Pubblichiamo nel giorno in cui ricorre il celebre seppuku del D’Annunzio giapponese, il reportage dalla capitale del Giappone della scrittore Tiziano Terzani, alla ricerca della memoria del scrittore e patriota Yukio Mishima a quindici anni dalla morte. L’articolo, pubblicato da Repubblica, è del 1985. Un documento prezioso, che conferma come sulla stampa di sinistra del tempo ci fossero meno pregiudizi e meno conformismo di quello che registriamo nei nostri giorni. Barbadillo ***
TOKYO – Due teste mozze su un tappeto insanguinato, due corpi sbudellati, tre giovani sull’ attenti in strane uniformi giallo-marrone e soprattutto un grande, indicibile silenzio. Chi, a mezzogiorno del 20 novembre 1970, si affacciò in quella stanza, nel Quartier generale dell’ esercito giapponese ad Ichigaya, nel cuore di Tokyo, l’ ultima immagine di Yukio Mishima, uno dei più grandi scrittori giapponesi di questo secolo, se la ricorda così: nel sangue e nel silenzio. Mishima aveva appena arringato dall’ alto di un balcone una folla di soldati, giù nel cortile. “Rifacciamo del Giappone quello che era… vi interessa solo vivere, lasciando che lo spirito muoia?”, aveva urlato fra i lazzi e gli improperi della improvvisata platea. “Vi farò vedere che c’ è ben altro valore che quello della vita. Non la libertà, non la democrazia, ma… il Giappone,… il Giappone!”. Rientrò, si tolse l’ uniforme del suo esercito privato (che indossavano anche i quattro giovani che lo accompagnavano) ed urlando “Viva l’ Imperatore!” con tutto il fiato che aveva si sventrò lentamente. Uno dei suoi seguaci gli mozzò la testa. A sua volta, costui si sbudellò ed un compagno lo decapitò. All’ enorme trambusto di poco prima seguì un attonito silenzio.
Da quel giorno sono passati 15 anni e il silenzio attorno a Mishima, in Giappone, continua. I suoi romanzi non vengono praticamente più ristampati, veri libri su di lui non esistono, il film che gli americani hanno appena fatto sulla sua vita non è stato ammesso al Festival del Cinema di Tokyo, ed è ormai chiaro che verrà bandito dagli schermi di questo paese. Perchè? Sono andato a chiederlo all’ uomo che fu fra gli amici più intimi di Mishima, uno che quel giorno di quindici anni fa si trovava al quartiere generale di Ichigaya ed era presente quando il cadavere di Mishima venne portato via in una cassa di legno: l’ autore della prima, grande biografia di Mishima (ora tradotta in italiano da Feltrinelli: Vita e morte di Yukio Mishima, pagg. 300, lire 29.000). Non è un giapponese ma un gaijin, “uno di fuori”, Henry Scott Stokes, venuto qui più di vent’ anni fa come giornalista, prima del Times di Londra, poi del New York Times e che vive ancora qui, sempre a scrivere di Giappone. “Mishima vivo poteva non essere preso sul serio, poteva venir messo da parte come un istrione, come un giullare un po’ matto. Ma Mishima morto è un peso enorme per alcune verità che ha detto, per quell’ enorme gesto provocatorio che fu il suo suicidio, un hara-kiri fatto alla maniera classica come una cerimonia, una preghiera. Ma una preghiera rivolta a chi? I giapponesi di oggi non sono ancora in grado di fare i conti con lui. La sua memoria in qualche modo li perseguita perchè non è affatto detto che quelle idee di destra, quelle idee “fasciste” che Mishima sosteneva siano cosa del passato e basta. Per questo evitano di parlarne e vorrebbero che anche noi non ne parlassimo. Proprio in questi giorni sono andato a ricercare alcuni film in cui Mishima appariva come attore: bene, non sono riuscito ad ottenere il permesso di avere un paio di sequenze per un documentario che la Bbc sta facendo su di lui”. Mishima è dunque