Cominciarono a parlare di lui in occasione della telecronaca della vittoria dei fratelli Abbagnale, ai mondiali di Monaco di Baviera, quando urlò talmente tanto che perse la voce. Poi si fece notare intervistando i calciatori a fine partita indossando un cappellone da cowboy. Quando il Napoli vinse lo scudetto, riuscì ad entrare negli spogliatoi, chiudendo fuori tutti i colleghi, e consegnò il microfono a Maradona che si esibì in un formidabile evento televisivo. A metà di una dignitosa carriera di giornalista Giampiero Galeazzi ha conosciuto l’incontro con le folle e la grande popolarità prestandosi per Domenica In a fare la spalla un po’ cialtronesca di Mara Venier che lo chiamava «bisteccone». Quell’avventura è finita. Galeazzi è tornato al giornalismo «serio». Ed è tornato a far parlare di sé quando, come conduttore della Domenica Sportiva, ha consegnato per quasi mezz’ora la scena al presidente del Consiglio Silvio Berlusconi impegnato a parlar bene del suo Milan, di se stesso e del suo progetto di far giocare il Milan a due punte contro il volere di Ancelotti. Ricorderete: polemiche a non finire.
Allora, Galeazzi, come è andata?
«C’era ’sta famosa storia delle due punte. Alla riunione di redazione io dissi: “A Berlusconi piace parlare di calcio. Chiediamogli di intervenire per telefono”. Un collega, Tony Damascelli, del Giornale, mi aveva detto che forse avrebbe telefonato anche a Telenova».
Tu hai il numero di Berlusconi?
«Quello di Arcore? Adesso ce l’hanno tutti. Ho lasciato il messaggio sulla segreteria. E lui ci ha chiamato in trasmissione. Tutto qui».
Ti aspettavi la telefonata dura dell’Annunziata?
«Berlusconi ha parlato di calcio. Certo, venti minuti sono tanti, si poteva fare un po’ di meno. Ma era divertente sentire il suo scambio di battute con Zucconi. È stato un bel colpo giornalistico. Berlusconi ci ha dato una mano ad alzare l’audience a danno di Controcampo che è una trasmissione Mediaset».
L’Annunziata ha esagerato?
«Il suo era un atto dovuto. Io lo avrei fatto con meno protervia e segno del potere. Tipo: “Caro Galeazzi, Berlusconi è presidente del Milan? E io sono presidente della Rai”. Poteva fare una cosa spiritosa».
Pensi di essere stato un po’ troppo leccapiedi nei confronti del premier?
«Io no. Perché? No. A me piace che lo sport sia praticato verbalmente anche dai grandi. Una certa intellighenzia di destra e di sinistra sostiene che lo sport non è da intellettuali. Ma a me piace quando Agnelli diceva la sua, Berlusconi dice la sua, Romiti dice la sua».
In Rai c’è adulazione?
«Adulazione? Certo. C’è la protezione politica. Mentana? Bravo. Ma fu fatto vicedirettore dal Partito Socialista. A me sembrava un estraneo. Poi ho capito che l’alieno ero io e che i protetti dei politici erano la normalità».
Che impressione ti ha fatto vedere la rissa Giorgino-Mentana a Quelli che il calcio?
«Mi ha infastidito. Giorgino deve capire che deve sta’ bbono. Non può mettersi in prima fila dicendo: “Io sono il Tg1, io sono il telegiornale”».
Ha detto di essere il volto di punta del Tg1.
«Ma Giorgino è solo uno dei tanti che lavorano al Tg1. Dopo vent’anni, dopo trent’anni, puoi dire qualcosa del Tg1. Noi che siamo il gruppo storico del ’76 possiamo dire: “Il Tg1 è questo”. Ma lui che cosa sta a parlà dopo un anno del Tg1? Giorgino non ha capito niente».
Dimmi il nome di un adulatore.
«C’è un mio amico che è un grande adulatore. È un grande personaggio anche se lo prendono in giro da tutte le parti, ma lui è più forte di Biscardi. È il mio amico della notte».
Marzullo?
