Pubblichiamo la traduzione dal tedesco di “Visita a Céline” di Armin Mohler, dal volume “Von Rechts Gesehen” (Stuttgart 1974, rielaborazione dell’articolo pubblicato in Die Tat Zurigo 8.7.1961)
Louis-Ferdinand Céline, il grande guerriero della poesia francese, è morto. Quando nei giornali uscì la prima incerta notizia, che stesse male, in realtà era già morto e sepolto. All’inizio non si seppe neppure dove fosse stato seppellito. A poco a poco filtrarono notizie sulle circostanze della sua morte, che lui stesso avrebbe potuto anche aver inventato. Mentre la vedova si trovava insieme con pochi amici al cimitero, alcuni entrarono in casa e rubarono una parte dei manoscritti (sconosciuti li offrirono poi qua e là in vendita a librerie antiquarie). I ladri non portarono via il manoscritto cui stava lavorando, che rimase ancora sulla sua scrivania. L’ultima frase interrotta riguardava i cinesi che avanzavano verso Cognac e lì affondavano nell’ubriachezza.
Céline nell’Académie Francaise
L’irruzione di Céline nel 1932 nei giardini custoditi con cura dall’Académie Francaise e dalla Sorbona è l’ultimo grande avvenimento della poesia francese (non della letteratura). Il suo primo romanzo allora uscito “Viaggio al termine della notte” (il titolo è tratto dalla canzone Beresina degli svizzeri che andarono in Russia con Napoleone) con il suo recupero non solo dell’argot, ma soprattutto della lingua veramente parlata, vissuta, respirata affannosamente, ha dato ancora una volta nuova forza alla poesia del suo paese. Uomini come Sartre, Malraux hanno sempre ripetutamente e consapevolmente riconosciuto, al di là di ogni contraddizione ideologica, che senza questa rottura della diga, sarebbe stata impossibile la produzione della maggior parte di ciò che è stato scritto da allora in Francia al di fuori degli schemi classici.
Céline è così rimasto prigioniero di questa prima grande creazione. Quello che ha scritto successivamente nella sostanza non era altro che una catena di variazioni sempre nuove del “Viaggio al termine della notte”, un flusso di prosa selvaggio e discreto ma anche spudoratamente tenero, in cui ancora e ancora i tre punti sostituiscono i consueti segni della punteggiatura. E questi punti sono segni del respiro, perché nella sua poesia la scrittura è solo un ripiego; esse deve essere ascoltata. Gli intenditori custodiscono come un tesoro speciale i dischi in cui lo stesso poeta o attori come Arletty o Pierre Brasseure leggono questa prosa. Allora improvvisamente si avverte quale ritmo abbia, si percepisce la “sicura melodia” di cui solo pochi poeti sono capaci.
Medico dei poveri
Negli ultimi anni Céline ha vissuto con stravagante timidezza in una casa malridotta delle banlieue occidentali. Nell’ambulatorio di questo medico dei poveri veniva ancora a malapena qualcuno – perché non poteva valere qualcosa un medico che a differenza dei suoi colleghi francesi non prescriveva mucchi di medicine ed il più delle volte si dimenticava di chiedere l’onorario. Viveva di quello che la sua coraggiosa ed imprescindibile giovane moglie guadagnava con le lezioni di balletto e ginnastica correttiva. Tre o quattro anni fa lì feci visita a quest’uomo ora morto a sessantasette anni. I consigli di uno dei suoi pochi amici consentirono che quella porta altrimenti chiusa si aprisse per me ed un mio amico svizzero mezzo russo per origini. La richiesta di poter fare visita seguì il rituale francese: scrissi una lettera in cui annunciavo che e quando avrei chiamato per chiedere se potessi fargli visita (la telefonata di uno sconosciuto senza un preavviso scritto è considerata in Francia una grossolana mancanza; lo stesso semplice suonare alla porta di casa senza essersi preannunciati è sentito come una sgradevole intromissione nella sfera privata). Scriva che lei viene dalla Svizzera, ero stato avvertito; Cèline non vuole più vedere francesi, e neanche tedeschi.
Una sensazione particolare: sentire la sua voce al telefono dopo letture prolungate per anni dei libri di Céline: ruvida, scostante, come esplosa, eppure vibrante in modo particolare. Bene, possiamo andare. Fissati giorno ed ora. “Ma niente foto – non mi piacciono – questa è roba per…e (stira le parole in lunghezza pieno di disprezzo)…i giornaliiiisti, per i cineaaaasti…”.
