Nel lontano 1965, più precisamente in occasione di una recensione, apparsa sulla rivista milanese «Il Tempo», al celeberrimo saggio siloniano Uscita di sicurezza, pubblicato proprio in quell’anno, il noto critico Giancarlo Vigorelli scriveva di Ignazio Silone:
«Quest’uomo che ha legato il suo nome alla storia e alla polemica politica di quasi cinquant’anni e questo scrittore che ha scritto i suoi libri parallelamente alle esperienze politiche e che deve la sua fama al loro messaggio social-politico, risulta uno scrittore essenzialmente religioso. Quello che pareva un naturalismo è un realismo evangelico, e quello che risultava un populismo è piuttosto un messianismo».
Sono queste di Giancarlo Vigorelli delle considerazioni importanti e significative, di cui peraltro troviamo conferma nella vita dello stesso Silone, a partire da quando, all’indomani dell’essere rimasto orfano – prima di padre (nel 1911) e poi di madre (1915), a seguito del devastante terremoto della Marsica –, occorse l’incontro con don Luigi Orione e la sua congregazione.
Tale incontro si trasformò d’immediato in un chiarore nel buio della tragedia che Silone stava vivendo, anche perché quel prete «straordinario» interpretava e viveva il Cristianesimo in modo autentico, ossia, caratterizzato da sincera carità e giustizia sociale, due aspetti che Silone sentiva assolutamente congeniali. Ciò spiega il perché il fondatore dei “Figli della Divina Provvidenza” ebbe un ruolo fondamentale nella formazione siloniana.
A questo riguardo, Irwing Howe – autorevole critico americano, all’epoca professore alla City University di New York e che si occupò in varie occasioni dell’opera di Ignazio Silone – in un articolo del dicembre del 1969, apparso sul prestigioso «The New York Times Book Review», ebbe modo di rimarcare l’importanza fondamentale e decisiva avuta da don Orione nell’evoluzione del pensiero dello scrittore abruzzese, poiché – scrive Howe –
«figura che perseguiterà la sua fantasia, il prete francescano che vive come un cristiano delle origini e che in questo si accosta alla situazione del rivoluzionario, che si è liberato del dogma».
Difatti, questo «sacerdote non conformista» – mirabilmente descritto nel celebre capitolo Incontro con uno strano prete di Uscita di sicurezza – è facilmente riconoscibile sia nel don Nicola di Una manciata di more (1952), sia nel don Benedetto di Vino e pane (1955) e sia nel don Serafino de Il segreto di Luca (1956).
Non è qui il caso di ripercorrere nei dettagli gli anni delle numerose esperienze politiche di Ignazio Silone: da quando s’iscrisse, giovanissimo, alla Lega dei Contadini di Pescina dei Marsi, fino all’ingresso, prima, e all’uscita, poi, dal Partito Comunista d’Italia, nel 1931, cui sarebbero seguiti gli anni delle polemiche anticomuniste, tanto all’estero quanto in patria, divenendo Silone uno dei leader contrari al cosiddetto frontismo PSI-PCI, ossia, alla creazione di uno schieramento di sinistra imperniato sul Partito Comunista. È importante, tuttavia, a sostegno della tesi di una religiosità sostanzialmente mai venutagli meno, ricordare come, già nel 1942, in Svizzera, in occasione di una sua conferenza dal titolo Situazione degli ex, Silone, oltre a illustrare le sue idee, ad attaccare il marxismo – la cui involuzione dogmatica era da lui ritenuta «una delle tragedie della nostra epoca» – e ad auspicare il federalismo per l’Europa alla fine del conflitto, con un «Terzo Fronte» da contrapporsi sia al Fascismo che all’ingerenza delle Democrazie Alleate, avrebbe riscoperto, Silone, «l’eredità cristiana». Espressione, questa, più tardi da lui ripresa, nel 1968, per titolare uno dei quattro paragrafi, il terzo per l’esattezza, della prima parte de L’avventura di un povero cristiano – prima parte da intendersi, non come un’introduzione al dramma di papa Celestino V, ma piuttosto come un vero e proprio saggio-racconto a mo’, si direbbe, di un’autobiografia interiore in cui Ignazio Silone avrebbe rimarcato i propri connotati di «cristiano post-risorgimentale e post-marxista».
Difatti, una volta rientrato nell’ottobre del 1944 in Italia e immediatamente dopo la Liberazione, lo scrittore abruzzese avrebbe messo in mostra il suo anticonformismo, non solo prendendo posizione contro l’antifascismo di facciata e contro ogni tipo d’epurazione – celebre, in tal senso, è il suo articolo, pubblicato sull’«Avanti!», Superare l’antifascismo –, ma anche assumendo un’apertura, seppur abbastanza critica, verso la Chiesa.
