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Squid Game, l’orrore già visto che adesso fa (più) paura

Il successo della serie coreana di Netflix che rivisita in chiave distopica temi già noti al cinema e persino alla tv

by Giovanni Vasso
13 Ottobre 2021
in Cinema, Televisionando
1

Se contano solo i soldi, la realtà di Squid Game non è tanto distopica. Se conta solo la “scelta”, a prescindere dalle condizioni e dalle pressioni che la fanno maturare, Squid Game è davvero terrorizzante. Una realtà mostruosa; non tanto perché si ammazza la gente ma perché ogni proiettile, ogni morto non fa, alla lunga, nemmeno più impressione.

La trama della serie coreana non è neanche troppo originale. A prima vista una sorta di crasi tra le vecchissime puntate di “Mai dire Banzai” e gli horror giapponesi di qualche anno fa. Come “As the God wills” (Kami-sama no iu tōri, 2014). live action  – tratto dal “solito” manga – del genio visionario Takashi Miike. In cui una divinità tanto buffa quanto sanguinaria sale in cattedra e fa strage tanto orrorifica quanto ridicola di studenti costretti a giocare a “Un, due, tre…stella!”. Una traccia simile, nel cinema occidentale, è nel film “Live!” del 2007. Che racconta la storia sfacciata di una produttrice tv (Eva Mendes) che s’inventa il reality più crudele di sempre: la roulette russa.

Il successo di Squid Game, oltre che ad un’azzeccatissima campagna di marketing, è nelle letture più o meno politiche che le si possono dare. La distopia vende, bellezza. E diverte che ciò accada nell’epoca più spoliticizzata dell’era recente. La serie non fa paura perché i partecipanti al “gioco“, debitamente spersonalizzati, muoiono o uccidono e per un gioco infantile. Terrorizza (e qui c’è un piccolo spoiler) perché i giocatori, dopo aver deciso (con un voto democratico, condizionato e combattutissimo…) di abbandonare l’isola in cui sono detenuti, tornano quasi tutti, loro sponte, a lasciarsi scannare. “Perché il vero inferno è la vita reale”, secondo uno dei leit motiv dell’horror anni ’90: Dylan Dog docet. Ma qui c’entra poco la sensibilità. Se i “giocatori” tornano è perché sognano di mettere le mani sul salvadanaio strapieno di miliardi in contanti. Tutto, pur di avere una opportunità di arricchirsi con estrema facilità. Anche consegnarsi al carnefice più assurdo.

Squid Game non è il trionfo dell’individualismo disperato che alla speranza si aggrappa con tutte le sue forze. Ma è il fallimento morale di una società che si regge solo ed esclusivamente sull’appetito. Che qualcuno chiama speranza. Magari di farcela, di arricchirsi una volta per tutte. Ma la speranza, come insegna una tradizione antica che viene prima del Cristianesimo, non è sempre un valore. Anzi, spesso e volentieri – come ci ha spiegato Elémire Zolla – si trasforma un autentico veleno.

Insomma, niente di nuovo. Almeno, non c’è nulla che Renzo Arbore non ci abbia già cantato: “Sì, la vita è tutto un quiz”. Col “reality” al posto del gioco a premi e sanguinari giudici di gara mascherati al posto del notaio di “Indietro Tutta”. La serie coreana fa paura perché svela il collegamento che c’è tra i frizzi e lazzi delle ragazze del Cacao Meravigliao  a un tripudio di lacrime e sangue in appena attutito splatter asiatico. E, soprattutto, perché i giocatori non sono, per provenienza sociale e carattere, troppo diversi da noi.

 

Giovanni Vasso

Giovanni Vasso

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Tags: Netflixsquid game

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Comments 1

  1. Guidobono says:
    7 mesi ago

    Nulla è più bestiale, assurdo, miserabile, atroce, crudele del regime comunista nordcoreano che ha attaccato il capitalismo di Seul prendendo spunto da Squid Game.

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