Il 9 ottobre del 1967, cinquantaquattro anni fa, in Bolivia veniva ucciso Ernesto “Che” Guevara. Tutti conoscono le sue ultime ore di vita, asserragliato sulla sierra con pochi uomini rimasti fedeli e braccato dai “ranger” dell’esercito boliviano: lo scontro a fuoco, il ferimento, la cattura e la detenzione per una notte nella piccola scuola di La Higuera, uno dei tanti villaggi delle montagne boliviane. Guevara era ferito a una gamba, ma non in modo grave. Il giorno successivo, il 9 ottobre appunto, sul posto arrivano in elicottero alcuni pezzi grossi dell’esercito e un agente della CIA, Félix Rodriguez. Una volta appurato che il prigioniero è proprio il famoso guerrigliero argentino, da La Paz giunge un ordine preciso: uccidetelo. Così, senza processo e a sangue freddo.
Il compito viene affidato a un sergente dell’esercito boliviano, Mario Teràn. Il sottufficiale è perplesso, forse anche intimidito dal personaggio che ha di fronte. Lui stesso racconterà che Guevara si tirò su e gli disse: «Lei è venuto ad ammazzarmi, vero? Stia tranquillo e miri bene, lei ucciderà un uomo». Teràn spara due raffiche con un fucile mitragliatore, la prima ferisce soltanto il capo guerrigliero, la seconda lo finisce. Termina così la vita di Ernesto Guevara de la Serna, che all’epoca aveva trentanove anni, e comincia la leggenda del “Che”, combattente eterno.
Ciò che invece pochi sanno è il destino sfortunato al quale andranno incontro gli uomini responsabili del suo assassinio, tanto i mandanti quanto gli esecutori. Una storia strana, tragica e controversa che porterà molti a parlare di una vera e proprio “maledizione del Che” che si è abbattuta contro i suoi killer. Ecco ad esempio il caso che riguarda l’ufficiale che ha catturato Guevara, il capitano dell’esercito boliviano Gary Prado. Andato in pensione con il grado di generale, nel 2002 Prado viene nominato ambasciatore in Messico, ma nel Paese centroamericano viene accolto molto male, sia dal partito al governo che dalle opposizioni: nessuno vuole come ambasciatore uno degli uomini che hanno ucciso il “Che”. Intervistato da un giornale messicano circa la presunta “maledizione”, il generale Prado ammette di crederci: lui è dal 1981 che è costretto su una sedia a rotelle perché è rimasto ferito alla spina dorsale durante un’esercitazione militare.
All’esecutore materiale dell’omicidio, il sergente Mario Teràn, non è andata meglio. Il suo nome era rimasto segreto ma viene scoperto nel 1970, a meno di tre anni dalla morte di Guevara, da un giornalista italiano, Roberto Savio, che si era recato in Bolivia per conto della RAI per realizzare un documentario. Inizialmente Teràn nega, poi infine ammette di aver sparato lui al “Che”. Di Teràn non si sa più nulla per molti anni, se non che era stato congedato dall’esercito per alcolismo. Poi ricompare nel 2006, povero in canna e quasi cieco, e per uno di quei bizzarri scherzi del destino viene operato in un ospedale di Santa Cruz de la Sierra da un’équipe di medici cubani, che svolge attività di aiuto umanitario a sostegno del governo di Evo Morales. «È un vero paradosso – scrive il quotidiano El Deber di Santa Cruz – Terán aveva problemi di cataratta ed è stato curato nell’ambito dell’Operazione Miracolo, da medici cubani, totalmente gratis».
Ora facciamo un passo indietro di parecchi anni. Il 1° aprile 1971, alle dieci meno venti del mattino, un’elegante giovane donna attende il suo turno nell’anticamera del consolato boliviano di Amburgo, in Germania. Ha chiesto di essere ricevuta dal console Roberto Quintanilla, che quattro anni prima ricopriva la carica di capo dei servizi segreti dell’esercito boliviano e aveva ordinato l’amputazione delle mani del “Che” dopo la sua morte. Quando il diplomatico le va incontro, senza dire una parola Monica Ertl tira fuori una pistola dalla borsa e gli spara tre volte. Durante la fuga, la giovane abbandona una parrucca, la sua borsa, la Colt Cobra 38 Special e un pezzo di carta con la scritta «Vittoria o morte. ELN». Era una giovane boliviana di origine tedesca, militante dell’Esercito Nazionale di Liberazione e con questo gesto ha voluto vendicare la morte di “Che” Guevara. Verrà uccisa anche lei un paio di anni dopo vicino a La Paz dalle forze di sicurezza boliviane.
