Ho seguito con rammarico, ma senza stupore, i risultati del primo turno delle amministrative, che segnano, a parte alcune isole più o meno felici, dalla Puglia a Trieste, un netto calo del centrodestra. Da tempo avevo compreso che l’onda lunga del cosiddetto sovranismo si era infranta sugli scogli del politicamente corretto e del pensiero unico. Invocare la scarsa affluenza alle urne, che non ha certo giovato al centrodestra, ma che il centrodestra non ha saputo evitare motivando gli elettori, sarebbe sbrigativo. Come sarebbe banalmente autoassolutorio dare la colpa ai complotti mediatico-giudiziari, che senza dubbio ci sono stati, ma non bastano da soli a giustificare il risultato. Non parliamo poi del cattivo gusto di addebitare la sconfitta allo scarso richiamo dei candidati scelti, umiliando chi, spesso dopo ripetute pressioni, ha avuto il coraggio di “metterci la faccia”, pur sapendo di avere poche chances. Molto più serio sarebbe interrogarsi sul perché per il centrodestra sia divenuto difficile reperire candidati “civici”. Secondo me il fenomeno è legato al fatto che in una società in cui la sinistra controlla le leve del potere accademico, culturale, finanziario, burocratico, scegliere di candidarsi all’opposizione può comportare la morte civile, anche perché nelle enclaves dove la destra è al governo o detiene comunque spazi più o meno ampi di potere si guarda bene dall’utilizzarlo a favore di chi si è esposto “mettendoci la faccia” e deve sopportare ritorsioni nella professione, nell’attività imprenditoriale, sul posto di lavoro.
Le ragioni della crisi
Il problema, semmai, è un altro: i risultati di domenica e lunedì scorsi possono essere considerati un fenomeno congiunturale o costituiscono l’avvisaglia di una crisi strutturale del centrodestra? Non si tratta di una discussione accademica, perché a seconda della risposta che si potrà dare a questo interrogativo la destra dovrebbe regolare le sue strategie prossime venture. Pensiamo alla scelta fra il maggioritario, sia pur corretto, e il proporzionale, che costituirebbe un non spregevole salvagente nel caso di una sconfitta elettorale di misura alle politiche, analoga a quelle del 1996 e del 2006. O fra la sollecitudine nel porre termine alla legislatura, a costo di mandare Draghi al Quirinale, o un più cauto segnare il passo in attesa di un sia pur problematico ricompattamento, superata magari l’emergenza Covid.
Sono per natura propenso al pessimismo, e, da un punto di vista politico oltre che oculistico, presbite, ovvero incline a guardare a un futuro abbastanza distante più che a valutare l’impatto a breve termine di determinate scelte politiche. Per questo penso che, nel medio periodo, ovvero nei due anni che ci separano da una regolare scadenza della legislatura, il cammino per il centrodestra sarà tutto in salita, e questo per diversi ordini di motivi.
Il quadro internazionale
Il primo è che, per una serie di coincidenze che coincidono troppo per poter essere considerate mere casualità, le oscillazioni della politica italiana risentono molto del colore del presidente degli Stati Uniti d’America. Gli anni del centrismo coincisero con gli anni della presidenza del repubblicano Eisenhower, mentre la svolta a sinistra fu resa possibile anche dall’ascesa alla Casa Bianca del democratico Kennedy. Durante la presidenza Nixon l’Italia vide la nascita di un ministero neocentrista, col ritorno dei liberali, che fu detto appunto Andreotti-Malagodi; i governi di solidarietà nazionale vengono varati dopo il ritorno dei democratici alla Casa Bianca, con Jimmy Carter, mentre il pentapartito, con l’estromissione dei comunisti dall’area di governo e il ritorno del Pli al governo, coincise con gli anni della presidenza Reagan. Gli anni ’90, con Clinton presidente degli Usa, furono gli anni dell’Ulivo Mondiale, e proprio in quel periodo prima entrò in crisi il pentapartito, poi fu fatto cadere il governo Berlusconi e, anche per una serie di gravi errori tattici del centrodestra, fu possibile il varo dei governi Prodi e D’Alema. L’unico periodo in cui l’allora Popolo delle Libertà poté governare ininterrottamente fu dal 2001 al 2006, durante la presidenza di Bush Jr; dopo la vittoria dell’“abbronzato” Obama Berlusconi, che aveva vinto le elezioni del 2008, si dovette dimettere. L’effimero successo del progetto sovranista di Salvini ha trovato alimento dalla presidenza Trump, mentre il riflusso dei partiti di destra coincide con la presidenza Biden.
