‘Mostro dei mari’ si è convertito da molto tempo, forse da quando l’uomo scoprì la navigazione, e con essa l’ ebbrezza, misteri, pericoli del mare, in una sorta di mitico luogo comune, poetico, giornalistico o della gente in generale. Mare e navi luoghi dell’anima, dei vertici e degli abissi della condizione umana, dell’approdo o della perdizione, della paura e superstizione, dell’enigma insondabile voluto dagli dèi, della passione e del destino. Il mare come topos letterario di Melville, Conrad, Stevenson, Verne e molti altri. Come non ricordare alcuni passi dell’Odissea studiata in III Media? Alla pari di ‘nave maledetta’, in occasione di visioni inesplicabili, naufragi, incendi, collisioni. Da ultimo, restando all’Italia, la Costa Concordia, rovesciatasi sul fianco nel gennaio 2012, con decine di morti, a pochi metri dall’Isola del Giglio, dopo l’urto con uno scoglio, in una notte di mare calmo…
La storia del mare è piena di racconti di navi fantasma, che solcano gli oceani con a bordo ciurme spettrali, condannate a non giungere mai ad un porto o latrici di angosciosi interrogativi o abbandonate. Uno narra che il brigantino Mary Celeste navigava ad est delle Azzorre quando fu incontrato dal veliero Dei Gratia, nel dicembre 1872. I due navigli erano salpati assieme da New Kork un mese prima. Sul brigantino viaggiavano anche la moglie e la figlioletta del comandante. A bordo del Mary Celeste qualcosa doveva essere successo, capirono gli uomini del veliero. Le vele erano lacerate e vi regnava un silenzio tombale, nell’assenza di vite e di corpi. Della scialuppa di salvataggio non v’era traccia, la bussola era stata fatta a pezzi, c’erano segni di una fuga precipitosa, giocattoli sparsi. Un attacco di pirati? Perchè, allora, non si erano portati via il brigantino? Rimase un mistero irrisolto, di assenze, probabilmente di morti violente: materiale ghiotto per narrazioni raccapriccianti.
(https://realmisterx.altervista.org/leggende-di-navi-maledette-la-mary-celeste-la-nave-fantasma).
Tra tutte le leggende marinare nessuna mi pare, tuttavia, più inquietante, affascinante e duratura di quella dell’Olandese Volante (non Max Verstappen…).
‘Si baserebbe su di una nave realmente esistita, capitanata da Hendrik Vanderdecker che nel 1680 fece vela da Amsterdam a Batavia, nelle Indie Olandesi. La nave fu investita durante la traversata da un formidabile uragano tropicale. Contro ogni precauzione, il capitano affrontò la tempesta come se si trattasse di una sua sfida personale (anche perchè portava con sé mercanzie personali che pensava di rivendere con un forte guadagno), anzi, davanti ai suoi ufficiali, giurò che avrebbe sfidato la sorte e doppiato il Capo di Buona Speranza. Egli invocò il diavolo, facendo con lui la promessa che, se fosse riuscito a passare il Capo, avrebbe potuto prendere la sua anima nel giorno del Giudizio. Il demonio in persona sarebbe apparso al capitano incoraggiandolo a sfidare la volontà di Dio ed a dirigere la nave direttamente verso la tempesta. L’olandese accettò, attirando sul suo capo la condanna divina: lui e la sua nave di morti viventi avrebbero vagato per i mari senza mai toccare terra, fino al giorno del Giudizio. La nave si spezzò in due tronconi e fece naufragio. L’Olandese Volante da secoli è così un vascello fantasma che solca i mari in eterno, senza una meta precisa e verrebbe spesso avvistato da lontano, avvolto nella nebbia o emanante una luce spettrale. I marinai della nave sarebbero fantasmi che tentano di comunicare con le persone sulla terraferma. L’origine di questa leggenda secondo alcuni è olandese, mentre altri la ritengono generata dalla pièce melodrammatica The Flying Dutchman (1826) dell’inglese Edward Fitzball. Una credenza, una superstizione comunque assai diffusa tra i marinai del tempo. Resa celebre da Richard Wagner nell’opera Der Fliegende Holländer, del 1841′. (Da https://it.wikipedia.org/wiki/Olandese_Volante; https://www.navis.it/it/lolandese_volante).
‘Mostro dei mari’ è diventato un termine associato a natanti di dimensioni sempre maggiori, grazie alla tecnologia, sia per i crescenti usi mercantili legati alla globalizzazione dell’economia, all’incremento demografico ed all’espansione dei commerci, sia per le navi da crociera.