Ora, il «realismo evangelico» e il «messianismo», di cui parla Giancarlo Vigorelli, trovano una giustificazione nel fatto che Silone non era per nulla interessato alle sovrastrutture, ma agli uomini di fede vissuta. In sostanza – come scrivono Francesco de Core e Ottorino Gurgo in Silone, un alfabeto (2003) –
«era affascinato dagli esempi concreti, non dalle ideologie. […] Cercava i santi in carne e ossa, quelli che non hanno aureola attorno al capo, come spiegò lui stesso: esseri “oscuri, ignorati da tutti e in nulla eccezionali”, ma capaci di reggere il mondo».
Ebbene, in tutti i romanzi dello scrittore abruzzese i personaggi, per così dire, privilegiati possiedono una valenza altamente simbolica, fatta oltre che di denuncia sociale anche di solidarietà e pietà cristiana – con l’inequivocabile presenza, quindi, a un tempo, di una coscienza libertaria moderna e di elementi di cristianesimo antico –, e che finiscono sia per rappresentare dei «piccoli-grandi eroi che si battono per l’avvento del Regno e per la centralità dell’individuo fuori della regola sociale, se la regola è retriva e codina» (Ibid.), sia per ricalcare l’itinerario dell’Imitazione di Cristo.
Tale aspetto lo si ritrova pure nei romanzi pubblicati prima del suo rientro in Italia. Si pensi, ad esempio, al Berardo Viola di Fontamara, il quale, dopo l’interrogatorio e le torture subite dalla milizia fascista, viene ricondotto in cella trascinato – scrive Silone – «per le gambe e per le braccia, come Cristo quando fu deposto dalla croce». O anche al Pietro Spina de Il seme sotto la neve – vero alter ego letterario dello stesso Silone, per rappresentare la figura dell’uomo perseguitato e in fuga, clandestino in patria e vittima dell’ingiustizia umana – il quale, nell’atto di travestirsi da prete per cercare di sottrarsi alla cattura, finisce, in un certo senso, per ricuperare un’antica vocazione al sacerdozio quale militanza.
In sostanza, come sempre accade agli scrittori di vena religiosa che uniscono fede messianica e utopia libertaria – è il caso, ad esempio, del filosofo tedesco di origine ebraica Martin Buber, con il quale, per via della sua “concezione dialogica” tra cielo e terra e, quindi, della santificazione del quotidiano, Ignazio Silone ha una sicura consonanza –, lo scrittore abruzzese è portato a rielaborare gli ideali cristiani alla luce del dilemma tra la disobbedienza all’autorità gerarchica costituita e la coscienza di chi crede. Da qui un tipo di Cristianesimo – quello di Silone, appunto – assolutamente non dogmatico, ma ispirato ai valori primigeni dell’amore disinteressato e solidale, dell’abbattimento delle disuguaglianze sociali e del rigetto di qualunque tipo di compromesso, come viene fuori emblematicamente da quell’autentico capolavoro letterario – a metà strada tra romanzo, dramma teatrale e saggio – che è L’avventura di un povero cristiano.
Il «povero cristiano» – com’è a tutti noto – è nientemeno che Pietro Angelerio del Morrone, il quale fu papa, con il nome di Celestino V, durante solo cinque mesi, dal luglio al dicembre del 1294: il papa del «gran rifiuto», condannato da Dante, che attribuì quel gesto a «viltà», ma esaltato da Petrarca.
Ebbene, la vicenda di Celestino V ha dato modo a Silone, non solo di connettersi allusivamente con i “casi” del suo tempo – in particolare quelli di Papa Giovanni XXIII e del Concilio Vaticano II –, ma anche di commisurare la sua propria ideologia ai termini della religione.
Nel fare assurgere Celestino V a simbolo di rinuncia al potere o, meglio ancora, a simbolo dell’inconciliabilità tra la santità e il potere, Ignazio Silone altro non fa che postulare – nelle sue stesse parole poste a chiusura di Quel che rimane, quarto e ultimo paragrafo della prima parte dell’opera:
«[…] un cristianesimo demitizzato, ridotto alla sua sostanza morale e, per quello che strada facendo è andato perduto, un grande rispetto e scarsa nostalgia. Che più? A ben riflettere e proprio per tutto dire, rimane il Pater Noster. Sul sentimento cristiano della fraternità e un istintivo attaccamento alla povera gente, sopravvive anche […] la fedeltà al socialismo. So bene che questo termine viene ora abusato per significare le cose più strane e opposte; ciò mi costringe ad aggiungere che io l’intendo nel senso più tradizionale: l’economia al servizio dell’uomo, e non dello Stato o d’una qualsiasi politica di potenza».
