Max Verstappen è campione del mondo. L’olandese, a ventiquattro anni, alla prima stagione su una vettura realmente in grado di giocarsela, sugella così un 2021 da sogno: 10 pole positions, 10 vittorie (inclusa quella decisiva di Abu Dhabi) e un duello all’ultimo giro con Lewis Hamilton, dominatore incontrastato (eccetto il 2016) dell’era turbo ibrida.
A Hamilton va l’onore delle armi, al suo team meno: se infatti la Mercedes si è laureata per l’ottava volta di fila regina tra i costruttori, la squadra ha spesso sbagliato quando si è trovata nei momenti topici, per quanto sia facile parlare col senno di poi.
In questo senso, è stato esemplificativo il fine settimana di Abu Dhabi: la Red Bull ha osato fin dalle qualifiche (scaricando le ali), facendo rientrare Verstappen sia con la VSC che alla fine, con tutti i rischi del caso; certo, Hamilton senza l’incidente provocato, suo malgrado, da Latifi, avrebbe gestito senza problemi gli ultimi giri, nonostante delle gomme usurate.
In ogni caso, la Mercedes si è dimostrata di nuovo imprecisa, in termini di tempismo, al momento di inventare, come richiesto dal suo alfiere via radio che infatti sarebbe voluto tornare ai box.
Invece, ancora una volta, la squadra anglo-tedesca ha peccato, evitando una qualsiasi mossa che fosse fuori dagli schemi.
Tutto l’opposto della Red Bull che, ritrovatasi ad inseguire e potendo muoversi in base alle scelte di Hamilton, ha tratto giovamento dall’evoluzione della gara.
Gli austriaci alla fine ha vinto “gioco e partita”, con il secondo campioncino allevato in casa, dopo Sebastian Vettel (vittorioso, alla guida delle vetture anglo-austriache, nel 2010, 2011, 2012, 2013).
C’è un “però”, che esula dalla pista e che è tutto concentrato nella controversa gestione della neutralizzazione di Abu Dhabi, conclusa proprio per il giro finale, con il giallo dei doppiati.
Ai piloti doppiati, infatti, prima viene negato di sdoppiarsi (al terzultimo giro) e poi concesso (alla penultima tornata), sebbene solamente a coloro i quali si trovano tra il primo e il secondo (nella fattispecie, Norris, Alonso, Ocon, Leclerc e Vettel).
La Direzione di gara, grande protagonista
Raramente, nella storia della Formula 1, si è visto un unico Gran Premio così rappresentativo di una stagione intera, quasi ad esserne lo specchio.
Invece, nel Gran Premio degli Emirati Arabi Uniti non è mancato nulla: dall’agonismo di altissimo livello, al limite, tra Hamilton e Verstappen, passando per le decisioni discutibili del Direttore di gara Michael Masi (in un modo o nell’altro sempre troppo protagonista), per arrivare alle comunicazioni tra le squadre e la Fia, puntualmente trasmesse in mondovisione, fino alle classiche polemiche post gara, con tanto di ricorsi ufficiale; insomma, una stagione 2021 in piccolo, condensata in 58 giri, anzi forse solamente nell’ultimo e nel post Gran Premio.
Assurde, in particolare, sono apparse due dinamiche, costanti: il fatto che i responsabili delle squadre si siano sentiti legittimati anche solo ad alzare la voce, cercando di “schiacciare” la volontà di Masi, che alla fine è l’arbitro del gioco; inoltre, il fatto che si sia continuato a dare interpretazioni diverse a situazioni molto simili, se non eguali, con il rischio di provocare nella prassi uno “svuotamento” delle norme del regolamento.
Hollywood
Da un punto di vista meramente sportivo, vista la sua evoluzione, questa stagione non sfigura se paragonata ad alcune delle pietre miliari dell’automobilismo sportivo.
Il problema, giova ribadirlo, è che forse ci sarebbe potuta essere una gestione maggiormente oculata e una minore ricerca esasperata dello spettacolo fine a sé stesso: così facendo, magari non ci sarebbe stato nessuno finale hollywoodiano, che la Formula 1 per altro cercava da tempo, dopo anni di dominio incontrastato di una sola squadra; nel contempo però, l’intensità non sarebbe certamente venuta meno, a differenza della credibilità.
