Nel secondo dopoguerra, la storiografia filosofica italiana ha messo in atto un’azione denigrativa nei confronti del neoidealismo, che aveva celebrato la propria marcia trionfale assieme a quella del Fascismo. Tali giudizi negativi hanno, alla lunga, finito per pesare sulla reale valutazione del ruolo giocato dalla filosofia italiana a livello internazionale. Da ciò è disceso che, per troppo tempo, il lettore di media cultura ha ritenuto la speculazione nazionale secondaria, provinciale e passiva di fronte alle filosofie d’oltralpe. Fortunatamente le cose sono cambiate e, attualmente, il pensiero italiano gode di ampio credito. A conferma, vi sono una serie di pubblicazioni, tra le quali segnaliamo, La tradizione filosofica italiana. Quattro paradigmi interpretativi, di Corrado Claverini, assegnista dell’Università di Salerno, da poco pubblicata per i tipi di Quodlibet (pp. 215, euro 20,00).
Il testo è costruito su ampia documentazione, come si evince dalla bibliografia che chiude il volume, le tesi sono articolate organicamente, in una prosa che, pur non perdendo il tratto oggettivo e tecnico della pubblicazione accademica, lascia trasparire l’empatia dell’autore per l’argomento discusso. Del resto, il tema presentato non è meramente filologico-passatista ma, come più volte rileva Claverini, aperto sul futuro. L’autore individua quattro paradigmi essenziali attorno ai quali, nel corso di due secoli, si è articolato il dibattito sulla filosofia italiana, sui suoi caratteri costitutivi e sulle sue specificità rispetto ad altre forme di pensiero. Il primo a sollevare la questione e ad entrare nel merito è stato Bertrando Spaventa nello scritto (originariamente una Prolusione) conosciuto con il titolo, La filosofia italiana nelle sue relazioni con la filosofia europea del 1861. Il pensatore abruzzese dice di una “circolazione” europea presente alle origini della filosofia nazionale. In ciò, egli prese le distanze dal Vico del, De antiquissima italorum sapientia, e da chi, nel secolo XIX, si fece latore del “primato italiano”, vale a dire Vincenzo Gioberti.
Per Spaventa, i protagonisti del nostro pensiero rinascimentale e post-rinascimentale furono dei “precorritori” delle istanze teoriche moderne. Spinoza e Cartesio risulterebbero incomprensibili senza Bruno e Campanella, così come Bacone e Locke, ove non si facesse riferimento al cosentino Telesio. Vico, in tal senso, non fece che anticipare tematiche criticiste e idealiste. Inoltre, Spaventa fece rilevare come la filosofia, dall’Europa, abbia fatto, in seguito, ritorno nella penisola: la cosa è attestata dalle opere di Galluppi, Rosmini e Gioberti. Il secondo canone interpretativo lo si deve a Giovanni Gentile. Questi, fin dal 1897, con il suo Rosmini e Gioberti, riprese e rielaborò originalmente le tesi di Spaventa. Rispetto all’abruzzese, Gentile integrò nell’iter della filosofia italiana, l’importante figura di Genovesi. Il pensatore di Castelvetrano avrebbe voluto portare a termine l’opera del suo predecessore, sviluppandola in quanto: «occorreva abbandonare gli atteggiamenti di mera erudizione e dossografia insieme alle più sfrontate operazioni ideologiche» (p. 10). Si trattava di colmare i “vuoti” lasciati in essere da Spaventa nella storia del pensiero italiano. Allo scopo, il filosofo dell’atto puro si impegnò, tra il 1904 e il 1915, nella stesura per l’editore Vallardi, di fascicoli relativi alla storia della filosofia italiana. Nel 1915 uscì l’ultimo, inerente Lorenzo Valla. La differenza, rispetto al predecessore, è evidente: «In Gentile si parte dal medioevo, si analizza approfonditamente l’Umanesimo e vengono trattati alcuni pensatori napoletani vissuti tra Vico e Galluppi» (p. 11).
In ogni caso, poiché Gentile aveva scritto una serie di testi storico-filosofici, servendosi di questi ultimi, Eugenio Garin portò a conclusione il lavoro dell’attualista e, nel 1947, vide la luce la sua Storia della Filosofia italiana, che, ad oggi, ha avuto diverse edizioni. Garin si pone oltre le categorie interpretative proprie del neoidealismo, in quanto riteneva che: «la valorizzazione di soggetto, natura e storia, avvenuta in Italia […] implica il fatto che in Spaventa modernità non significhi solo precorrimento ma anche immanenza». Ciò aveva indotto il filosofo di Castelvetrano a leggere la storia della filosofia italiana quale processo unitario, dalla trascendenza verso l’immanenza, in termini di filosofia della storia. Garin vuole restituire alla storia, anche del pensiero, il tratto della storicità “aperta”, al di là dei determinismi. In ciò, il suo paradigma interpretativo, centrato su una “differenza” italiana non riducibile ad un’unica caratteristica peculiare. La filosofia italiana ha mantenuto, a dire del nostro, in ogni epoca, un solo tratto significativo e connotante: «non è mai stata una filosofia sistematica, ma piuttosto una filosofia mondana che presta molta attenzione alla dimensione umana e storica» (p. 13).
Il quarto canone interpretativo del pensiero italiano è attribuibile a Roberto Esposito che, nel 2010, dette alle stampe il volume, Pensiero vivente la cui argomentazione centrale sviluppò nel 2016, nel successivo, Da fuori. Il filosofo presenta qui una ricostruzione della filosofia italiana dall’Umanesimo al contemporaneo Italian Thought: «con l’intento di mettere tale pensiero in tensione dialettica e insieme contrastiva con altre due tradizioni […] approdate negli USA nel corso del Novecento […] la German Philosophy e la French Theory» (pp. 13-14). Quella italiana è, per Esposito, filosofia della “resistenza” come mostrano l’esilio di Dante e Machiavelli, i roghi di Bruno e Vanini, il processo di Galilei. Lo stesso Gentile che, per parte della sua vita, è stato filosofo di Stato, ha chiuso i suoi giorni assassinato per le sue idee. Inoltre: «fin dal suo esordio […] vita, politica e storia costituiscono gli assi di scorrimento di un pensiero in buona parte esterno alla piaga trascendentale in cui resta impigliata la sezione più cospicua e influente della filosofia moderna» (p. 106). Esposto ritiene, e ciò marca la distanza di questo paradigma dai precedenti, che il discorso sulla filosofia italiana debba essere compiuto in termini “territoriali” e non nazionali.
Egli, con Deleuze, per territorio intende: «un insieme di caratteristiche ambientali, linguistiche, tonali che rimandano a una modalità specifica e inconfondibile rispetto ad altri stili di pensiero» (p. 107). La storia della filosofia è quindi iscrivibile all’interno della dialettica “territorializzazione”/ “deterritorializzazione”. Ciò salverebbe il filosofare dallo scacco “nazionalistico”, tutelandone l’universalità. Nonostante la distinzione nazione/territorio ci paia, quantomeno, capziosa, condividiamo la posizione di Claverini, quando sostiene che in epoca di globalizzazione il recupero non sciovinista delle specificità, anche filosofiche, è valido antidoto contro il pensiero Unico.
*Quattro paradigmi interpretativi, di Corrado Claverini, Quodlibet (pp. 215, euro 20,00)