Nella cultura di massa l’immenso (per l’epoca) piroscafo Great Eastern – del quale ci occuperemo – di ben 32.00 tonnellate di stazza lorda, una realizzazione incredibile per la tecnica dei tempi, concepito dal brillante ingegner Isambard Kingdom Brunel, varato a Londra nel 1858, dopo varie complicazioni, allorché leggeri velieri ancora solcavano i mari, divenne precocemente un ‘mostro dei mari’ ed insieme una ‘nave maledetta’, e vedremo il perchè. Ben paradossale, trattandosi di un’epoca di positivismo trionfante (ma anche dei suoi opposti, per la verità, lo spiritismo e l’occultismo). Il famoso bastimento costituisce anche l’ambientazione del celebre romanzo di Jules Verne, Une ville flottante (Una città galleggiante nella traduzione italiana), edito nel 1870. Sul Great Eastern aveva attraversato l’Atlantico nel 1867, in compagnia del fratello Paul.
Da ultimo il cantautore britannico Sting ha dedicato al transatlantico (rimasto celebre nella cultura britannica di massa, oggetto di molte riproduzioni in scala) The Ballad of the Great Eastern, contenuto nell’album del 2013 The Last Ship, nel quale egli ricorda le 19 mila tonnellate di metallo usate per lo scafo, forgiate all’interno della ‘fonderia dove hanno fatto le porte dell’Inferno’:
‘In 18 hundred and 59, the engineer Brunel
Would build the greatest ship afloat, and rule the ocean’s swell
Nineteen thousand tons of steel they used to shape the mighty keel
Forged inside the smelter where they made the gates of Hell
And the name upon the contract, Isambard Brunel…’.
Isambard Kingdom Brunel (Portsmouth, 9 aprile 1806 – Londra, 15 settembre 1859) è stato tra i più rappresentativi ingegneri dell’età vittoriana, un geniale ideatore, tuttora considerato uno degli ingegni più innovativi e versatili d’ ogni tempo, avendo realizzato opere memorabili in vari campi, ponti, gallerie, ferrovie, navi. I progetti di Brunel contenevano soluzioni innovative per problemi fino ad allora insoluti. Brunel conseguì molti “primati” in ingegneria, fra i quali la costruzione del transatlantico Great Britain, la prima nave oceanica in metallo spinta da eliche, che fu per l’epoca (1843) anche la nave più grande mai costruita. Fu il primo piroscafo di ferro ad attraversare l’Atlantico, nel 1845, in 14 giorni. La nave misurava 98 metri di lunghezza, con una stazza di 3.400 tls., azionata da due motori a 2 cilindri. Originalmente trasportava 360 passeggeri e 130 di equipaggio; quando fu costruita una coperta extra, la sua capacità aumentò a 730 unità.
Un’altra nave progettata da Brunel, la SS Great Eastern, batté poi ogni primato e giocò un ruolo significativo nella posa del primo cavo sottomarino sul fondo dell’Atlantico, nel 1865. Brunel, per anni in precarie condizioni fisiche, ebbe un ictus fatale all’età di 53 anni. Nel 2002 in un sondaggio fatto dalla BBC per determinare i cento inglesi più influenti, Isambard Kingdom Brunel si classificò secondo dopo Winston Churchill. Egli non era solo un sognatore ostinato, un genio delle macchine, ma anche il cocciuto sostenitore di idee controverse, a volte destinate a non potersi concretizzare. Un uomo piccolo, solitario, spinoso.
Brunel progettò la linea Great Western Railway tra Londra e Bristol, lunga 245 km., entrata in servizio nel 1838. Dopo i treni fu la volta di ponti e grandi bastimenti a vapore. L’ingegnere mai considerò un problema insolubile. Dai suoi primi studi di ingegneria in Francia, e come operaio-artigiano presso l’orologiaio Louis Breguet, con il quale apprese la creazione di strumenti scientífici di precisione, non arretrò di fronte ad alcuna sfida. Incaricato dal padre, anch’egli ingegnere, di realizzare un’opera assai complicata, un ponte al di sotto del Tamigi, il giovane riuscì brillantemente nell’impresa. Vari degli arditi ponti metallici che poi disegnò seguono in uso. I famosi steamships ideati da Brunel, il Great Western nel 1837 – considerata la nave a vapore più grande del suo tempo, costruita nei cantieri di William Patterson a Bristol, su commissione della Great Western Steamship Company, con lo scafo ancora in legno – il menzionato Great Britain e, soprattutto, il Great Eastern, sono ricordati unanimemente come straordinarie opere di ingenieria, piroscafi che dimostrarono che quasi non esistevano limiti in futuro alla navigazione oceanica.
I piroscafi di Brunel, specialmente il gigante finale, erano però di fabbricazione e mantenimento costosi e nella loro costruzione i preventivi normalmente superati. Pochi capivano realmente ciò che Brunel stava disegnando. Le navi con lo scafo tutto di ferro, l’ adozione di eliche e l’introduzione di tecnologie innovative erano ancora viste da molti come eccentricità. Si raccontava ch’egli fumasse incessantemente, appena dormicchiava, sempre stava disegnando il portato di nuove intuizioni e facendo calcoli, come in preda alla febbre. Prima che alcune delle sue imponenti opere fossero concluse, a partire dal Great Eastern, sopravvenne l’ictus fatale.