«Marzullo. È amico di tutti i nuovi direttori, ma lo fa con molta classe. Lui è un signore. Li conosce tutti. È abilissimo, io non sarei capace. È sempre gentile con tutti. Io lo frequento, è uno sempre molto disponibile, non l’ho mai sentito parlare veramente male di nessuno. È una forma di mentalità».
E tu non hai mai avuto la tentazione di adulare?
«Io appartengo a quella categoria di persone che per il gusto della verità o della battuta spesso fanno casino».
Come Magalli?
«Lui è ancora più cattivo perché è piccolo. Io gioco al cattivo. Lui è cattivo».
Ti ricordi qualche battuta che ti è costata un’amicizia?
«In un momento di nervosismo dissi a un collega, che poi è diventato un big direttore: “Lascia perdere, torna da dove sei venuto”. Eravamo amici. Lui se la prese molto».
Vedi molti voltagabbana in giro?
«Migliaia. Il noto giornalista, mio collega di peso».
Ferrara?
«Partito da sinistra, approdato a destra. Ma è talmente intelligente che vari periodi rosa e blu come Picasso glieli possiamo pure concedere. Anche se fa un po’ impressione vedere uno come Ferrara che difende i valori della destra».
Altri?
«L’editore» di Porci con le ali, .
Giulio Savelli?
«È l’unico che conosco personalmente perché giocavo a tennis in doppio con suo fratello Lorenzo. Con Giulio ci andavi a cena una sera e diceva una cosa. La cena dopo ne diceva un’altra. Lui è il campione del mondo dei voltagabbana professionisti. Tutti gli altri sono dilettanti».
Tu prima di diventare giornalista sportivo eri un campione sportivo.
«Mio padre è stato campione di canottaggio. Vinse gli europei nel 1932, nel due senza. Poi continuò facendo l’allenatore alla Tevere Remo e poi alla Canottieri Roma. Per cercare di curare un braccio che mi era rimasto bloccato dopo un incidente mi fece fare canoa. E così divenni un fiumarolo. Stavo sempre in riva al Tevere. Ho imparato anche a nuotare, nel Tevere».
Roba da epatite virale.
«Allora era diverso. C’era Pigellino, proprietario di un barcone, che se la beveva l’acqua del Tevere. Io cominciai con la canoa poi passai al canottaggio perché ero troppo alto. Nel 1964 vinsi il campionato del mondo juniores».
Il canottaggio è uno sport duro.
«Sempre in barca. A scuola e in barca, in barca e a scuola. Sempre. Non avevo tempo per cazzeggiare dopo la campanella della fine delle lezioni. E la mattina, alle sei, andavo a correre due ore a Villa Borghese. E la sera palestra»
Giocavi anche a pallone.
«Naturalmente. Ma durante un torneo di squadre locali, a Maccarese, dove guadagnavo 200 mila lire a partita, mi sono rotto il ginocchio e non mi sono più ripreso. Ho dovuto finirla con il canottaggio»?
Rapporti col padre?
«Lui campione, io campione. A casa gli portavo l’acqua con le orecchie, obbediente, ma in acqua ero abbastanza aggressivo e gli rispondevo. Ero un rompicoglioni».
Ti occupavi di politica? Era il ’68.
«Io pensavo alle Olimpiadi. Non avevo certo in mente Capanna che faceva l’insurrezione all’Università. Che il mondo stava cambiando lo leggevo sui giornali. Comunque politicamente ero uno di rottura, non sono mai stato conservatore».
I tuoi miti? Le tue canzoni?
«Bobby Solo, i Beatles, Paul Anka».
Eri magro?
«Ero uno stecchino».
Stento a crederlo.
«Adesso peso 170, forse».
In che senso forse?
«Ho la bilancia che arriva a 150».
Da giovane?
«Ero magro, magro, magro».
L’ultima gara?
«A Parigi. Capii che non c’era più la gamba e non c’era più la testa. Meglio così. Se fossi stato competitivo sarei andato a Monaco alle Olimpiadi del 1972. E sarebbe cambiata la mia vita. A Monaco ci andai come radiocronista, con Guglielmo Moretti. Io l’ho presa come un segno del destino questa gamba infortunata».