Non vorrei essere frainteso: non sono un complottista, non credo alla teoria del “doppio Stato”, non vedo ovunque intrighi della Cia. Penso però che gli Stati Uniti abbiano esercitato e continuino ad esercitare un’egemonia culturale, di carattere in prevalenza mediatico, che trova riscontro nel sentire comune dell’elettorato. Certo, dietro l’apertura a sinistra c’era anche la personalità del “papa buono” Giovanni XXIII e sul riflusso degli anni ’80 influirono personalità almeno pari a Reagan, come la Thatcher e soprattutto papa Giovanni Paolo II; ma una successione di coincidenze perduranti nell’arco di oltre mezzo secolo dovrebbe almeno fare riflettere. Non è un caso per altro che dopo la caduta di Trump un po’ tutti i governi d’ispirazione sovranista, dal Brasile di Bolsonaro alla Polonia e all’Ungheria, sono sotto assedio. Si potrebbe obiettare che la caduta del governo giallo-verde è anteriore alla sconfitta di Trump, che anzi diede la sua benedizione a “Giuseppi”, e che lo stesso può dirsi della quasi contemporanea crisi del governo austriaco nell’estate del 2019; ma qui entrano in gioco altri fattori, di carattere forse più psicologico che ideologico. È difficile negare che la Lega, come del resto i nazionalisti austriaci, abbia pagato alcune ingenuità nel rapporto con Mosca.
La debolezza nelle città e nelle metropoli
Il secondo motivo che m’induce a paventare un’eclissi sovranista risiede nella composizione geografica e anagrafica del voto. Lega e Fratelli d’Italia sono più deboli nelle grandi città e, all’interno delle città, nei centri storici. Il fenomeno, per altro, non è solo italiano, ma europeo e internazionale: a Parigi, a Barcellona, a Londra, a Budapest, a Varsavia i sindaci sono di sinistra, anche in nazioni a maggioranza conservatrice. Sono stato in gioventù un cultore di Strapaese, tanto da dedicare i miei primi articoli con pretese di scientificità a riviste come “L’Italiano”, “La Conquista dello Stato”, “Il Selvaggio”. Resta il fatto che, per quanto ne pensassero un Longanesi, un Malaparte o un Maccari, l’egemonia culturale si conquista nelle città, e dall’egemonia culturale discende, sia pure non immediatamente, l’egemonia politica. Si può ironizzare quanto si vuole sulla “sinistra delle Ztl” o sui “bobos” che sfrecciano in monopattino nel centro di Parigi, ma alla lunga, fra Strapaese e Stracittà, è quest’ultima a fare la storia.
Anche la conformazione anagrafica del voto – non mi stancherò mai di ripeterlo – non gioca a favore del centrodestra. Alle elezioni politiche dalla differenza di percentuali fra Camera e Senato è facilmente desumibile che i più giovani votano in maggior misura a sinistra. L’impatto non è per ora traumatico come lo fu nelle amministrative del 1975, le prime elezioni in cui votarono i diciottenni per l’abbassamento della maggiore età. All’epoca i numerosissimi baby boomers ammessi al voto, votando in prevalenza a sinistra, contribuirono a condurre il Pci a conquistare grandi Comuni che in precedenza erano stati a guida democristiana. Oggi i giovani, per effetto del calo delle nascite, costituiscono una percentuale minore della popolazione, ma il fenomeno nel medio periodo non è da sottovalutare, anche perché per effetto di naturalizzazioni o concessioni più o meno indiscriminate di cittadinanza si registrerà prima o poi l’impatto dell’accesso alle urne di diciottenni provenienti da gruppi etnici con ben altri tassi di incremento demografico.
Oltre il dato quantitativo (fondamentale, perché la democrazia è un fatto essenzialmente aritmetico: l’arte di contare le teste invece che di spaccarsele) sarebbe interessante valutare le conseguenze dell’aspetto qualitativo del fenomeno. Oggi a votare a destra sono in larga misura giovani che si sono inseriti precocemente nel mondo del lavoro, mentre i più scolarizzati votano a sinistra: tutto il contrario degli anni ’50 e ’60, quando il garzone, l’apprendista o l’alunno dei professionali si iscriveva alla Fgci, mentre il liceale, almeno fino al ’68, aderiva alla Giovane Italia. Le spiegazioni sono diverse: senza dubbio il lavoro è una scuola di concretezza, che insegna a diffidare delle utopie, e il timore per la concorrenza di quell’“esercito del lavoro di riserva” che sono gli immigrati pesa sulle scelte politiche di padri e figli. Ma alla base del fenomeno credo pesi la disattenzione delle forze di destra – e in particolare di Forza Italia – nei confronti dei problemi della scuola e in particolare del corpo docente. Già quarant’anni fa prevedevo che la proletarizzazione economica e normativa degli insegnanti avrebbe prima o poi condotto a una loro proletarizzazione culturale e di conseguenza politica. Il corpo docente, che fino agli anni ’80 era in prevalenza moderato (non a caso il sindacato maggioritario era l’autonomo Snals, che si contrapponeva alla “triplice” Cgil-Cisl-Uil) è oggi in prevalenza di sinistra, specie nelle discipline umanistiche. Il sindacato maggioritario è la Cgil, che fino al 1967 non esisteva neppure nelle scuole. Non si può parlare solo di onda lunga del ’68 (i veri sessantottini sono ormai in pensione), ma di lento degrado di una professione che, privando i docenti del tempo necessario per lo studio e la riflessione con una serie di impegni pseudo didattici e burocratici, favorisce una massificante adesione ai principi del politicamente corretto.