(Cfr. Rolt Lionel Thomas Caswall, Isambard Kingdom Brunel, London, Longmans-Green, 1957; https://en.wikipedia.org/wiki/Isambard_Kingdom_Brunel; Bryan Tim, Brunel: the great engineer, Shepperton, 1999; https://archive.org/details/transatlanticsam00foxs ).
Il primo vero battello a vapore che aveva applicato il motore inventato da James Watt, e fu fatto navigare da Robert Fulton lungo il fiume Hudson, nel 1807, era stato il Clermont:
‘Aveva una potenza di 18 cavalli e fu demolito quasi subito dai barcaioli del fiume per paura di restare senza lavoro. Inizialmente il piroscafo fu usato nella navigazione in acque interne, essendo troppo rischioso l’utilizzo sulle lunghe distanze. La cultura del veliero era ancora saldamente radicata nell’immaginario collettivo e non si sapeva come risolvere il problema della scorta di combustibile. Nel 1838, infatti, i piroscafi Sirius e il citato Great Western intrapresero una gara di velocità durante la prima traversata atlantica a vapore, e il Sirius dovette bruciare l’arredamento delle cabine per mantenere in funzione la caldaia. Furono le prime navi ad attraversare l’Atlantico usando la forza del vapore. In quello stesso anno, il costruttore della Great Eastern, Isambard Kingdom Brunel, verificò una proporzione apparentemente banale, ma che ebbe un’importanza decisiva: più grande era il tonnellaggio della nave, più combustibile poteva trasportare e più lunga poteva essere la distanza da coprire’.
(Da https://it.wikipedia.org/wiki/Piroscafo; http://www.paesiteramani.it/Nonno/NaviABC.htm).
Tutto ciò sullo sfondo della Seconda Rivoluzione Industriale, il processo che rappresentò la seconda e decisiva fase di sviluppo produttivo, che viene da molti storici riportato al periodo compreso tra il Congresso di Parigi (1856) e quello di Berlino (1878), giungendo a pieno sviluppo nell’ultimo decennio del XIX secolo. Con annesso il ‘gigantismo’ del Great Eastern, così come quello succesivo della Tour Eiffel (trionfo dell’architettura del ferro, già usato per le famose Halles parigine), della statua della Libertà di New York, del Ponte di Brooklin, delle Esposizioni Internazionali, dei grattacieli della “Scuola di Chicago” che, dopo l’incendio della città, nel 1871, diede l’avvio alle alte costruzioni con strutture d’acciaio nelle due metropoli americane a cavallo del secolo (simboleggiate dall’ Home Insurance Building di Chicago, nel 1885, e poi dal Flatiron Building di Manhattan, nel 1902) ecc.
I trasporti divennero sempre più sviluppati e complessi. Il sistema ferroviario ebbe una crescita senza precedenti; negli Stati Uniti si passò da 15.000 km. di linee ferree (1850) a 200.000. L’accelerato potenziamento delle ferrovie rivoluzionò i commerci e la possibilità di movimento delle popolazioni, divenendo a sua volta un potente elemento di moltiplicazione della crescita economica delle aree interessate. La costruzione di ferrovie raggiunse una dimensione transcontinentale: la mitica coast-to-coast New York – San Francisco (1862–1869); la transandina tra Cile ed Argentina (1910); la transiberiana (1891–1904) tra Mosca e Vladivostok sul Pacifico, e successivamente sino a Port Arthur sul Mar Giallo, ebbero un’enorme influenza nello scambio delle merci in quanto si ridussero notevolmente i costi per il trasporto via terra. Inoltre, in alcune delle più importanti città europee ed americane si costruirono le prime metropolitane (city subways), fra le quali quelle di Londra e Parigi, che permettevano di spostarsi rapidamente all’interno delle aree urbane, enormemente accresciutesi.
Per quanto riguarda la navigazione, grazie allo sviluppo della metallurgia ed all’introduzione dell’elica, si poterono costruire i primi scafi in acciaio. Per i trasporti marittimi fu di rilevante importanza la costruzione di canali artificiali, come nel 1869 quello di Suez; nel 1895 il canale di Kiel, che facilitò gli scambi tra il Mare del Nord e il Baltico. Nel 1914 fu la volta del canale di Panama tra Atlantico e Pacifico. In tal modo le economie dei vari Stati cominciarono a divenire interdipendenti e sembrò realizzarsi il sogno degli illuministi che, basandosi sulla espansione del mercato, auspicavano il superamento delle barriere nazionali con la realizzazione del cosmopolitismo e della “Pubblica Felicità”. La realtà si rivelò, purtroppo, diversa: invece che il sorgere di un sentimento fraterno tra gli umani, si alimentò il feroce scontro dei nazionalismi, esplosi fatalmente a causa della miccia innescata dalla stupidata panserba di Sarajevo, nel giugno 1914.