E la televisione?
«Mi chiamò Emilio Rossi, direttore del Tg1 e mi disse: “Da domani sei da noi”. Io ero alla radio. Dissi a Guglielmo Moretti che mi aveva assunto: “Io nun ce vado”. Moretti sosteneva che la televisione era una roba superficiale, con tutti i giornalisti belli impomatati. Ma un collega mi disse: “A ragazzì, vacce de corsa. La televisione è il futuro. Non fare l’eroe, qui siamo cinquanta, a te te mannamo a comprà li cornetti”. Allora andai».
A Monaco facesti l’epica telecronaca della vittoria degli Abbagnale.
«Poi crebbi e ci fu la Domenica sportiva».
Poi Domenica In, il cambio di marcia, la popolarità.
«E tante difficoltà, anche famigliari. Tornavo a casa e i miei figli mi dicevano: “Ma dove sei stato? Ti han visto con la trombetta che cantavi a squarciagola con Tony Renis”».
Ne facevi di tutti i colori. Ti sei travestito da Tarzan, da tigre, da coniglio.
«È stata una grande esperienza».
Una cosa che ti sei rifiutato di fare?
«Vestirmi da donna. Mi sono rifiutato. Giucas Casella invece lo faceva, anche con i tacchi alti. E anche Luca Giurato si travestiva da donna».
I colleghi ti criticavano?
«La rivista ufficiale della Rai, il Radiocorriere, mi definì il “giornalista giullare”. I colleghi dicevano che non ero più credibile come giornalista sportivo. Ma il pubblico reagiva positivamente. Quando vedevo Brando Giordani, il direttore di rete, gli chiedevo: “Ma che faccio bene a fa’ ’sta cosa?”. E lui: “Ma che sei matto? È un successo!”».
Ti prendeva molto in giro la Gialappa’s.
«Capirai: mi travestivo da topo».
Le critiche peggiori?
«Dal Tempo. Qualsiasi cosa facessi era sempre sbagliata. Mai che riconoscessero che ho tentato di portare nel calcio un senso di normalità, di sfottò, che non mi sono mai preso sul serio».
Poi l’avventura è finita.
«L’ultima Domenica In la feci con Magalli. Fu Bartoletti, il capo dello sport, a farmi la guerra».
Perché ce l’aveva con te?
«Invidia. Se lui andava a Sanremo lo mettevano in quindicesima fila e io stavo in prima. Era uno scontro personale. Voleva dimostrare che lui era il direttore e poteva fare di me qualsiasi cosa. Ce l’aveva con me anche perché guadagnavo soldi extra. Diceva che ero già pagato come giornalista. Ma a Domenica In io cantavo, ballavo, recitavo. Me vorrai dà quarche cosa?».
Stavi andando a Mediaset.
«C’è mancato poco che andassi con Mara Venier a Canale 5. Mi fermai proprio all’ultima firma. Mi avrebbero dato un sacco di soldi. Io volevo continuare a fare lo sport e loro volevano che facessi solo lo spettacolo con Mara. Ogni discussione aumentavano i soldi. Un miliardo, un miliardo e mezzo, due miliardi. Alla fine dissi di no».
Se fossi andato a Mediaset ti saresti sentito un voltagabbana?
«Io sono sempre stato aziendalista. Ma quando ho smesso di fare Domenica In mi sentivo un po’ spaesato. In redazione non avevo ’na stanza, ’na sedia, ’na scrivania. Mi avevano messo da parte. Era la vendetta del sistema».
Eri diventato una specie di fidanzato di Mara Venier.
«Uno dei tanti fidanzati».
Ti ha mai creato dei problemi con tua moglie?
«Una certa gelosia forse sì. Mara ogni tanto citofonava e diceva: “Aò, Giampié, so arivati i tartufi”. E io andavo a mangiare da lei e mia moglie ci rimaneva male perché magari non veniva coinvolta nel gruppo. All’inizio ne ha risentito».
Hai lavorato anche con Valeria Mazza.