Le posizioni sulla gestione pandemia
Altri fattori che aiutano a spiegare l’insuccesso elettorale del centrodestra risiedono nelle conseguenze della pandemia. Il panico per la minaccia del Covid – fenomeno angoscioso, ma si spera transitorio – ha distratto l’elettorato dal fenomeno, tutt’altro che contingente, dei flussi migratori. Né si può trascurare l’effetto negativo che le posizioni critiche di Salvini e della Meloni nei confronti del passaporto verde possono aver esercitato su buona parte dei loro elettori: imprenditori e commercianti, artigiani e ristoratori desiderosi di vedere raggiunta al più presto una presunta immunità di gregge per non vedere pregiudicati i loro pur legittimi affari. La posizione dei due leader – che considero pienamente condivisibile sotto il profilo etico – ha avuto un probabile costo in termini elettorali, e i voti persi non sempre sono andati a Forza Italia, fermamente e a volte sguaiatamente favorevole al cosiddetto green pass.
Così stando le cose, la risposta del centrodestra all’insuccesso di domenica e lunedì scorsi può essere sia di ordine tattico, sia di ordine strategico. Sul terreno tattico, potrebbe essere opportuno spingere verso elezioni anticipate, prima che l’ammissione al voto di sempre nuove classi demografiche comporti una trasformazione della geografia elettorale, e non accondiscendere alla demagogica proposta del Pd di abbassare l’età del voto a sedici anni (come si possono consegnare i destini dell’Italia a minorenni che ancora non sono liberi nemmeno di andare in bagno senza il permesso del professore?). Ma sul piano strategico la prospettiva per il centrodestra non può che essere una sola: investire nella cultura, in tutti i campi, utilizzando, come fece a suo tempo il Pci, gli spazi conquistati negli enti locali e sponsorizzando studi, spettacoli, ricerche. Perché, come diceva Winston Churchill, si può fare cultura senza fare politica, ma non si può fare politica senza autentica cultura. L’alternativa al pensiero unico non può essere il non pensiero.
E se dovessero vincere al ballottaggio sia Michetti e sia Damilano,dove sarebbe la debacle.!! Il solito piagnucolio,e che diamine un po’ di spirito d’assalto..
Michetti, ma soprattutto Damilano, è praticamente impossibile che vincano i ballottaggi. Bisognerebbe, forse, oltre agli argomenti lucidamente ed acutamente esposti da Enrico Nistri, spendere due parole sui danni arrecati dalla Lega di Salvini e la sua incomprensibile politica a zig-zag al Centro Destra. Rimango della mia idea. Una coalizione guidata da Destra non vince in Italia, per cento motivi. Occorre una guida di Centro. Poi si dica pure che il Centro è il “non luogo” per eccellenza. Tutto vero, ma ti fa vincere, che in politica come nel calcio è l’unica cosa che conta..
Mi sembra che perdere così Milano e Napoli, che un tempo votava Lauro, e veder vincere Letta a Siena, nonostante quello che la sinistra ha fatto del Monte dei Paschi, sia più che sufficiente.
Guidobono ha ragione da vendere.
Si vince conquistando il centro qualunque cosa esso sia. Anche la sinistra in Italia presentandosi solo come sinistra non ha mai vinto, e la DC presentandosi come partito moderato, di centro è stata maggioranza relativa per 40 anni.
Dopo Lauro, e vari democristi stinti, Napoli votava però anche PCI e Valenzi (sia pure senza elezioni dirette)… A Siena i neocomunisti potran fare mille porcate, ma mai lì voteranno a destra…
Anche Fanfani,Segni,Merzagora,Leone erano di centro, così come pure….Piccolo,Donat Catten,la Iervolino,la Anselmi.Quale era il Life motivation Di quest’ultimi gia’allora …L’amtifascismo.Essere Di Centro oggi vuol dire rimanere L’Italiano Di sempre…