Confessione lungamente soppesata se è vero, com’è vero, che essa era stata anticipata qualche anno prima, nel 1961, in occasione di un’intervista rilasciata a «L’Expresse» parigino e nel corso della quale Silone si era definito un «cristiano senza chiesa» e un «socialista senza partito», ovvero, diversamente detto, un uomo alla costante ricerca, a un tempo, di una pratica sociale del Cristianesimo e di un’anima e una speranza cristiana nel socialismo.
Con questo suo messaggio – poiché di vero messaggio si tratta, proprio a seguito di quel «messianismo» di cui ha avuto modo di parlare Giancarlo Vigorelli – Ignazio Silone entra a far parte di diritto di quella ridotta schiera, così ridotta e scomoda da essere praticamente inascoltata, che ha avvertito l’esigenza di ricorrere a una «chiamata degli spiriti». Una “chiamata”, ovviamente, fatta da un laico.
Scriveva Silone:
«Le vicende politiche hanno fatalmente riacceso il vecchio contrasto fra clericalismo e laicismo; ma dal punto di vista dei principi esso si va volgendo nei termini anacronistici del secolo scorso. Accade perciò di vedere incolpata la… teologia, definita incompatibile coi principi democratici, volendo ignorare che nella stessa Italia la medesima teologia non ha impedito a dei cattolici di battersi per la libertà. Stupisce che in tale errore possano cadere molti intellettuali del paese di Machiavelli, che per primo separò la teologia dalla politica».
E ancora:
«[…] non ci sentiamo né credenti, né atei, tanto meno scettici […]. Un sacro rispetto del trascendente ci impedisce di menzionarlo invano e di usarne come una droga. Ridurre Dio a un problema mi parrebbe blasfemo».
Una laicità, quindi – parafrasando le parole di Lanfranco di Mario, autore di un interessante articolo presente nel bellissimo volume, curato da Aldo Forbice, Silone, la libertà. Un intellettuale scomodo contro tutti i totalitarismi (2007) – che s’ispira sia a valori e principi propri dello spirito del Cristianesimo sia allo ius naturale. Un diritto naturale – sempre nelle parole di Ignazio Silone – che
«non è cosa che si possa ricevere in regalo […] Si può vivere anche in un paese di dittatura ed essere libero, a una semplice condizione, basta lottare contro la dittatura. L’uomo che pensa con la propria testa e conserva il suo cuore incorrotto è libero. L’uomo che lotta per ciò che egli ritiene giusto è libero. Per contro, si può vivere nel paese più democratico della terra, ma se si è interiormente pigri, ottusi, servili, non si è liberi».
Bibliografia consultata
ANNONI, Carlo, 1996 [9ª ed.ne]. Invito alla lettura di Ignazio Silone. Mursia, Milano.
DE CORE, Francesco / GURGO, Ottorino, 2003. silone, un alfabeto. l’ancora del mediterraneo, Napoli.
FORBICE, Aldo (a cura di), 2007. Silone, la libertà. Un intellettuale scomodo contro tutti i totalitarismi. Guerini Associati, Milano.
GURGO, Ottorino / DE CORE, Francesco, 1998. Silone. L’avventura di un uomo libero. Marsilio Editori, Venezia.
HOWE, Irwing, 1962. Politica e romanzo. Lerici, Roma.
PELOSO, Flavio, 1999. La dimensione religiosa della personalità e della produzione letteraria di Ignazio Silone. In «L’Osservatore Romano» [Roma], 09.04.1999, p. 3.
SILONE, Ignazio, 2018 [1a ed.: 1968]. L’avventura di un povero cristiano. Oscar Mondatori, Milano.
SILONE, Ignazio, 2018 [1a ed.: 1965]. Uscita di sicurezza. Oscar Mondatori, Milano.
VIGORELLI, Giancarlo, 1968. Silone e l’avventura d’un povero cristiano. In «Il Tempo» [Milano], 30.04.1968.
[Questo articolo è stato per la prima volta pubblicato in portoghese nel volume collettivo Nel mezzo del cammin. Actas da Jornada de Estudos Italianos em honra de Giuseppe Mea (Porto, 24-25 de Novembro de 2008). Organização de Francisco Topa e Rita Marnoto. sombra pela cintura, Porto 2009, pp. 89-96].