Se n’è andato due anni fa, il 17 agosto 2011, a 88 anni. E nell’Italia chiusa per ferie la sua morte è passata quasi sotto silenzio. Ma se fosse morto a settembre oppure a marzo, non sarebbe cambiato poi molto. La cultura e il giornalismo italiano non sono mai stati teneri con lui. Razzista. Fascista. Maschilista. Apostolo della violenza. Se n’è beccati un bel po’ di insulti Gualtiero Jacopetti tra la fine degli Anni Sessanta e la metà dei Settanta. Amato dal pubblico (con Leone e Fellini è il regista italiano che ha fatto registrare i maggiori incassi nelle sale cinematografiche), schifato dalla critica. Sempre all’avanguardia, sempre precursore.
Come giornalista alla “Settimana Incom” ha di fatto anticipato l’informazione satirica di “Striscia la notizia”; mentre da direttore del settimanale “Cronache” ha preceduto la formula del rotocalco politico resa poi celebre da “L’Espresso”. Anche se la pubblicazione di alcune foto osé di Sofia Loren gli costò una condanna a un anno e quattro mesi per fabbricazione, commercio e spaccio di foto pornografiche e la chiusura del giornale. Come regista, invece, ha inventato il docu-film, genere che ancor oggi va per la maggiore. Anche se lui, Jacopetti, affermava di non apprezzare per nulla i lungometraggi di suoi epigoni come Michael Moore, privi di estetica e troppo mirati a dimostrare una precisa tesi politica.
Toscano di Barga, in provincia di Lucca, Jacopetti è sempre rimasto fuori dal coro e la cosa non sembrava dargli fastidio, anzi… Fascista in gioventù, allo scoppio della II guerra mondiale si arruola nella speranza di andare a combattere nell’amata Africa, invece finisce prima in Grecia e poi in Russia. Ritorna in Italia ma dopo l’armistizio lo troviamo impegnato nelle file del V corpo d’armata americano, con il quale arriva a Milano. Nel Dopoguerra, in vista delle cruciali elezioni del ’48, si mobilita fra gli studenti anticomunisti ed è in questo periodo che fa amicizia con Indro Montanelli e Leo Longanesi.
Scrive sul “Corriere della Sera”, conosce Luigi Barzini jr e con lui collabora alla creazione di una nuova iniziativa editoriale: la “Settimana Incom”, una sorta di tg che veniva proiettato nelle sale cinematografiche prima dei film. «L’Italia era allora un immenso dormitorio – spiegò in un’intervista – con la censura democristiana e una borghesia ipocrita pronta a scandalizzarsi per un nonnulla. Così io mi divertivo mettendo in risalto la cattiveria e la mancanza di cultura». Nasce allora l’idea del docu-film, cioè il montaggio di immagini reali con un commento fuori campo crudo e privo della retorica usata in quei tempi, che anni dopo lo renderà famoso con “Mondo cane”.
Da vero uomo di confine, non si limita al giornalismo. Collabora con il regista Blasetti come sceneggiatore del film “Europa di notte” (1959), fa una comparsata come attore nel famoso film “Un giorno in pretura”, di Steno, e nel 1960–61 realizza assieme a Franco Prosperi e Paolo Cavara il documentario “Mondo Cane”, rassegna internazionale di costumi bizzarri, esotici e crudeli, un vero e proprio pugno nello stomaco per lo spettatore dell’epoca, poco abituato a certi argomenti tabù. La critica lo demolisce per la violenza delle immagini e il cinismo del commento, ma il film raggiunge un successo enorme in tutto il mondo e ottiene una nomination all’Oscar per la colonna sonora di Riz Ortolani.
Due anni dopo, sempre in collaborazione con Prosperi, fa uscire il sequel “Mondo Cane 2” (1963), meno violento e più ironico del precedente ma altrettanto apprezzato dal pubblico. Anni dopo, però, Gualtiero Jacopetti rinnegherà questo secondo lungometraggio, in molti casi realizzato con scarti di montaggio del primo: «Fu solo un’operazione commerciale», tagliò corto.
Ma l’esperienza dei docu-film jacopettiani era tutt’altro che conclusa. Dopo “La donna nel mondo” (1963), analisi meno feroce, ma parecchio irriverente della condizione femminile in vari Paesi (che il regista dedica alla sua compagna, l’attrice inglese Belinda Lee, morta in un incidente d’auto); Jacopetti realizza, sempre insieme a Prosperi, “Africa addio” (1965–66), uno scioccante resoconto degli effetti della decolonizzazione in Africa, con drammatiche immagini sul selvaggio sfruttamento della fauna africana e sull’inadeguatezza delle popolazioni indigene ad autogovernarsi.
Un film crudo, violento, ai limiti dello splatter, come si direbbe oggi. Soltanto che il sangue e le mani mozzate non erano frutto di effetti speciali: anche le scene più impressionanti vennero girate dal vivo. “Africa addio” ricevette la condanna pressoché unanime della critica: gli autori vennero accusati di razzismo, apologia della violenza e irresponsabilità. Il settimanale “L’Espresso”sostenne che i registi avrebbero fatto ritardare un’esecuzione capitale per permetterne la ripresa, anche se il fatto venne poi smentito.
«Ho sempre seguito il mio istinto – spiegherà anni dopo Jacopetti in un’intervista – Non ho mai cercato di frenarlo o addomesticarlo. Ero io alla macchina da presa quando l’uomo di colore in “Africa Addio” viene ammazzato con una pistolettata in testa e non mi ha fatto piacere, era uno dei tanti orrori del Congo di allora. Quando si ha l’occhio nel mirino non si calcolano certe cose, si realizzano dopo in moviola. Si è talmente invasi e sopraffatti dalla propria passione, dalla propria presenza importante di fronte alla vita di un uomo nell’istante fatale in cui la si vede spegnere, che è difficile rendersene conto». Malgrado le critiche e le polemiche, il film vinse il David di Donatello.
Dopo alcuni anni di silenzio, Jacopetti torna dietro la macchina da presa nel 1971 con “Addio Zio Tom”, beffarda e caustica indagine sulla schiavitù negli Stati Uniti dell’Ottocento; e nel 1975 con “Mondo Candido”, trasposizione in chiave moderna ironica e visionaria del “Candido” di Voltaire. Un’opera che non incontrò il favore della critica, come di consueto. Ma stavolta neppure del pubblico. E’ l’ultimo film di Gualtiero Jacopetti, regista scomodo, discusso e controverso ma sicuramente geniale. In seguito tornerà sporadicamente al giornalismo, collaborando con “Il Giornale” di Montanelli. A chi, poco prima della sua morte, gli chiedeva che cosa avesse fatto negli ultimi 35 anni, rispondeva: «Ho recuperato il tempo perduto e ho potuto leggere valanghe di libri, tutto quello che non avevo letto prima».