Il “modello cinese” sembra piacere. E’ quanto emerge dal XIII Rapporto sulla Dottrina sociale della Chiesa nel mondo dell’Osservatorio Cardinale Van Thuân (Cantagalli, Siena 2021, pagg. 222, euro 16,00).
Piace ai Paesi africani, che lo apprezzano e vi collaborano – a loro dire – per ridurre la povertà; piace ai governi occidentali per contenere, tramite il controllo sociale e la sospensione delle libertà, gli effetti (presunti) del Covid e procedere verso una democrazia della sorveglianza; piace ai media occidentali in genere, molto tolleranti con gli eccessi di un sistema totalitario a partito unico; piace agli imprenditori occidentali, che hanno ormai bisogno del mercato cinese e non vogliono contrasti politici con Pechino; piace perfino al Vaticano, che tramite il Presidente della Pontificia Accademia delle Scienze sociali, l’arcivescovo Sánchez Sorondo, ha lodato la Cina per aver realizzato concretamente i principi della Dottrina sociale della Chiesa (sic).
Modello cinese
“Il Modello cinese – scrive Stefano Fontana, direttore dell’Osservatorio Cardinale Van Thuân – vuole essere una convivenza tra capitalismo e socialismo, accentramento e autonomia, ordine e libertà, tra ateismo e tradizioni religiose. L’economia non è statalista ma ugualmente centralista. Il controllo dei movimenti e della stessa vita dei cittadini è totale. L’ordine è considerato il fine che giustifica la sospensione dei diritti umani e delle libertà individuali. Le religioni tradizionali sono tollerate ma solo se accettano la “sinizzazione” atea. La Cina si dice comunista ma fa affari con ogni mezzo sui mercati economici e finanziari. Si dice atea ma firma accordi segreti col Vaticano. Può controllare in pubblico e fingere di tollerare in privato. Può dire di essere rivoluzionaria e conservatrice nello stesso tempo: continuare la rivoluzione culturale e stoppare ogni manifestazione di piazza”.
Il Rapporto, essenziale per fotografare la realtà cinese, il suo potere e le sue strategie, può essere letto anche come un invito al nostro mondo, al mondo europeo, per attivare le doverose contromisure politiche e geopolitiche all’invasività di Pechino.
Le analisi di Bell e Rampini
Su questa strada ci piace indicare due libri: “Il modello cinese” (Luiss, 2019) di Daniel A. Bell (sociologo canadese, considerato il maggior esperto occidentale di politica cinese) e “Fermare Pechino” (Mondadori, 2021) di Federico Rampini (corrispondente estero, prima de “La Repubblica” ed oggi del “Corriere della sera”).
Bell focalizza la sua analisi sulla meritocrazia politica, che con la sua straordinaria efficienza e i suoi sorprendenti risultati sembra mettere a dura prova le nostre convinzioni: crescita economica costante, sempre maggiore prestigio internazionale, una macchina amministrativa efficiente sembrerebbero dimostrare che il modello cinese funzioni molto meglio di quelli ai quali siamo abituati, evidenziando nel contempo che la meritocrazia politica potrebbe rappresentare un’importante risorsa per la democrazia occidentale oggi in crisi.
Rampini mette a nudo gli aspetti meno noti della Cina di Xi Jinping, con un viaggio insolito nella cultura etnocentrica e razzista degli Han, le abitudini di vita dei Millennial, l’imperialismo culturale nella saga cinematografica del Guerriero Lupo, la letteratura di fantascienza come stratagemma per aggirare la censura, la riscoperta di Mao, le mire aggressive, il militarismo. Senza sottovalutare il groviglio di sospetti che ancora circondano le origini del Covid. Nella misura in cui per fermare Pechino o comunque per “raffreddarne” la spinta propulsiva – è l’analisi di Rampini – occorrerebbe che le democrazie occidentali contassero sulla coesione, sul nazionalismo e sull’autostima che animano i cinesi, la grande questione con cui, come europei, dobbiamo imparare a fare i conti, è con la nostra mancanza di consapevolezza rispetto ai rapporti di forza in campo.
Oltre il tramonto dell’occidente
E qui ritorniamo al XIII Rapporto sulla Dottrina sociale della Chiesa nel mondo dell’Osservatorio Cardinale Van Thuân, per chiedere: siamo disponibili ad “investire” sul nostro ruolo geopolitico? Vogliamo affrontare il tema della nostra “coesione” interna? Siamo pronti a misurarci con le sfide della tecnologia, dell’economia globalizzata, dei nuovi modelli di sviluppo? Siamo capaci di sacrificarci in nome dell’efficienza di sistema? Vogliamo provare a declinare, all’interno dei nostri sistemi di rappresentanza politica, le grandi questioni della meritocrazia e quindi del ruolo delle competenze?
Al di là del Pil, delle capacità produttive, della tenuta dei nostri mercati qui si gioca la partita. Al fondo la necessità di scrollarci finalmente di dosso l’idea di un tramonto irreversibile, ritrovando una volontà di potenza che storicamente ci appartiene, ma che qualcun altro ha bene imparato a praticare al nostro posto.