(Da R. Williams, Cultura e rivoluzione industriale. Inghilterra 1780-1950, Torino, Einaudi, 1972; https://it.wikipedia.org/wiki/Seconda_rivoluzione_industriale).
Impostato nel 1853, il Leviathan* fu disegnato da Isambard Kingdom Brunel e costruito nei cantieri J. Scott Russell e Millwall Iron Works di Londra, sulla riva del Tamigi, a partire dal 1 maggio 1854, con la chiglia collocata parallelamente al fiume per spingerlo nell’acqua di fianco al momento del varo, date le sue dimensioni. Il banchiere londinese Lord Henry Thomas Hope (proprietario del famoso Diamante Hope) assunse la responsabilità finanziaria dell’impresa con la denominazione Eastern Steam Navigation Company. Due mila operai si riunirono il giorno d’inizio dei lavori. A causa dei costi elevati della costruzione, la Società armatrice andò in rovina, rimanendo i lavori bloccati per vari mesi dopo il fallimento del varo. La nave si arenò, infatti, subito dopo la discesa nel fiume, il 3 novembre 1857. Nei tre mesi seguenti Brunel provò una serie di congegni per risollevare lo scafo. Dopo cinque tentativi infruttuosi, la nave fu alzata grazie a possenti martinetti idraulici ed assai lentamente ricollocata sullo scalo. La nuova proprietaria dell’ Eastern fu The Great Ship Company.
La ‘maledizione del Diamante Hope’ continuò a funzionare, alimentata dalla stampa popolare londinese (che già esisteva, con gran diffusione), che con cronache morbose di fatti veri o ingigantiti, chiedeva, in articoli sensazionalisti, la liberazione dal “diabolico mostro”. Un giovane operaio di appena 15 anni cadde dall’alta fiancata. Un altro trovò la stessa fine pochi giorni dopo e da un’impalcatura ne caddero altri due. Un visitatore fu schiacciato dal crollo di una gru. Tutte morti istantanee, una dopo l’altra. Per colmo di disgrazia si notò, il giorno di paga, la scomparsa di due rivettatori che collocavano i rivetti alle plance dello scafo. Si sfumarono e mai più vennero visti. Si diffuse un’ atmosfera di panico attorno alla nave in costruzione. Correva voce che, a causa dell’urgenza, i due lavoratori erano stati sigillati vivi nelle paratie stagne!
Dopo il fallimento del varo, condito da innumerevoli altre morti tra addetti, operai e spettatori, seguirono disgrazie inesplicabili. Il Leviathan cambiò nome, divenne il Great Eastern, parte della leggenda nera londinese. Il 9 settembre 1859 Brunel sarà colpito da una embolia. La bara dell’ingegnere stava per scendere nella tomba (scrissero) quando una terribile esplosione scosse tutta la capitale. Una delle otto enormi caldaie era scoppiata in mille pezzi, uccidendo subito nove uomini e mandandone altri quattordici all’ospedale, in stato grave. Passarono due mesi prima che la Compagnia armatrice potesse placare, almeno parzialmente, gli animi eccitati.
Al momento del secondo, riuscito varo, nel 1858, lo steamship Great Eastern era la nave più grande del mondo. La sua costruzione era stata motivata dall’ aspirazione ad effettuare lunghi viaggi transoceanici sfruttando i motori a vapore. Il problema principale restava la quantità di combustibile (carbone) necessaria per coprire tali enormi distanze. Brunel aveva dimostrato che la resistenza di una nave all’acqua è proporzionale al quadrato delle sue dimensioni e che lo spazio disponibile per il carburante è proporzionale al cubo. Concepì un’imbarcazione cinque volte maggiore della più grande nave dell’epoca. Questo mastodonte non aveva sovrastrutture destinate ai passeggeri al di sopra dell’alto scafo, era dotato di cinque fumaioli, mosso da due gigantesche ruote a pale, un’elica e sei alberi per la navigazione complementare a vela. Era inoltre dotato di un doppio fondo che si estendeva per tutta la lunghezza della chiglia.
