Non v’è dubbio come quello della peste sia un tema molto diffuso nella letteratura sia antica che moderna. Lo è soprattutto in considerazione del fatto che l’idea del morbo generatosi da una fonte sconosciuta e che esplode improvvisamente causando, con rapidità e su vasta scala, morte e distruzione, di certo va a incidere nell’immaginazione di scrittori e poeti.
La prima attestazione in assoluto di pestilenza nella letteratura occidentale è quella narrata nel primo libro dell’Iliade (1, 9ss), e in cui si fornisce un’interpretazione del contagio come se fosse, evidentemente, di tipo religioso: il morbo altro non è che la conseguenza dell’ira di Apollo a seguito del rifiuto di Agamennone di dare indietro la sua schiava Criseide al padre, nonché sacerdote di Apollo stesso, Crise.
Tuttavia, la prima vera e propria testimonianza storica di un’epidemia si deve a Tucidide. Questi nel Libro II delle sue Storie (47-54) descrive scientificamente – ossia, non ricorrendo a eventi o forze metafisiche e senza alcun pregiudizio morale o sentimentale – i sintomi appunto di un’epidemia, a lungo catalogata come pestilenza, pur se gli esperti oggi ne dubitano, optando per febbre tifoide, vaiolo o altro. Il che, tuttavia, poco importa, poiché presentava le caratteristiche di tutte le epidemie. Nella fattispecie, quella che colpì Atene tra il 430 e il 427 a. C., e di cui Tucidide stesso fu testimone. Essendo uno storico – il «maestro di tutti gli storici» – la sua analisi è condotta in maniera assolutamente oggettiva:
«Si dica pure su tale argomento quel che ciascuno pensa, medico o profano che sia, tanto sulla probabile origine della pestilenza, quanto sui fattori capaci d’indurre un così repentino cambiamento dello stato di salute. Al contrario, io racconterò di che genere sia stata, e ne mostrerò i sintomi, che si potranno tenere presenti per riconoscere la malattia stessa, nel caso scoppiasse nuovamente. Giacché io stesso ne sono stato affetto e ho visto altri malati che ne sono stati colpiti». (48, 3)
Sicché, Tucidide, in un crescendo sempre più drammatico, illustra in sequenza: la diffusione geografica del morbo, le ipotesi sulle sue cause (una vera e propria azione di guerra batteriologica da parte dei Peloponnesiaci o Spartani contro gli Ateniesi), i suoi aspetti patologici, con una precisa descrizione dei primi sintomi, la fase intermedia, con l’acutizzarsi del morbo stesso, e quella finale che precede la morte o la guarigione con postumi:
«Subito dopo l’inizio dell’estate i Peloponnesiaci e i loro alleati invasero l’Attica […]. Erano nell’Attica solo da pochi giorni allorquando la peste iniziò a manifestarsi per la prima volta tra gli Ateniesi […] Il primo luogo in cui iniziò a manifestarsi fu, a quel che si dice, l’Etiopia, nella zona al di là dell’Egitto, poi si espanse anche nell’Egitto stesso, nella Libia e nella maggior parte della terra del re. Nella città di Atene piombò improvvisamente, e i primi abitanti che colpì furono quelli del Pireo. Sicché, tra loro, pure si disse che i Peloponnesiaci avevano avvelenato i pozzi; là, difatti, non v’erano ancora fontane. In seguito, la peste anche giunse nella parte alta della città, e da allora i morti aumentarono di molto. […] Senza nessuna causa apparente, all’improvviso, le persone venivano investite da violente vampate di calore alla testa e da arrossamenti e infiammazioni agli occhi. Quanto alle parti interne, la faringe e la lingua diventavano da subito sanguinolente ed emettevano un alito insolito e fetido. Dopo questi sintomi sopraggiungevano starnuti e raucedine. Trascorso poco tempo il male arrivava al petto, accompagnato da una tosse accentuata. Una volta colpito lo stomaco lo sconvolgeva, provocando svuotamenti di bile di tutti i generi e forti dolori. Nella maggior parte dei malati si manifestavano conati di vomito, il che generava violente convulsioni. Esternamente, il corpo non era troppo caldo a toccarlo, né pallido, ma rossastro, livido e con eruzioni di piccole pustole e ulcere. Internamente, al contrario, ardeva così tanto che i malati non sopportavano neppure vesti o teli di lino leggeri, ma solo l’andar nudi. Il più gran sollievo sarebbe stato quello di gettarsi nell’acqua fredda. Così fecero invero molti malati trascurati, che si gettavano nei pozzi, in preda a una sete inestinguibile. Ma il bere di più o di meno dava lo stesso risultato. La difficoltà di riposare e l’insonnia li affliggevano in continuazione. Il corpo, per tutto il tempo in cui la malattia era acuta, non deperiva, inaspettatamente resistendo alla sofferenza. Cosicché, in maggioranza, quei malati che ancora avevano un po’ di forza perivano tra il settimo e il nono giorno a causa del calore interno. Se, al contrario, sopravvivevano a questa fase, la