I Black Lions sono una squadra di Power Chair Hockey, sono di Venezia. Fanno hockey su pista, in carrozzina. Il 15 ottobre hanno conquistato il terzo posto al Torneo Frattini di Milano, organizzato dalla Uildm Unione Lotta alla Distrofia Muscolare, che ha visto gareggiare le più importanti squadre di Power Chair Hockey.
Sono campioni in carica da tre anni consecutivi, hanno vinto anche l’ultima supercoppa italiana e, prima della sconfitta dello scorso anno, detenevano il record di imbattibilità per circa quaranta partite.
Il giorno precedente ho avuto modo di intervistare Emanuele Cibin, il portiere difensore della squadra. Emanuele, oltre ad essere uno sportivo di lungo corso in quanto subacqueo, nuotatore agonistico ed allenatore di Wheelchair Basket, è un attivista per i diritti delle persone con disabilità.
Nel corso dell’intervista si parla di sport, disabilità e vita in generale.
Parliamo di sport. Che valore ha lo sport nella tua vita?
Lo sport non è solo un valore, lo sport è vita. Sono uno sportivo di basso profilo. Anzi, i titoli che ho raggiunto li ho raggiunti grazie a persone molto più sfortunate di me. Loro sono i veri campioni. Io ho dato semplicemente il mio contributo facendo spogliatoio e tramite il coinvolgimento. Il Power Chair Hockey è una disciplina ad hoc per le persone che hanno difficoltà di movimento molto accentuate. Questo tipo di sport ha consentito loro di muoversi e di inserirsi, in molti casi, in un contesto sociale e lavorativo. Quindi, si può dire, che il Power Chair Hockey ha dato loro una svolta epocale alla loro vita. Mi ritengo molto fortunato ad aver vissuto esperienze uniche in questa realtà perché il loro esempio mi è da stimolo costante ed è grazie a loro se posso definirmi campione italiano di Power Chair Hockey.
Quali altre discipline hai praticato?
Pratico anche Powerchair football, sempre con i Black Lions. Ho praticato nuoto a livello agonistico e sono anche subacqueo. Sono allenatore di basket in carrozzina, allenando ragazzi dagli 8 ai 23 anni. L’esperienza si è poi conclusa per via di genitori che mettono lo zampino nelle attività delle dirigenze societarie perché vogliono che il figlio sia considerato un campione a tutti i costi, e giochi ininterrottamente, senza mai essere riserva, a costo di scavalcare gli altri. Lo sport è un insegnamento di vita, insegna che non sempre si può arrivare primi. Chi ragiona con il metro del pietismo, però, non lo ha capito. Il genitore che si inserisce in certi contesti pensando di dominare e di dare un senso all’attività del figlio, commette un errore, soprattutto nei confronti di quest’ultimo.
Credo che così facendo il figlio cresca come relegato in una sorta di perenne campana di vetro.
Non si insegna nulla al figlio, così. In certi contesti sarebbe bene che i genitori si limitassero al ruolo di genitori, dando qualche consiglio a casa, senza scivolare in quello di allenatori. Ognuno rispetti i ruoli, lo sport è anche questo.
Conoscendoti si notano due capisaldi della tua vita, due concetti che tornano di frequente nelle tue riflessioni: l’inclusione e l’autonomia. Cosa rappresentano per te?
L’autonomia non è altro che un modo, una caratteristica della persona, con cui si arriva all’obiettivo. Penso che tutte le persone con disabilità, in qualsiasi modo o facendosi aiutare, o con un mezzo o con uno strumento, possano essere autonome. Questo viene dato per scontato da molti e porta a pensare che ci sia ancora poca inclusione all’interno del mondo sociale.
La disabilità viene raccontata con enfasi, come fosse un fenomeno esclusivamente da compatire o da esaltare a prescindere, dimenticandosi della persona con disabilità. Cos’è per te la disabilità? In che maniera credi debba essere vissuta e raccontata?