un tabù. Ma in Giappone l’ unico tabù non è l’ imperatore? “Il punto è proprio questo. Nessun giapponese osa dirlo chiaramente, ma il suicidio di Mishima, apparentemente compiuto in nome dell’ imperatore, è in effetti un gesto critico nei confronti di Hiro Hito”. In che senso? “Tutto deve essere riportato agli ultimi mesi della Seconda Guerra Mondiale ed ai primi mesi dell’ occupazione americana. L’ imperatore non si prese mai la responsabilità della resa. Avrebbe potuto abdicare in favore del figlio e ritirarsi in un tempio; ma non lo fece. Inoltre, il primo gennaio 1946 pronunciò quel famoso discorso in cui dichiarò di essere un comune mortale, non una creatura divina. Ma con ciò rinnegava il sacrificio di milioni di persone, morte per lui. “Nell’ autunno del 1960 Mishima scrisse un racconto di sole quindici pagine dal titolo “Patriottismo”, in cui descrive il hara-kiri di un giovane tenente al tempo della rivolta del 1936, che appunto mirava alla purificazione dell’ impero. E nel 1966 scrisse “Le voci degli eroi morti”, un esplicito atto d’ accusa contro l’ imperatore. E’ in quel periodo che nasce in Mishima l’ idea del suicidio. Ci sono poi certe coincidenze che non sfuggono ai giapponesi. In questo secolo, in tempo di pace, ci sono stati due soli hara-kiri; quello di Mishima e quello del generale Nogi nel 1912. Nogi era precettore a Corte e si uccise subito dopo la morte dell’ imperatore Meji. Chiamò il ragazzo di cui era maestro, lo fece sedere dinanzi a sè, gli parlò per due ore, poi si ritirò nella stanza adiacente e si sbudellò, come per dare al ragazzo un esempio di come un giapponese si deve comportare. Quel ragazzo, che allora aveva dodici anni, è l’ attuale imperatore Hiro Hito, colui al quale anche Mishima si è rivolto col suo ultimo respiro. “La disperazione di Mishima nasce dall’ essersi reso conto dell’ invilimento della vita del paese. Diceva che il Giappone stava diventando una società di commercianti interessati solo a far denaro, senza più grandi valori. Solo oggi, a quindici anni dalla sua morte, capisco fino a che punto Mishima avesse ragione. La letteratura è caduta in disgrazia, i giovani non sognano più di scrivere dei romanzi, ma di elaborare programmi per computers”. C’ erano anche motivazioni personali, nel suo suicidio? “Sì. Anche. La sua vena creativa si era esaurita. Dopo il suo trentacinquesimo compleanno, tutto quello che scrisse, a parte i suoi saggi, non ebbe successo. La casa di Kyoko, il romanzo su cui lui contava, fra l’ altro, per pagare la casa che si era fatto costruire dopo il matrimonio, fu un fallimento. La sua fama calava e Mishima, ambizioso com’ era, non era capace di sopportare la disattenzione del pubblico. “Paradossalmente, il suo prestigio cresceva all’ estero, dove i suoi lavori venivano tradotti ed apprezzati: in Italia, ad esempio, nel 1961 appariva La voce delle onde (Feltrinelli), poi (sempre per lo stesso editore) Il padiglione d’ oro, Dopo il banchetto e Confessioni di una maschera. (In seguito sono uscite in italiano altre nove traduzioni presso editori diversi, tra cui ricorderemo Il sapore della gloria, Mondadori, La via del Samurai e Lo specchio degli inganni, Bompiani). Non c’ era giornalista o intellettuale che passasse da Tokio senza cercarlo. Quale altro giapponese, oltretutto in grado di parlare inglese, diceva senza ambiguità ciò che pensava? Per esempio: “Voi stranieri dovete capire che il Giappone ha due anime: l’ ikebana, la disposizione dei fiori, la bellezza, ma anche l’ orrido, il macabro…””. In questo suo essere esplicito era poco giapponese… “Già. Ma forse Mishima non era completamente giapponese. In questo