Il transatlantico fu precocemente descritto come ‘un gigante maledetto dal diavolo’ o un ‘elefante bianco’, un progetto di puro prestigio senza speranza di un ritorno commerciale, nella più benevola delle valutazioni. Tuttavia, il Great Eastern era stato concepito per effettuare lucrativi viaggi verso l’ Australia e l’ Estremo Oriente. Si congetturava che potesse navigare senza scalo da Londra a Sidney e ritorno, senza riapprovigionarsi di carbone. Contava con delle caratteristiche impressionanti per l’epoca, a partire dalla costruzione interamente metallica a compartimenti stagni e con un doppio fondo. Era lungo 211 mt., largo 25, una stazza di 32.160 tls., un equipaggio di 418 unità, potendo trasportare sino a 4.000 passeggeri. Disponeva di un sistema di propulsione misto, consistente in due smisurate ruote a pala, mosse da quattro enormi macchine a vapore, ed in un sistema ad elica, con un diametro di ben 17 mt., alimentato da un’altra macchina. Quindi, una terza macchina serviva per dispiegare 1.686 m² di vele sui sei alberi. La potenza totale propulsiva venne stimata in 8000 CV, per una velocità massima di 14 nodi. Il suo sistema telegrafico era incomparabile e costituiva altresì un utile campo di sperimentazione. I depositi di carbone erano come caverne scavate negli abissi di montagne e immagazzinavano combustibile sufficiente ad una città di 20 mila abitanti per tutto un inverno. Le cabine dei passeggeri erano illuminate da lampade a gas, ma la coperta superiore aveva un’illuminazione già elettrica, molti anni prima del sistema popolarizzato da Thomas Alva Edison. Il salone principale tra la prima e la seconda classe era delle generose dimensioni di un Grand Hotel internazionale, decorato in modo fastoso e sofisticato, con marmi italiani, sete e damaschi persiani, velluti arabi, dorature a profusione… Nulla era sembrato poco per quella meraviglia senza paragoni.
Però, in un viaggio di prova alla fine del 1859 il primo macchinista perse la mano nella caldaia. Tutta opera del fantasma del Great Eastern, secondo non pochi! Durante vari giorni l’equipaggio in prova si era lamentato di strani martellamenti nei corridoi, incessanti, terrificanti. Al punto che lo stesso, terrorizzato, finì per ammutinarsi. I disturbi si fecero talmente violenti che intervenne la polizia e metà dell’equipaggio finì dietro le sbarre… Il 21 gennaio 1860 il capitano Harrison, accompagnato da alcuni ufficiali e da un bambino di nove anni, scese in un canotto per raggiungere l’altra riva del Tamigi o per una ricognizione di routine. Poche centinaia di metri dopo, in forma inspiegabile, il barchino finì in un vortice, rovesciandosi. Il capitano Harrison, due ufficiali ed il fanciullo annegarono nelle torbide acque del fiume.
Non stupisce più di tanto che molti passeggeri, superstiziosi o cauti, rifiutassero d’imbarcarsi e cancellassero le prenotazioni. Viaggiare su quella ‘nave maledetta’ pareva quasi sinonimo di morte! Finalmente il ‘mostro’ prese il mare per il suo viaggio inaugurale. Solo si trovarono 36 passeggeri disposti a correre il rischio dell’avventura, nonostante i prezzi di liquidazione proposti dall’armatore. Quel 17 giugno 1860, la più stupefacente opera d’ingegneria mai vista levò le áncore da Southampton verso New York, dove arrivò dopo 11 giorni, nonostante il ritardo dovuto alla spessa nebbia incontrata.
Il viaggio fece registrare vari contrattempi, altri morti, e non era finita lì. Il gigantesco vapore al momento di attraccare alla banchina del porto di New York sfuggì di controllo ed urtò con violenza, spezzandolo, un molo in legno sul quale una moltitudine festante gli dava il benvenuto. Altre vittime. Tuttavia, il popolo americano ignorava la sinistra reputazione della nave “maledetta dal diavolo” e partecipò in massa a feste, balli, fiere organizzati per l’evento. Durante tali divertimenti su di un molo prossimo scoppiò un furioso incendio che a mala pena fu controllato dai pompieri accorsi, nove dei quali risultarono seriamente ustionati. Il Great Eastern salpò per Londra con cento passeggeri a bordo. Neppure la traversata di ritorno fu senza sangue ed incidenti. Due morti, compreso uno dei direttori della Compagnia armatrice, fulminato da un infarto, ed un piccolo rimorchiatore investito ed affondato.
Nel settembre 1861 si riuscì ad organizzare un nuovo viaggio a New York. Quattrocento passeggeri decisero di sfidare la fama tenebrosa che circondava quella meraviglia della tecnica e del progresso. Trovatasi in una inattesa tempesta fuori stagione, la nave perse varie pale trainanti ed uno dei fumaioli esplose, uccidendo sei persone. E distruggendo il grande salone, che rimase alla mercé dei pesanti pianoforti che, per il mare agitato, correvano e sfasciavano ogni cosa, come tori furiosi. Per sovvramercato, nel panico generale, mucche e vitelli vivi custoditi sotto coperta (non esisteva ancora la refrigerazione e gli animali andavano macellati poco prima di essere cucinati) si liberarono e presero a correre all’impazzata per la nave, tutto travolgendo in un quadro dantesco…. L’incubò terminò solo quando il Great Eastern arrivò a New York. I passeggeri abbandonarono in gran fretta la nave e molti si diressero immediatamente a degli studi legali per far causa alla Società armatrice.