L’ingresso in casa Destouches
All’ora stabilita stiamo di fronte al cancello del giardino “Dottor Destouches” – questo è il nome vero di Cèline – sta scritto su una targa arrugginita; accanto, in una un po’ più lucida è indicato l’orario delle lezioni di danza di Madame Lucette Almanzor, sua moglie. Siamo ai limiti di Meudon, nella tristezza del paesaggio della Banlieue, in cui tutto appare frammentato: strade iniziate, giardini malridotti, case costruite per errori in falsi stili. La casa dietro nel giardino è un edificio in stile classicista, su cui nel frattempo povertà e solitudine hanno strisciato. Dopo aver suonato qualcuno ci ha fatto cenno, entriamo in giardino e andiamo verso la casa. Il lungo viottolo passa vicino agli alani ed ai pastori tedeschi di cui si circonda il misantropo Céline. Ci mostrano i loro denti dietro una rete e poi dietro una porta a vetro del seminterrato. L’abbaiare dei cani dietro la porta è meno stridente nelle orecchie di quello degli animali chiusi nella gabbia, ma il rumore attutito dal vetro lo rende più minaccioso.
La figura che ci aveva fatto cenno dal seminterrato è ora all’angolo della casa. E’ Céline. La sua vista rimarrà per me indimenticabile. Porta una vestaglia logora, pantaloni svolazzanti e pantofole. Non indossa una camicia. Dall’apertura della vestaglia si vedono una maglia, una parte del collo, una sciarpa tenuta stretta. I capelli lunghi pendono su collo; la barba stoppacciosa è lunga centimetri. Non alza gli occhi quando allontanandosi ci porge la mano. E neppure li alza quando prendiamo posto nel suo studio nell’interrato.
Il tavolo con il gatto
Anche questa stanza rimarrà per me indimenticabile. L’ampio tavolo, le seggiole sono sommerse da carte e libri come fosse una sedimentazione geologica. Al centro del tavolo, sulle carte, un gatto dorme con le zampe distese. Quando più tardi il pappagallo nella gabbia gracchierà con la voce roca, gli darà un occhiata per riprendere a dormire immobile nella stessa posizione. Dietro il poeta sprofondato sulla sua sedia carte colorate sono appuntate al muro. Da lontano sembrano come delle icone; una volta mi avvicino e scopro che sono preparati per i muscoli.
“Non più niente da dire”
“Cosa volete da me?” sbotta Céline. “Io non ho più niente da dire”. Quindi questo è lui. Siamo contenti che alla fine della guerra abbia trovato rifugio in Danimarca, che allora i francesi non ebbero la possibilità di commettere a suo danno brutalità come i norvegesi con il loro grande poeta Hamsun, e gli americani con Ezra Pound. La conversazione non fluisce serena. Abbiamo portato una preziosa bottiglia di Pommard d’annata, che vogliamo regalare a Céline. Annoiato ci fa cenno di no.
“Bevetela alla mia salute – io bevo solo acqua e mangio solo pasta”. Naturale, ci siamo dimenticati dei molti passaggi nei suoi libri in cui insulta i francesi, un popolo instupiditosi per colpa dell’alcol. La conversazione avanza faticosamente. Diventa vivace solo quando Céline per circa un minuto – è un cabaret con più stili – infila una dietro l’altra frasi beffarde su che cosa per esempio debba essere considerato in Francia come “bello stile”. E aggiunge che nella letteratura francese contemporanea al fuori di lui solo tre scrittori avrebbero veramente uno stile: il giovane Morand, il Barbusse de Il Fuoco e infine Ramuz (l’ultimo nome non è una lusinga per i visitatori, anche poi ritornerà di nuovo su Ramuz).
Ma la conversazione non procede, Céline non ha ancora alzato il suo sguardo. Rassegnato cerco una formula per poter prendere commiato e mi dico: avresti dovuto sapere che non ha alcun senso rendere vista ad un grande uomo.