paese esistono due minoranze oggetto di una particolare discriminazione: i Coreani e gli “intoccabili”, i cosiddetti burakumin. Ora, qualcuno sostiene che la famiglia di Mishima fosse originariamente burakumin”. E’ possibile che Mishima sia diventato tabù anche per certi suoi legami col mondo politico e particolarmente con un uomo che oggi è il primo ministro giapponese Nakasone? “Può darsi. Nakasone era ancora uno sconosciuto deputato di provincia quando Mishima era già considerato una delle più grandi personalità giapponesi di questo secolo. Il rapporto tra i due nacque e si sviluppò. Al tempo in cui Mishima fondò il suo esercito privato, Nakasone gli presentò certi ufficiali, e furono proprio costoro che permisero alle truppe di Mishima di addestrarsi nelle caserme e nei campi dell’ esercito regolare. “Ma Nakasone non fu l’ unico ad avere rapporti con Mishima. Il primo Ministro Eisaku Sato, per esempio, contribuì al finanziamento dell’ esercito di Mishima. Non dobbiamo dimenticare che quelli erano gli anni del Vietnam, che i giapponesi erano accusati dalla sinistra d’ essere asserviti agli americani e che dunque era politicamente utile uno che da destra diceva cose tipo: “E’ tempo che i giapponesi riscoprano l’ orgoglio nazionale. Non vogliamo più essere protetti dagli americani. E’ ora che riabbiamo un nostro esercito…”. Molti erano d’ accordo con lui, ma certo non dovevano dirlo in pubblico. E ancora oggi non osano dirlo”. Ma che voleva fare, Mishima, con quel suo esercito? “La sua idea era di occupare il Parlamento e abrogare la Costituzione imposta al Giappone dagli americani… Poi avrebbe aspettato. Ovviamente i politici non potevano sostenerlo fino a quel punto. Così Nakasone, non appena divenne Ministro della Difesa, cominciò a prendere le distanze da Mishima. E lui si sentì come tradito”. Che ne è, oggi, delle idee politiche di Mishima? “In questi quindici anni il Giappone si è spostato progressivamente a destra. Quando Mishima era ancora vivo, gli unici che potevano invadere le strade di Tokyo e occuparle per ore erano i dimostranti di sinistra. Oggi quei dimostranti non si vedono più ed i soli suoni che si sentono per la strada sono quelli emessi dagli altoparlanti della destra. Anche se di lui non si parla, Mishima è dunque presente. A Tokyo esistono numerosissimi gruppi di persone che si riuniscono per venerare la sua memoria; i tre giovani che si trovavano insieme a lui al suo hara – kiri sono diventati una specie di semidei. “Il fatto è che i problemi sollevati da Mishima non sono stati risolti. Questo è un paese con una secolare tradizione militare, cui è stata imposta una Costituzione dove si rinuncia “per sempre” all’ uso delle armi. E’ un paese che ancora oggi, a quarant’ anni dalla sconfitta, ha basi militari straniere in ogni punto strategico del suo territorio; che è legato da un trattato di sicurezza alla potenza che lo ha sconfitto e che ora lo protegge. Di questo i giapponesi non vogliono parlare, ma ecco un uomo che dall’ alto della sua fama, nella maniera più drammatica, punta il dito proprio su queste cose. Ai giapponesi non sfugge il senso di quell’ ultima sequenza sul balcone: Mishima parla ed i soldati lo deridono. “Togliti di mezzo”, urla qualcuno. E Mishima, disperato: “Non siete che dei mercenari americani” …Solo allora la platea smette di ridere. Qualcuno grida: “Sparategli” e poi in tanti: “Uccidetelo”. “Mishima aveva dunque toccato uno dei nervi più sensibili di tanti, tantissimi giapponesi. E quel nervo la sua memoria lo tocca ancora”. (La Repubblica, 24 novembre 1985)
Bell’articolo. Ma oggi che cosa dice la memoria di Mishima ai giovani giapponesi?