume L’uomo del Poggio, che Sigfrido Bartolini aveva curato nel 1979 in una splendida veste editoriale per i tipi di Giovanni Volpe, e cui avevo collaborato anch’io. Pubblicare con Volpe, editore di destra che non esitava a definirsi “monarchico e non antifascista”, richiedeva coraggio; ma il marchese Ridolfi, che per altro non nascondeva l’affetto per “il mio re” e l’insofferenza nei confronti della partigianeria di certo antifascismo, poteva permettersi questo lusso anche quando al “Corriere”, di cui era elzevirista princeps, imperversava “l’eschimo in redazione”. Così come del resto si era permesso di dare del lei a Mussolini, che l’aveva ricevuto in udienza nei primi anni Quaranta, e il duce, rispettoso forse del nobile di antico casato, forse dello studioso, gli si era rivolto anche lui usando la terza persona.
Dalla rilettura delle Cantafavole, di cui consiglio una lenta degustazione, come di un denso vino “da meditazione”, ho scoperto uno straordinario idem sentire col marchese Ridolfi, uno di quei conservatori che a volte, per esempio sui temi della difesa dell’ambiente, si sono rivelati molto più avanti con i tempi di tanti progressisti. Ho sorriso dei suoi giudizi agrodolci sui fiorentini, inclini a “coprire gli affetti con i dispetti, la tenerezza con gli sberleffi”, nonché da sempre usi amare “i fiorini più del prossimo loro e quindi, essendo buoni cristiani, più di se stessi”. Ho scoperto di condividere con lui un culto feticistico per la carta che m’induce a riempire casa di fogli di risulta, magari rovesci di dattiloscritti. Ho trovato nelle sue pagine conferma dell’errore che commisi quando cercai di dare alla mia biblioteca un presunto ordine razionale, raggruppando i volumi per argomento (catalogazione per altro sempre opinabile) invece di lasciarli nella disposizione in cui li avevo deposti quando li avevo comprati: anche lui confessava come me che “il male è cominciato da un po’ di tempo a questa parte, dopo che, per un maggiore ordine, ho voluto mutar posto a molti volumi, raggruppandoli secondo le materie”. Da allora “al primo posto trovo solamente quelli rimasti dove li ho messi tanti e tanti anni or sono”: lo stesso accade a me. Né ho potuto fare a meno di condividerne l’auspicio che “si lasciassero i libri nell’ordine che hanno avuto nella nostra vita: i libri della fanciullezza e dell’adolescenza, della giovinezza, della maturità, fino a questi ultimi della vecchiaia”. “La nostra vita – sosteneva – ci apparirebbe riflessa negli scaffali: gli anni felici e gli anni infelici, le strettezze e l’agiatezza, il lavoro e gli ozi, l’indebolimento senile e la finale stanchezza; una autobiografia biblioteconomica, anche se non c’è da sperare di vederla considerata nei trattati di biblioteconomia.”
Certo, non tutti hanno la fortuna di poter trascorrere tutta la vita nella stessa abitazione, e per giunta in una villa avita come la Baronta, la casa di famiglia dove Roberto Ridolfi abitava nei pressi di Firenze. Ma almeno un’autobiografia biblioteconomica della memoria dovremmo coltivarla tutti. Senza dimenticare però che, come scrisse un altro grande conservatore, Giovanni Ansaldo, noi crediamo di possedere una biblioteca, ma spesso è proprio la biblioteca a possedere noi.
Bell’articolo. Complimenti!