L’incontro con Jünger,
Poi mi viene un’idea diabolica. Io voglio destare quest’uomo che così si è fatto da parte, io voglio che mi mostri il suo viso che così spesso ha avuto davanti a me nelle mie riflessioni. E sento improvvisamente, fulmineamente, come possa farlo uscire dalla sua maschera. Cèline era tornato dall’esilio nel 1951. E proprio nel 1951 uscì a Parigi la traduzione di Irradiazioni di Ernst Jünger, il suo diario durante la II guerra mondiale. In questo diario si trova una esplosiva conversazione che Jünger ebbe con un francese durante l’occupazione della Francia. La persona è citata sotto pseudonimo, ma il traduttore francese invece dello pseudonimo scrisse all’insaputa di Jünger semplicemente: Céline. Da questa indiscrezione derivò una sequela di conseguenza sgradevoli per entrambi; si andò persino in tribunale. La cosa più sgradevole per Céline era che con il suo ritorno in Francia si erano di nuovo infiammate discussioni ormai sopite sul suo supposto collaborazionismo con i tedeschi. Tutto questo mi viene improvvisamente in mente e dico a Céline che lui ci ha accolto molto amichevolmente, e che io non voglio tacere di essere stato il segretario di Ernst Jünger.
L’effetto è stupefacente. Per la prima volta Céline alza la testa, per la prima volta i suoi occhi mi osservano. E dalla sua bocca esce una lunga catena di fredde maledizioni – le maledizioni che si trovano tante volte nei suoi libri. Due espressioni ripete sempre di nuovo:”…ce petit boche là…cette espéce de flic…”. Il mistero è poi che Céline non si adirò minimamente, non alzò per niente la voce. Non è isterico, oppure si tratta di un’isteria di ghiaccio. Nominare quel nome lo ha svegliato. Ci accompagna per il corridoio verso la porta di casa e chiacchiera con noi quasi con giovialità. Osserva il mio accompagnatore di lato e lascia cadere: “lei ha una bella barba…una barba come Trotzsky”. La persona con me fa spallucce, io intervengo, Céline getta là con disprezzo: “Oh, Trotzsky era un “malin”…”Questo significa: intelligente, furbo con una venatura di subdolo; per Cèline in questo caso è un termine positivo, tanto che poco prima ha chiamato anche un suo gatto “malin”. (I lettori di Céline sanno che egli attraversò la Germania in fiamme della disfatta con il suo gatto preferito Bebert tenuto in una sacca appesa sulla sua pancia).
Un bardo celtico
Céline ci accompagna in giardino. La conversazione diventa sempre più viva. In casa durò circa dieci minuti; qui fuori andò avanti per altri tre quarti d’ora, mentre i cani rabbiosi ringhiavano nei loro recinti. Un vecchio naufrago ci aveva accolto. Ora davanti a noi si erge un trasformato Céline sorprendentemente giovane. (più tardi mi dirà un uomo che lo conosce:”E’ sempre stato così, anche al tempo de Il Viaggio al termine della notte. Se si trascorreva un’intera serata con Céline, si aveva così in due momenti della serata l’impressione che fosse morto. Ma tra quei momenti egli brillava…”
Da Céline irrompe ora con forza travolgente il vecchio eterno contenuto dei suoi libri, nulla si è spento, né l’odio né ciò che in lui è amore coperto dalla grossolanità. Così egli si presenta come un bardo celtico. Il mio accompagnatore gli chiede se la frequente menzione dei celti nel suo lavoro sia solo una coincidenza. “In nessun modo – risponde Céline – la mia prima moglie era bretone. E allora, che si dice dei celti? Erano poeti – e lo sono anch’io; erano sporchi, ed io anche; erano ubriaconi – no, questo non lo sono, io non mi ubriaco…”.
La villa del generale
Della lunga sequela di immagini, di parole, mi è rimasto ancora in mente come egli indicasse una villa abbandonata lì vicino. Là precedentemente aveva trascorso gli anni della pensione un generale, che nel XIX secolo durante una delle molte agitazioni a Parigi aveva fatto sparare sui dimostranti. Céline non parla di lui con disgusto, nè con piacere, ma con una sorta di sottolineato disprezzo. Talvolta guarda nella direzione di Parigi,- dove una foschia fumosa annuncia la grande città. Da tanto tempo non è stato più là, e non ci si recherà più.
Piano piano il fuoco comincia di nuovo a spengersi. Céline si chiude di nuovo in se stesso, ci salutiamo. Il poeta torna a tentoni in casa, nel suo studio, dove non va più nessuno, perché là dentro ci sono troppo pochi strumenti lampeggianti. Mentre noi accompagnati dal ringhiare roco dei cani lasciamo quel giardino trascurato, ci viene in mentre quello che Céline disse quando una volta usai l’espressione “les Francais”. “I francesi?” aveva riso roco “ma non ce ne sono proprio più! Io sono l’ultimo francese…”.