Alcuni anni dopo un’altra vittima della “maledizione del Che” è il generale Joaquín Zenteno Anaya, comandante della settima divisione dell’esercito a Santa Cruz, i ranger addestrati dai “berretti verdi” nordamericani che catturarono Guevara nella Quebrada de Yuro. Dopo il suo ritiro dall’esercito è stato premiato con l’incarico di ambasciatore a Lima e Parigi. L’11 maggio 1976, nella capitale francese, un commando di almeno due uomini lo intercetta per strada e lo uccide. In un primo momento si pensa a un altro attentato di guerriglieri rivoluzionari in cerca di vendetta, ma in seguito grazie anche a un’inchiesta dei giornali francesi Le Quotidien e Le Nouvel Observateur si viene a scoprire che gli assassini fanno parte dei servizi segreti della Bolivia e che Zenteno Anaya è stato eliminato perché considerato un pericoloso avversario dal regime del dittatore Hugo Banzer.
Ma la striscia di sangue non si ferma. Meno di un mese dopo la morte di Zenteno Anaya, muore anche il generale Juan José Torres. Nel 1967 era il capo di Stato Maggiore delle Forze Armate boliviane ed era stato colui che aveva dato l’ordine di giustiziare il “Che”. Nel 1970 Torres aveva assunto la presidenza della Bolivia, sostenuto da un’insurrezione popolare con la partecipazione dei lavoratori, delle organizzazioni contadine, del movimento universitario e di un settore dell’esercito. Rimase al potere per meno di un anno, durante il quale diede al suo governo un orientamento di “sinistra nazionale”, fino a quando il 21 agosto 1971 non fu rovesciato da un altro generale, Hugo Banzer, e dovette andare in esilio in Argentina. Ebbene, Torres viene rapito e assassinato a Buenos Aires il 2 giugno 1976, nell’ambito del Piano Condor, che prevedeva la collaborazione delle dittature sudamericane con la giunta golpista retta dal generale Jorge Rafael Videla. Banzer si toglie di torno un altro pericoloso avversario.
Neppure il presidente in carica quando “Che” Guevara venne catturato e ucciso sfugge alla maledizione. René Barrientos Ortuño, anch’egli generale, avrebbe avallato la decisione di uccidere il guerrigliero argentino dopo essersi consultato con il governo degli Stati Uniti. Il 27 aprile 1969, mentre è ancora alla guida dell’esecutivo boliviano, dopo una visita alla città di Arque sale a bordo di un elicottero per tornare a Cochabamba. Sulla via del ritorno il velivolo impatta contro dei cavi, precipita a terra e prende fuoco. Per Barrientos non c’è scampo.
Brutta fine anche per il tenente colonnello Andrés Selich, che arrivò a La Higuera dopo la cattura del “Che” e fu colui che lo colpì con il calcio del fucile sulla schiena nella piccola scuola in cui l’argentino era detenuto. Selich è un’altra vittima della violenza del regime di Banzer, picchiato a morte nel 1973 durante un interrogatorio, accusato di aver pianificato un colpo di stato contro il dittatore al potere.
Non ha avuto vita lunga nemmeno il contadino Pedro Peña, l’uomo che aveva informato i ranger della posizione dei guerriglieri. Nel 1971 viene giustiziato da un commando di estrema sinistra che nei suoi confronti aveva emesso una condanna a morte in quanto informatore dell’esercito. Di lui rimane un’immagine terribile nel documentario di Roberto Savio. Davanti alla telecamera Peña conta i 5 mila pesos boliviani che il giornalista gli ha dato per farsi riprendere. È la stessa somma che l’esercito boliviano gli elargì nell’ottobre 1967 per le informazioni che consentirono di catturare Guevara.
Alla lunga lista manca però un nome e sembra che in questo caso la “maledizione” abbia fatto cilecca. Félix Rodriguez, l’agente della CIA accorso a La Higuera subito dopo l’arresto per identificare e interrogare il guerrigliero, è ancora vivo e vegeto. Nato a L’Avana nel 1941, fuggito con la famiglia negli Stati Uniti dopo la presa del potere di Fidel Castro, Rodriguez è diventato cittadino statunitense e per molti decenni ha “servito” il suo nuovo Paese come agente della CIA, partecipando tra l’altro al fallito sbarco della Baia dei Porci e a numerose operazioni coperte in Vietnam. Nel 2004 è divenuto presidente della Brigata 2506 Veterans Association, che raccoglie i sopravvissuti e le loro famiglie e durante le elezioni statunitensi del 2004, Rodriguez è stato accusato dal candidato democratico John Kerry di essere coinvolto in un finanziamento di 10 milioni di dollari a cartelli della droga colombiani. Accuse però mai provate. Ora è in pensione e vive a Miami, la “piccola Avana”, roccaforte degli esuli cubani anticastristi. A quanto pare le protezioni della CIA e degli USA sono più forti persino della “maledizione del Che”.