Nei suoi anni migliori, l’industria cinematografica ha vissuto anche di saghe, di film che riscuotevano un successo internazionale grazie a un personaggio, a un interprete, a una saga letteraria e che poi, proprio in virtù di questo successo, davano luogo a uno o più “sequel”. Quello di James Bond è un caso pressoché unico di protagonista di una saga interpretato da più attori, l’ultimo dei quali, Daniel Craig, dà l’addio al personaggio di 007, nato dalla penna di Ian Fleming, in questo “No time to die” (che rinnova il recente vezzo dei distributori di non tradurre i titoli originali).
Il titolo in realtà – “non è tempo di morire” – sembra contraddire il finale, ampiamente anticipato dai media, che vede soccombere l’eroe di tante pellicole ispirate al principe degli agenti segreti. Plotoni di semiologi, a partire da Umberto Eco, hanno vergato pagine e pagine sul significato profondo del successo di questa figura, popolare soprattutto nel pubblico maschile: invincibilità, capacità di sedurre le donne più belle, ironia (che, ad esempio nelle interpretazioni di Roger Moore, diventava autoironia), totale libertà d’azione con conseguente insofferenza sia per le regole “professionali” (nei confronti di Capi votati soprattutto a limitarne l’intraprendenza) che per quelle sociali (leggi: familiari), insomma tutto questo complesso di connotati identitari faceva sì che lo spettatore medio tendesse a identificarsi con l’Eroe, evadendo, per due ore, dalla mediocrità del suo quotidiano.
Arriva il politicamente corretto
Ebbene, un tale bagaglio viene completamente disfatto e lasciato sul set abbandonato da Daniel Craig in questa sua ultima fatica da 007 (che, si badi bene, minaccia di continuare assumendo quell’Agente mitico le fattezze di una piacente, ambiziosa ed efficiente fanciulla dalla pelle scura, così da adeguarsi alla correttezza politica del momento, ma non sappiamo se anche alle regole del mercato. Almeno, questo ci dice la trama di “No time to die”, che di tale eredità ci offre un’anticipazione).
Il film, peraltro, è a mio avviso deludente: sceneggiatura scombinata e prolissa, con ambiguità di ruoli (a un certo punto, non si capisce chi siano i “buoni” e chi i “cattivi”), salti di “location” troppo bruschi, fragore d’inseguimenti e sparatorie (con un solo exploit della famosa Aston Martin provvista di micidiali optional); perfino la colonna sonora, che contribuì al successo mondiale della serie, appare debole e anonima. Non si capisce, in tale contesto, il “cameo” non già di un attore carismatico, bensì di una città: la splendida Matera, il cui delicato intrico di saliscendi e case antiche venne messo a rischio dal rombante scorrazzare di auto e moto, che irrompono in un momento di fuggevole, tenera intimità del nostro eroe con la compagna di turno, in un lussuoso hotel. Del tutto superfluo per la storia, vogliamo considerarlo un omaggio alla “Venezia dei Sassi”, capitale della cultura per il 2019.
Bond crepuscolare
Ma veniamo al Bond nella sua ultima performance. Quella di un personaggio crepuscolare avrebbe potuto essere l’occasione per un film non solo di cassetta, ma di qualità; invece il regista californiano Cary Fukunaga fallisce l’obiettivo. E a proposito di saghe e di crepuscoli, basti pensare al western e al John Wayne de “Il pistolero”, di Don Siegel, per avere davanti agli occhi un impietoso paragone. Craig appare poco credibile nella sua nuova veste di padre e compagno fedele, e per di più lo percepiamo vulnerabile rispetto agli agguati e ai colpi infertigli dai suoi nemici di sempre – non solo la a suo modo mitica “Spectre” – fino, appunto, all’esito fatale.
Appartiene al passato anche l’impenitente attitudine dongiovannesca del Bond d’annata, che non si faceva scappare nessuna di quelle che, coerentemente, venivano denominate “Bond girl”: qui, di fronte ad una seducente e feroce compagna d’avventure, si limita a un complimento e fila via… Di passata, aggiungiamo l’ossequio all’attuale “pensiero unico imperante” che, oltre alla menzionata eredità dello 007 passata nelle mani dell’interprete nera, colora anche la pelle della segretaria di “M”, miss Moneypenny, per di più ringiovanendola (altro tradimento perpetrato ai danni di Fleming).
Sappiamo tutti che nei film di 007 manca il “nemico politico”, quello, per intenderci, rappresentato in tante pellicole di spionaggio dal sovietico “impero del Male”: Fleming, che pure ebbe trascorsi spionistici al servizio della Royal Navy contro l’impero del Male dell’epoca (quello del cosidetto nazifascismo…), fin dai suoi primi romanzi si tira fuori da quella dialettica scivolosa, e punta i suoi strali (anzi, quelli del suo Eroe) contro i Grandi Delinquenti e le Organizzazioni criminali che si limitano a perseguire profitto e potere.
Che si trattasse di minacciare il mondo con ordigni nucleari o – come in questo caso – con sofisticati ritrovati della ricerca nel campo della genetica, Bond era sempre in prima linea, magari con le micidiali armi escogitate dal dottor Q, geniale scienziato dei Servizi Segreti britannici, che in questo film – mainstream oblige… – fa un discreto outing, accennando appena alla sua (inedita) omosessualità. Sarà un caso, ma stavolta i suoi diabolici marchingegni non riusciranno a salvare il nostro eroe…
Esistono ancora i buoni e i cattivi?
A questo punto, s’impone qualche breve riflessione sulla deriva dell’immaginario collettivo: già il declino di un genere come il western, che per decenni aveva improntato le fantasie di ragazzini e di adulti, scontava, fra l’altro, i complessi di colpa e un insidioso universalismo dell’”Occidente”; anche sotto il profilo semantico, non si poteva parlare più di “pellerossa” e, meno che mai, di “musi rossi”: l’unica definizione accettata era quella di “nativi americani”. Eppure, non c’era cattiveria in quel “tifo” per il 7° Cavalleggeri di John Fors e di tanti altri registi, che, specie da noi, non predisponeva minimamente a nessun tipo di razzismo.
Ma più in generale, il montante relativismo etico e culturale trasformava anche le figure del “buono” e del “cattivo”, specialmente sul grande schermo. Il “buono” aveva in sé momenti e tratti del malvagio, che a sua volta appariva, in alcuni passaggi, meno “cattivo” di quello che ci saremmo aspettati. Conseguentemente, l’eroe-protagonista doveva mostrarsi in tutta la sua ambiguità, più simile all’uomo-medio che al modello irraggiungibile dell’Eroe coraggioso ma con momenti di paura, generoso, ma anche impietoso, fortunato, ma anche soggetto, qua e là, alla malasorte, e così via, sulla strada della mediocrità che non fa sognare.
Ecco, con questo Bond al crepuscolo, ci hanno fatto fare un altro passo avanti nella direzione del disincanto: forse, è anche per queste vie che si afferma la deprecabile “cancel culture”.
Erano film di puro ed ingenuo divertimento fino a quando, dopo Sean Connery, son diventati grotteschi e ridicoli…