In effetti, in termini di credibilità, la Formula 1 appare ai minimi storici e questo è un vero peccato, perché Verstappen e Hamilton se le sarebbero certamente, anche se l’arbitro avesse continuato a fare l’arbitro, non già ricoprendo un ruolo di giocatore in pista.
Poi certo, in termini di ascolti, a livello mondiale suddetti staranno crescendo; a questo punto però, ha senso chiedersi se valga la pena inseguire per forza lo show business (è ormai da tempo che Netflix si aggira tra i box per realizzare la sua serie “Drive to Survive”, già criticata da Verstappen, che infatti ha deciso di non figurarvi più, per il fatto che creerebbe rivalità inesistenti), rischiando di perdere gli appassionati più fedeli e competenti.
Non è neanche una questione “politica”, che non è mai mancata di fronti a interessi così ingenti (basti vedere la condotta della Ferrari, il suo peso, negli anni 2000) o di romanticismo, giacché ogni era ha avuto le sue situazioni non certo trasparenti o idilliache; è semplicemente il fatto che a motori spenti, resta il dubbio di capire quanto di vero o di artificiale ci sia stato nei Gran Premi ai quali si è assistito.
È indubbio, infatti, che grazie all’abuso della bandiera rossa, alle diverse interpretazioni di episodi simili (la seconda bandiera rossa di Baku, con ripartenza da fermo a pochi giri dall’arrivo contro la Safety Car mandata in pista dopo l’incidente di Latifi di domenica; nota a margine, dei due il vero scandalo resta il primo) e ad una maggiore morbidezza, quando verso Hamilton (è assurdo che l’inglese dopo il taglio di domenica al primo giro non sia stato penalizzato, diversamente da Verstappen a Gedda o da Alonso, che nel duello contro Kubica a Silverstone nel 2010, si era visto comminato un drive-through per aver tagliato la curva Vale, ottenendo un vantaggio), quando verso Verstappen, si sia cercato di tenere il campionato il più aperto possibile.
Quante analogie
Al di là delle polemiche, una curiosità: è incredibile riscontrare il numero di analogie che mettono in relazione il primo titolo di Hamilton con quello di Verstappen.
Correva l’anno 2008 e un pilota anglo-caraibico in forza alla McLaren, alla seconda stagione in Formula 1 e che aveva perso il mondiale l’anno precedente per appena un punto, arriva quinto ad Interlagos grazie al sorpasso su Timo Glock alla Junção, a tre curve dalla fine: questo risultato è il minimo che gli serviva per vincere il campionato, con un punto di vantaggio su Felipe Massa.
A distanza di tredici anni, l’inglese si è visto scivolare tra le mani l’ottavo titolo a 11 curve dalla fine, impossibilitato a difendersi dall’affondo di Verstappen che come al solito si era inventato una staccata delle sue, partendo da molto lontano.
Onore all’olandese, vincitore all’ultimo giro dell’ultimo Gran Premio, a dimostrazione della maturità ormai raggiunta.
Nel 2008 e nel 2021, il titolo costruttori è stato vinto non dalla squadra che ha espresso il pilota campione: nel 2008 toccava alla Ferrari, tredici anni dopo alla Mercedes.
Fondamentale poi il ruolo dei rispettivi papà, sempre presenti, fin dagli esordi: Anthony Hamilton da una parte, Jos Verstppen dall’altra.
Insomma, visto che tra i due ci sono ben dodici anni di differenza, la lettura che si potrebbe dare del 2021, forse un po’ troppo romantica, quello sì, è anche quella del passaggio di testimone, visto che Verstappen e Hamilton sono molto simili nel modo di intendere le corse, la velocità, il sorpasso in curva e nelle prime stagioni erano fin troppo irruenti, velocissimi ma non sempre in grado di massimizzare i risultati.
Chissà cosa ci riserverà il futuro.
Il tutto, ovviamente, aspettando la Ferrari, chiamata ad un grande 2022.