L’anno successivo, nei primi mesi del 1862, il Great Eastern s’ incagliò nello stretto di Long Island, davanti a New York, urtando contro un bassofondo. Furono calati dei palombari per ispezionare lo scafo, che constatarono un enorme squarcio lungo 25 mt. e largo circa 4. Il secondo scafo salvò tuttavia la nave, che rimase in condizioni di navigabilità.
Il gigantesco ‘monumento alla strana maledizione del diamante Hope’ fu trasferito in un cantiere statunitense per le riparazioni necessarie. Gli operai solo vi lavorarono un giorno (pare), storditi da martellamenti furiosi di origine ignota provenienti dallo scafo. Poi si rifiutarono di proseguire. Il nuovo capitano dapprima ci rise su, fino a che li udì egli stesso, sbigottito. Comunque, per le riparazioni occorsero 4 mesi di lavoro e 350.000 dollari dell’epoca. Una fortuna. La “carriera” del bastimento era stata costellata da incessanti infortuni. La lunga serie di disastri si attenuerà, ma continuerà fino al disarmo della nave ed al suo smantellamento. Quando le lamiere vennero tagliate per la demolizione, gli allibiti addetti avrebbero scoperto, accanto ad una sacca di attrezzi arrugginiti, lo scheletro del povero rivettatore imprigionato fra le pareti di ferro del doppio scafo della Great Eastern, scomparso quasi 40 anni prima! Very gothic indeed…
Per il Great Eastern ‘esempio inconcepibile dell’audacia dell’ ingenio umano’ o ‘nave maledetta’ o ‘mostro dei mari’, la traversata atlantica rappresentava in ogni caso, fantasmi ed incidenti a parte, un tragitto troppo breve per coprire gli alti costi di mantenimento. Pertanto, fu attrezzato come nave posacavi, l’unica attività che apportò dei profitti. Il suo maggior contributo lo diede durante la posa del primo cavo telegrafico tra l’Europa e l’America, nel 1865, su proposta di Cyrus West Field, fondatore dell’ Atlantic Telegraph Company. Il cavo era lungo 3.700 chilometri e fu arrotolato in tre cisterne nella stiva della nave; fu steso sul fondale tra l’Irlanda e Terranova e – dopo la prima trasmissione transoceanica – l’evento fu celebrato come l’ ‘Ottava meraviglia del mondo’. Presto, in ogni caso, il Great Eastern venne sostituito da navi posacavi allestite appositamente, con minori costi di funzionamento. Il Great Eastern finì la sua esistenza come Music Hall galleggiante a Liverpool per i famosi magazzini Lewis´s, prima di essere inviato alla demolizione nel 1888. Fu rottamato a Rock Ferry, nell’ estuario del Mersey (presso Birkenhead) da Henry Bath & Sons. che, naturalmente, fece fallimento… Ci furono complicazioni perché le dimensioni della nave non permisero di spostarla con facilità e durante le operazioni si ruppe pure il cavo di traino. Dopo aver venduto gli arredi e le parti in metallo pregiato si passò alla demolizione del bastimento (ed all’epoca non esistevano fiamme ossidriche). Lo scafo progettato da Brunel dimostrò la sua resistenza, rendendo necessari ben 18 mesi di lavoro per demolirlo, fino al 1890. Oggi si può vedere l’ unica cosa che forse rimane del Great Eastern ad Anfield Road, lo stadio del Liverpool FC. Su un albero ondeggia la bandiera del club calcistico, i Red Devils…
(Cfr. https://en.wikipedia.org/wiki/SS_Great_Eastern; Carlos Rodríguez Vidal, Great Eastern (1858), in http://tecnologia maritima.blogspot.com/2015/07/great-eastern-1858.html; A. Polanco Masa, El Great Eastern, un monstruo de los mares, in http://alpoma.net/tecob/?p=12280; Juan Carlos López, SS “Great Eastern”. El barco maldito, in https://loscrucerosdemarian.com/ss-great-eastern-el-barco-maldito; https://darkgothiclolita.forumcommunity.net/?t=52553600;
Lo spettro della Great Eastern, in https://runeceltiche.wordpress.com/2012/11/09).
