Un silenzio assordante sta avvolgendo il sessantacinquesimo anniversario della Rivoluzione d’Ungheria. Vietato parlarne, malgrado la ricorrenza sia celebrata dall’Ungheria come una data-simbolo del suo travagliato passato comunista e della lunga occupazione sovietica.
Lo scorso 23 ottobre centinaia di migliaia di cittadini di Budapest (c’era anche una rappresentanza dell’Ugl con le proprie bandiere) hanno invaso le strade della capitale magiara, rivendicando con orgoglio il loro anelito di libertà. Viktor Orban ha dato voce al suo popolo: “Noi crediamo in un’Ungheria forte e indipendente”, ha detto Orban. “Noi difendiamo anche oggi la nostra nazione. Difendiamo i nostri figli, la nostra cultura, le nostre tradizioni, la nostra famiglia. Oggi come nel 1956, domani come oggi”. “La nostra storia millenaria ci ha insegnato a lottare per la nostra libertà”, ha scritto, su Twitter, Katalin Novák, ministro ungherese della Famiglia. “L’eredità del 1956 ci dice che non possiamo riposare comodamente, ma dobbiamo lottare costantemente per essere liberi. Siamo gli eredi della rivoluzione ungherese del 1956. Ancora oggi noi ungheresi siamo l’incarnazione del 1956”.
Il mainstream non sembra avere gradito. Meglio allora non divulgare le imbarazzanti parole dei vertici ungheresi ed ancora di più non fare i conti con la memoria di un popolo, che settantacinque anni fa scendeva in piazza contro la dittatura comunista e poi contro l’invasione sovietica, pagandone (tra l’ ottobre ed il novembre 1956) un prezzo altissimo: quasi 3.000 morti, migliaia di feriti, l’esodo di 250.000 ungheresi in fuga dal loro Paese.
Crollò il mito del comunismo buono
Per l’Italia l’anniversario della Rivoluzione d’Ungheria e della repressione comunista ha una valenza tutta particolare, in rapporto alle vicende che allora riguardarono il Partito Comunista Italiano. Anche per questo a molti conviene silenziare l’appuntamento. Il 1956 fu l’anno in cui venne meno il mito di Stalin, celebrato appena tre anni prima, in occasione della morte del dittatore, come “l’uomo che più di tutti ha fatto per la liberazione e per il progresso dell’umanità” (“L’Unità”, 6 marzo 1953). Giorgio Amendola, storico dirigente del Pci, parlerà, in seguito, di quel “terribile 1956”. A crollare, sotto i cingoli sovietici ed ancora prima con la rivolta popolare contro la dittatura comunista, è il mito della dittatura del proletariato, di un Est, liberato e redento dal socialismo realizzato. Il trauma non fu di poco conto. Giuseppe Di Vittorio, storico segretario generale della Cgil, si schierò, in una prima fase, con i rivoltosi ungheresi, salvo poi essere richiamato all’ordine da Togliatti. Il mondo della cultura vicino al Pci manifestò (con il “Manifesto dei 101”) il suo dissenso, illudendosi di potere avviare una discussione all’interno del partito, ma senza risultati. Molti stracciarono la tessera altri ritrattarono. A vincere fu la linea togliattiana: “Quando crepitano le armi dei controrivoluzionari si sta da una parte o dall’altra delle barricate. Un terzo campo non c’è” (“L’Unità”, 25 ottobre 1956).
I silenzi della sinistra italiana
Con queste premesse chiedere all’odierna sinistra italiana, in tutte le sue sfumature, un minimo di senso critico rispetto all’anniversario ungherese è – ne siamo ben consapevoli – una pia illusione. Per loro meglio tacere. Glissare sulla questione. Fare finta di niente.
Storia vecchia e nuovissima di chi è sempre pronto ad innalzarsi sul piedistallo della propria superiorità antropologica ed etica, guardandosi bene però dal fare i conti con i suoi “padri politici” e quindi con i responsabili, diretti ed indiretti, della repressione del 1956. Oggi come ieri tacere significa essere complici di quegli avvenimenti. Per dirla con Togliatti o di qua o di là, “un terzo campo non c’è”. Noi preferiamo stare con i “Ragazzi Buda”, ancora in marcia per la libertà.
Forse non sarebbe male ricordare quanti italiani si allontanarono allora dal PCI, a cominciare da Antonio Giolitti.
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