Il termine di disabilità è, secondo me, un termine che oggi viene utilizzato per creare disparità. Nel senso che se guardiamo dal punto di vista letterale, il termine disabilità non vuol dire altro che: “agire in maniera diversa”. Tutti noi agiamo in maniera diversa e interpretiamo la realtà in maniera diversa. Ad esempio se io leggiamo un manuale di istruzioni possiamo cogliere aspetti differenti, a volte diametralmente opposti, di una stessa cosa. L’obiettivo viene seguito secondo la propria interpretazione. Tutti quanti agiamo in maniera diversa. Il termine disabilità viene usato per creare una categoria, a fini mediatici. Far seguire in molti casi un certo pietismo cosmico che porta ad un business. Credo che l’attuale concetto di disabilità debba essere tolto dal vocabolario, credo che questo si farà facendo rete ed agendo per uno scopo comune. Cosa che oggi non c’è. Sono pochi quelli che lo fanno per lo scopo di divulgare di promuovere l’inclusione sociale e lo fanno a tempo perso proprio come lo faccio io. Io dono un po’ del mio non perché voglio diventare qualcuno, non perché voglia andare su Canale 5 o su Rai 1. È capitato in passato perché la mia storia mi ha portato a vivere esperienze del genere. Non serve emergere, però. Basterebbe creare rete, senza darsi degli obiettivi di emersione. Finché diamo spazio ad esempi lanciati dal marketing non creiamo inclusione. La paura che ho per chi porta il proprio esempio diventando un vip è che non portandolo tutti i giorni vivendo dietro le quinte, aiutando, ad esempio, una persona a prendere la patente speciale, sarà quando si spegne la luce della ribalta perché la persona chiamata in causa rischia di rimanere sola essendo la prima a non essere più inclusa nel contesto sociale di tutti i giorni.
Un esempio concreto di inclusione?
Parto da un dato concreto come può essere quello di un bagno con il water con incavo, in modo da poter essere usato da tutti, perché comodo e funzionale anche per chi non ha difficoltà. L’inclusione si ottiene informando le persone, infondendo cultura. Dobbiamo abituarli al pensiero. La parola “disabilità” crea una barriera mentale, a livello di concetto e di cultura. Anche lo smart-working, come ci ha insegnato la pandemia, può essere un ottimo strumento di inclusione, solo se utilizzato con determinati scopi. Il soggetto è a casa, si sente coinvolto nel mondo sociale perché deve partecipare all’attività lavorativa. Il lavoro dà la possibilità di migliorare la qualità di vita e di conoscere gente. Credo che anche se muovi un dito puoi dare del tuo e sei comunque una risorsa per la società.
Questo si ricollega ad una domanda che avevo in mente ma che poi, non so perché, non ho scritto. Ci sono le barriere architettoniche e le barriere culturali. Secondo te in che modo si può iniziare a sgretolare e superare le barriere culturali?
Per esempio, a livello scolastico, dalle elementari, si tende ad inserire l’alunno con disabilità all’interno della classe e dargli degli insegnanti di sostegno. L’insegnante di sostegno è una figura che in seguito ad un percorso di formazione ha ottenuto l’abilitazione. Le competenze dell’insegnante di sostegno e le attività svolte dovrebbero estendersi a tutto il corpo insegnante, in modo da rendere maggiormente incluso e coinvolto l’alunno con disabilità, abbattendo così le barriere che spesso si creano all’interno del gruppo classe. Sarebbe interessante, invece, dar vita a nuove attività ludiche post scuola, utilizzando anche ma non solo le discipline sportive, come ad esempio avviene già con il Baskin, Basket inclusivo per qualsiasi tipo di disabilità fisica o psichica. Come ho già detto prima, i limiti vengono mostrati e posti dai genitori, ancora nel 2021. Questo perché siamo visti come una categoria e non come persone a pieno titolo. Forse in questo modo si riuscirà ad abbattere questo pregiudizio immaginario che il genitore si pone.
L’inclusione si realizza infatti anche da dietro le quinte
Sì. È importante dire che si può lasciare il segno anche da lì. Non è necessario andare al Grande Fratello per trasmettere qualcosa. Dovremmo smetterla di creare categorie, nello sport come dappertutto. La parola “disabilità” è una categoria, la parola “persona” è una categoria. Dobbiamo chiamarci per nome e pensare maggiormente ad un fine comune.
Ultima domanda: progetti per il futuro?
Il futuro è già adesso, anche mentre parliamo. Progetti per il futuro è difficile farne, adesso si vive il momento. L’importante è vivere cogliendo le opportunità con positività. Penso che la disabilità sia un’opportunità che la vita ci dà, non una sfortuna. Sicuramente sarò a disposizione di chi vuole sconfiggere la parola disabilità e sicuramente continuerò a trasmettere messaggi positivi, come sempre restando dietro le quinte. Perché sono una persona, prima di tutto. Le cose che capiteranno sono delle opportunità che si aggiungono al mio stile di vita e se sono opportunità importanti lo saranno anche per gli altri. Condividere con gli altri ogni esperienza possibile è il mio traguardo. Io sono solo un tramite. L’importante è farlo dietro le quinte. A livello culturale, purtroppo, il soggetto vuole emergere. Io dico sempre “non essere il numero uno ma un numero particolare”, cioè cogliere ogni opportunità che la vita ti trasmette per essere una persona migliore.