Il Great Eastern – al momento del varo, come detto, era il maggiore steamship al mondo, cinque volte più grande di qualsiasi nave allora in navigazione, e mantenne tale primato per quasi 50 anni – fu superato in lunghezza, solo di pochi metri, dall’ Oceanic (215 mt.), costruito nel 1899 nei cantieri navali Harlan & Wolff Ltd. di Belfast per la White Star and Dominion Line. Stazzava 17.272 tls. Aveva motori a vapore a tripla espansione e doppia elica. Poteva raggiungere i 19 nodi di velocità e trasportare 1.710 passeggeri, di cui 410 in prima classe, 300 in seconda e 1.000 in terza. Collegava Liverpool con New York. La contemporanea Celtic, costruita dal 1899 e varata nel 1901 dalla Harlan & Wolff Ltd. sempre per la società White Star, stazzava 20.904 tls. e trasportava fino a 2.857 passeggeri. Fu poi la volta (stesso cantiere e stessa Compagnia di navigazione) della Olympic e della gemella, la tristemente celeberrima Titanic (1911). Stazzavano 45.324 tls., eran lunghe 269 metri e larghe 28, con motori a vapore a tripla espansione e tre eliche. Potevano viaggiare ad una velocità di 21 nodi e trasportare fino a 2.764 passeggeri. Erano utilizzate sulla rotta Southampton-New York.
All’inizio del XX secolo la concorrenza transatlantica tra le compagnie di navigazione rivali era intensa, specialmente in Gran Bretagna. La Cunard Line aveva lanciato la sua famosa coppia, la Lusitania e la Mauretania, rispettivamente nel 1906 e nel 1907. Al momento del loro completamento, erano le navi più veloci al mondo. Nel 1910 erano stati compiuti progressi significativi anche nella costruzione dei transatlantici di Classe Olimpica. Anche se non veloci come i levrieri di Cunard, le nuove navi della White Star dovevano essere, per i proprietari, le più grandi al mondo. Il lusso e il comfort sarebbero stati i punti di forza di queste gigantesche navi, propagandati per offrire “alloggi per passeggeri di dimensioni e magnificenza senza rivali”.
Non erano da meno i piroscafi germanici della Classe Imperator, la risposta del Kaiser alle navi inglesi della Classe Olimpica. Appena un mese dopo il tragico affondamento del Titanic (15.4.1912), un transatlantico tedesco che lo superava in termini di dimensioni fu varato presso i cantieri navali Vulcan di Amburgo. Era l’ Imperator, la prima di una nuova classe di navi volute da Albert Ballin, il presidente della Hamburg Amerikanische Packetfahrt AG. Erano l’ Imperator (1912), il Vaterland (1913) ed il Bismarck (1914), con oltre 50.000 tls. di stazza. Progettati per competere in termini di comfort piuttosto che di velocità, tali liners erano destinati a rimanere le navi più grandi del mondo per quasi un quarto di secolo. Dopo la sconfitta tedesca del 1918, le tre unità furono consegnate ai vincitori: L’Imperator a Cunard, e divenne la RMS Berengaria, il Bismarck a White Star Line e ribattezzato RMS Majestic, il Vaterland agli Stati Uniti, convertendosi nel SS Leviathan.
La competizione sulle rotte atlantiche continuò vigorosa. Anche l’Italia vi partecipò con successo, specialmente con i due transatlantici quasi gemelli, il Rex (Cantieri Navali Ansaldo di Sestri Ponente, stazza 51 mila tsl., lunghezza 268 mt., larghezza 29,5 mt., 2.032 passeggeri, equipaggio 870 unità) ed il Conte di Savoia (Cantieri Riuniti dell’Adriatico di Trieste), entrati in servizio nel 1932. Navi eleganti, sontuose senza mai essere pacchiane, con un livello qualitativo elevatissimo, esibendo opere di conosciuti artisti nei raffinati saloni. Il Rex conquistò il Nastro Azzurro nell’agosto 1933 con una velocità media di traversata di 28,92 nodi, da Genova a New York, strappando il record detenuto dal transatlantico tedesco Europa. Riuscì a percorrere le 3.181 miglia che separano Gibilterra dal faro di Ambrose (demolito nel 2008) in 4 giorni, 13 ore e 58 minuti. Rappresentava il Rex uno dei vanti dell’era fascista. Quello stesso 1932 nasceva la Società Italia di Navigazione che, per volontà di Mussolini, riunì sotto un’unica bandiera le tre principali compagnie di navigazione: la Navigazione Generale Italiana di Genova, la Lloyd Sabaudo di Torino e la Cosulich di Trieste**. Nel 1935 iniziò poi a navigare il paquebot francese Normandie, della Compagnie Générale Transatlantique, di ben 79.280 tsl. di stazza e soluzioni tecniche d’avanguardia, ma con poco successo commerciale, famoso per la sua straordinaria decorazione Art Decó, seguito dalle britanniche Queen Elizabeth e Queen Mary (83.000 tsl.) della Cunard Line, sulla solita rotta Southampton-New York.
