Non era certo un goffo gaffeur Jean Malaquais (all’anagrafe Jan Malacki), minatore, facchino e lavapiatti di origine polacca che, stufo del pauperismo ipocrita di alcuni intellettuali francesi con i piedi al caldo, gliene cantò quattro tanto bene ad André Gide per il contenuto di un suo articolo da convincerlo ad assumerlo come suo segretario personale, per poi esserne definito, chissà se con orgoglio o con un pizzico d’orrore, “un Céline di sinistra”. Ma non è un gaffeur – nonostante sia questo il titolo originale del romanzo, e nonostante i tentennamenti sulla propria firma – nemmeno Pierre Javelin, il protagonista di “La città senza cielo”, finalmente edito nel 2019 da Cliquot dopo una prima edizione italiana “monca” risalente al 1948.
Se non un gaffeur, di primo acchito Pierre può sembrare un doppio del Winston di “1984”, così come Malaquais può sembrare una sorta di doppio di George Orwell. Ma è poi davvero così?
È impossibile negare le coincidenze che legano a doppio filo le biografie dei due scrittori: nati a distanza di 5 anni l’uno dall’altro e attivi grossomodo negli stessi decenni, entrambi vicini al POUM durante la guerra di Spagna e autori di dystopian novel, e pure è altrettanto impossibile trascurare ciò che diverge radicalmente nello stile e nelle opere: se Orwell ha uno stile scarno, giornalistico, alquanto british, Malaquais è dannatamente francese, e in lui risuonano decisamente più gli echi onirici di Apollinaire e di Crevel (insieme forse a una nota slava), piuttosto che quelli asburgici e mitteleuropei del proto-realismo magico di Kafka. E Orwell avrebbe mai fornito dettagli surreali(sti) squisitamente inutili, scrivendo cose tipo “Come una schiena nera striata di vene mutevoli, la notte si appoggiava ai vetri della finestra”?
Dunque non stupisce che tra Norman Mailer e Malaquais, nonostante l’amicizia e le saltuarie collaborazioni lavorative, ci fosse un “muro stilistico” insormontabile, che Malaquais abbia detestato i romanzi di Mailer, così grondanti di pragmatismo americano, che pure aveva tradotto per soldi, e che Mailer, pur scrivendo una prefazione all’ultimo romanzo dell’amico, disapprovasse i dialoghi tra i suoi personaggi, così balzani, cervellotici e paradossali.
Un’altra differenza radicale tra “1984” e “La città senza cielo” è l’architettura o, più in generale, l’estetica: se quella della distopia orwelliana è desolatamente grigia ed evidentemente, e volutamente, di matrice post-sovietica, il paesaggio di Malaquais, nonostante sia “orfano del cielo”, pullula di piccoli dettagli stupefacenti – a volte anche inquietanti, ma per lo più stranamente confortanti: basti pensare alle poesie diffuse anonimamente perfino all’insaputa del loro autore, simili a quelle che popolano i muri postmoderni delle nostre metropoli, ma anche alle cravatte variopinte di Babitch (l’Eichmann della situazione, “un onesto psico-logico come ce ne sono a palate, diviso tra vita di famiglia e il suo modesto lavoro di trapanazione di cervelli”) e ai cappotti di velluto a coste blu marino, decisamente più adatti alla fauna del café de Flore o di un romanzo di Lewis Carroll che a quella di “1984”, perennemente in tuta da lavoro e priva di ogni orpello estetico – in fin dei conti anche l’estetica è una modalità di espressione di sé, e non è questo che temono le dittature?
E che dire del gatto? Animale libero per eccellenza, amato da Rousseau, ma anche ricorrente nella narrativa dell’orrore e del fantastico – si pensi solo ai racconti di Poe e Lovecraft, ma anche ai famigli delle streghe nelle storie del folklore contadino inglese -, in Malaquais ricopre un ruolo speculare a quello dei topi di Orwell, che nel finale di “1984” torturano Winston, costringendolo a confessare. Il gatto Salomon costituisce, in molti dei punti salienti della trama e soprattutto nelle pagine conclusive, un elemento di benigna irrazionalità che si oppone ai meccanismi burocratici macchinali della Città, un ingranaggio che non s’incastra, una creatura che vede laddove gli uomini non vedono.
Sono degni di nota anche i nomi dei protagonisti: se quelli dei romanzi distopici più noti sono nomi disumanizzanti, che tendono ad annullare chi li porta e chi li pronuncia (Winston e Julia, ma anche Josef K. del “Processo”), quelli di Malaquais non riescono a non essere spesso buffi e allusivi, quasi da fiaba: Bomba e Kouka, gli “occupanti” dell’appartamento di Pierre, ricordano un Tom Bombadil di Tolkien, ma anche il cognome Javelin reca in sé un gioco di parole esplicitato nel corso della narrazione: eau de javel, infatti, è la candeggina – provvidenziale, in tempi di sanificazioni continue…
Resta da dire qualcosa sull’attualità impressionante della figura di un autore che decise di viaggiare per “scoprire il mondo prima che scompaia”, per poi scrivere un romanzo intitolato “Pianeta senza visto” e, da ultimo, “La Città senza Cielo”: in un’epoca di green pass e limitazioni alla libertà di circolazione dei cittadini, non è poco neanche questo.
* La città senza cielo di Jean Malaquais, Cliquot, euro 20