malattia andava a colpire l’intestino e produceva forti ulcerazioni e una violenta diarrea, finendo così gli ammalati per morire di sfinimento. Difatti il male, inizialmente localizzato nella testa, percorreva tutto il corpo per poi raggiungere le estremità, fino ai genitali, alle punte delle mani e dei piedi. Molti si salvarono perdendo tali parti e alcuni pure gli occhi. Altri, allorquando si ristabilivano, sul momento erano anche colti da amnesia, non riconoscendo più se stessi e i loro familiari. Il morbo colpiva con una violenza maggiore di quanto potesse sopportare la natura umana. Soprattutto in un particolare esso mostrò di essere diverso dalle solite epidemie: essendo rimasti molti morti insepolti, gli uccelli e i quadrupedi che si cibano di cadaveri o non si avvicinavano o, se si cibavano di quei resti, morivano». (47, 2-3; 48, 1-2; 49, 2-8 / 50, 1)
Quanto ai rimedi:
«Neppure i medici erano di aiuto, a causa della loro inesperienza, visto che curavano la malattia per la prima volta; o meglio loro stessi morivano più di tutti, in quanto più di tutti si avvicinavano ai malati […]. Alcuni di questi morivano per mancanza di cure, altri morivano egualmente pur se molto ben curati. Non venne trovato alcun rimedio, per così dire, che si potesse applicare in generale allo scopo di determinare un miglioramento. Difatti, quel che era di giovamento a uno, era dannoso a un altro. Nessun organismo, robusto o debole, si dimostrò sufficientemente forte per resistere al male che, indistintamente, uccideva tutti, inclusi coloro che erano curati con ogni genere di dieta». (47, 4; 51, 2-3)
Inoltre la pestilenza determinò altri risvolti tragici:
«La cosa più terribile in assoluto era lo scoraggiamento da cui uno era preso allorquando si accorgeva di essere ammalato (poiché i malati da subito erano colti dalla disperazione, peggiorando la loro condizione e non riuscendo più a resistere), nonché il fatto che per curarsi a vicenda si contagiavano e morivano l’uno dopo l’altro, come pecore: era questo che causava il maggior numero di morti. Se per paura non erano disposti a farsi visita vicendevolmente, morivano abbandonati, restando molte case spopolate per mancanza di qualcuno che prestasse le cure necessarie ai malati che le abitavano. Se, al contrario, si accostavano alle persone, morivano per contagio, soprattutto coloro che cercavano di agire con generosità. Difatti, grazie al loro senso dell’onore costoro non si risparmiavano, recandosi dai loro amici. Questo perché alla fine perfino i familiari trascuravano, per la stanchezza accumulata, il compiangere coloro che morivano, sopraffatti com’erano dalla gravità del male. Tuttavia, più di chiunque altro erano i sopravvissuti ad avere compassione per chi stava morendo o era malato, poiché avendo già sperimentato la malattia si sentivano oramai in uno stato d’animo tranquillo. Il morbo, difatti, non colpiva due volte la stessa persona così da ucciderla». (51, 4-6)
Tucidide prosegue il racconto soffermandosi sul disagio dovuto all’«afflusso della gente dai campi», nonché sul loro vivere «d’estate in baracche soffocanti», causando enorme affollamento e con i corpi di persone morenti «ammassati l’uno sull’altro» (52, 1-3), sui «modi di sepoltura indecenti» (52, 4), sulle «numerose infrazioni alla legge», vantaggiose anche in termini di piaceri sessuali, e sul mancato timore, da parte di coloro che le commettevano, «degli dei o della legge degli uomini», convinti che «una pena molto maggiore era già stata decretata contro di loro, sicché era ragionevole godersi un po’ la vita prima che tale punizione li investisse» (53, 1-4).
Nonostante siano trascorsi ben venticinque secoli dalla tremenda pestilenza che s’abbatté su Atene, decimando durante tre anni probabilmente oltre la metà dei suoi abitanti, risultano per certi versi straordinarie – com’è facilmente verificabile – le similitudini tra la descrizione, oggettiva e particolareggiata, della stessa fornita dal grande storico greco Tucidide e l’angoscia e i patimenti che il mondo odierno da due anni a questa parte sta vivendo a causa del Covid-19: una tragedia che ha condizionato, condiziona e continuerà a condizionare chissà per quanto tempo ancora la nostra vita più di ogni altro tragico evento occorso dopo la Seconda guerra mondiale.
[La prima versione di questo articolo è stata pubblicata in portoghese nel volume collettivo «Os Dias da Peste». Centenário do PEN Internacional 1921-2021. Organização de Teresa Martins Marques e Rosa Maria Fina. PEN Clube Português/Gradiva Publicações S. A., Lisboa 2021: 100-103.
I testi riportati sono stati da me liberamente tradotti da: Tucidide. Le storie. Testo greco a fronte. A cura di Guido Donnini. De Agostini Libri, Novara 2014, 2 voll.: I, 346-357].