Oggi, tramontate negli anni ’60 le rotte oceaniche, alcuni famosi liners dalla linea filante, sopravvissuti alla demolizione sulle spiagge indiane, sono ancorati tristemente in qualche porto. Sperando che la pandemia di Covid non arrechi ulteriori danni, il mercato turistico delle crociere, in grande sviluppo fino al 2020, è controllato da pochi Gruppi, quasi tutti con sede a Miami (Florida). Quattro Gruppi detengono il 90% del mercato. Il leader è il Gruppo Carnival con una quota totale di passeggeri pari al 48,4%, seguito da Royal Caribbean Cruises col 23,3%. Insieme i due Gruppi controllano il 71,1% del mercato crocieristico. Il solo marchio Carnival Cruise Line, appartenente al Gruppo Carnival, a sua volta ne detiene il 21 %; Royal Caribbean International, appartenente al Gruppo Royal Caribbean, il 16,4 %. Costa Crociere (marchio della Carnival) controlla il 7,7 % del mercato, prima di Norwegian Cruise Line (7,6%) e MSC Crociere (7%), erede dell’italiana Flotta Lauro.
La Symphony of the Seas, quarto esemplare della Classe Oasis (dopo l’ Oasis of the Seas, l’Allure of the Seas, l’ Harmony of the Seas), della Royal Caribbean International, con 18 ponti, lunga oltre 360 mt., la capacità di ospitare 6.780 passeggeri e 2.100 membri dell’equipaggio, è oggi (2021) la più grande nave da crociera del pianeta, con 228.081 tsl. di stazza. Costruita nei Chantiers de l’Atlantique a Saint-Nazaire, Francia. Gli attuali colossi del mare.
Per il 2022 è prevista, coronavirus permettendo, l’entrata in servizio della Wonder of the Seas, stesso cantiere ed armatore, per un nuovo gigante di 230.000 tsl., per battere ogni record. Un megaresort galleggiante che avrà Honk Kong come base e proporrà itinerari asiatici, dal Giappone alla Corea, da Taiwan al Vietnam.
Mastodonti tozzi da incubo, almeno per me, navi esteticamente portacontainer, pur senza containers, con “bandiere di comodo” affinché nessuno sia tutelato, arredamento kitsch americanizzato, con equipaggi terzomondisti; formicolanti ovunque di mandrie di umani malvestiti, sciammannati, ‘giù di carrozzeria’; viaggi conditi da Spa e meraviglie varie tecnodigitali, eppur remoti dalle crociere sulla Eugenio C, Enrico C, Leonardo da Vinci ecc. che conobbi all’inizio degli anni ’70 e che qualcosa, a partire dall’ottima cucina, conservavano del fascino di decenni trascorsi, dell’andar per mare per turismo – pur senza cabina con terrazza e balconcino – non una vacanza low-cost per pensionati o giovani di precario aspetto e raffazzonata educazione, osservati e serviti con malcelata sufficienza da malpagati e poco professionali camerieri/e filippini o guatemaltechi…
Anche su navi relativamente più piccole, la crociera standard è oggi impostata per mungere soldi, le promotrici di trattamenti estetici ti assillano alla pari delle foto, le escursioni sono corte, dati i costi delle banchine nei porti, raffazzonate e carissime (ma se scegli il self-service tour, per qualche motivo torni con 5 minuti di ritardo, la nave è partita, e son cavoli tuoi!), i buffet sembrano mense aziendali, il cibo anonimo, insapore, niente di elegante, caffè a volte decorati come postriboli ottocenteschi e nessun charme, vendita ossessiva nei saloni di chincaglieria, gadget cinesi, abbigliamento dozzinale da liquidazione, sempre in coda per qualcosa e sempre sperando che il ponte di comando non sia simile a quello della Costa Concordia… Se vuoi fare una crociera vera, rilassante, devi scegliere compagnie di lusso, tipo la Seabourn o il Royal Clipper (copia del famoso Preussen, operativo dal 1902 al 1910), con il rischio, però, di spendere molto e di essere circondato e sovrastato da anziani nordamericani chiassosi, dalla cintura abbondante e dalla scarsa dimestichezza con l’uso delle posate…
Forse la vera erede del Great Eastern***, in quanto a percezione di smisurato, è stata la superpetroliera ULCC (Ultra Large Crude Carrier) Seawise Giant, costruita tra il 1979 ed il 1981 nei cantieri di Oppama (Giappone), successivamente rinominata Happy Giant, Jahre Viking, Knock Nevis, Mont, la nave più grande mai costruita per lunghezza (458,45 metri) e per stazza (564.763 tsl.). Con tale lunghezza, 69 mt. di larghezza e 24 mt. di pescaggio, quell’ Airbus ‘Beluga’ dei mari non poteva attraversare né il Canale della Manica, né il Canale di Suez, né quello di Panama.
Ma senza quel ‘mostro’ di quasi 170 anni fa, sorto tra le nebbie del Tamigi, parto della mente curiosa ed appassionata di Brunel, nave dalla fama inquietante, forse non ci sarebbero mai state neppure loro… For better or for worse…