«Bella e sensuale. Ma anche con la Falchi e con Afef, donne straordinarie».
Quali trasmissioni sportive guardi?
«Le guardo tutte. Per forza».
Anche il Processo di Biscardi?
«Non è il mio modo di fare una trasmissione. Biscardi è più vicino al pubblico dei bar, quello del tresette, fa una cosa vecchia. Però bisogna ammettere che riesce a fare le nozze di Cana coi fichi secchi».
Partecipi mai alle risse calcistiche?
«Qualche volta. Ma io le risolvo sul sarcastico. “Namo a magnà” o “Lassamo perde”. Cose così. Il sarcasmo è la mia ancora di salvezza».
Controcampo?
«È come la nostra. Fanno il pieno perché si dedicano alle squadre principali. Se l’Empoli è primo in classifica loro fanno un servizio sull’Inter che non lo è. Non fanno servizio pubblico. Milan, Inter e Juve. Così prendono il 99 per cento della popolazione sportiva e non perdono mai. Questo è il loro segreto».
Il giornalismo sportivo è trash?
«Non c’è dubbio. Gossip, veline, fidanzate dei calciatori, risse. Ci si dimentica che il calcio è anche un grande sport, non solo una fonte di polemiche o la palestra di Moggi».
Per chi fai il tifo?
«Sono laziale, da sempre».
Qual è la differenza tra un romanista e un laziale?
«Se la Lazio a un quarto d’ora dalla fine perde 2 a 0 il laziale si alza e se ne va. Se la Roma verso fine partita perde 2 a 0 il romanista dice: “Vinceremo 3 a 2”. Il laziale è meno morboso, meno attaccato alla squadra. Un romanista è capace di dare al figlio il nome dei calciatori».
Eri laziale anche quando la Lazio era la squadra dei fascisti?
«Sempre. Io guardavo solo il campo. Della curva non me ne fregava niente».
Chi voti?
«Da ragazzo ero di destra. All’università sono finito a sinistra. Poi ho votato Berlusconi ma ora, dopo la guerra in Irak non so…».
Perché l’hai votato?
«Sulla brezza di ciò che era successo con Mani Pulite e compagnia. Mi sono detto: vediamo ’sto milanese se veramente ha chiaro in Italia il meccanismo burocratico. Invece Berlusconi vale come manager ma politicamente ama vincere da solo, capisci?».
Quanto guadagni in Rai?
«Come un caporedattore. Duecento milioni lordi».
Hai altri nemici oltre a Bartoletti?
«Certo. Gli invidiosi. C’è un detto in Rai: “Tutto è permesso fuorché il successo”. Appena cominci a andar bene c’è qualcuno che te vole fregà. È un fatto umano, di tipica radice aziendale».
Sei mai stato premiato?
«Premiato? In otto anni di Domenica In non ho mai preso nemmeno un Telegatto. Né come giornalista né come giullare».
È stato bello diventare famoso?
«Non fai la fila al ristorante, in farmacia ti servono subito, alle Poste ti riconoscono, al bar ti servono il caffè prima che fai lo scontrino. Molti favori, molti fastidi».
Quale collega ti è più antipatico?
«Bartoletti su tutti. Ma adesso c’è molto rispetto nei miei confronti, so’ diventato ’na divinità, mi chiamano maestro».
Gioco della torre. Taricone o Amendola?
«Amendola è un attore, Taricone è un truzzo».
Ma Amendola è un romanista.
«È un romanista intelligente».
Ci sono romanisti intelligenti?
«Purtroppo sì. Venditti per esempio. Ma è un romanista politicizzato».
Bonolis o Ricci?
«Non so chi avesse ragione. Però Bonolis ha esagerato. Io sono aziendalista e rispetto il servizio pubblico. Mi hanno insegnato a non usare un mezzo potente come la televisione per polemiche personali».
Sposini o Sassoli?
«Butto giù Sassoli perché crede di essere più bello di Sposini e non è vero».
Biscardi o Mosca?
«Butto Mosca. Non è riuscito a fermare Biscardi e il suo analfabetismo sportivo».