Attraversare le strade dell’Armenia significa confrontarsi con una civiltà millenaria ma profondamente ferita dal secolare e continuo dominio di potenze straniere. Non è forse un caso che lo strumento musicale tipico armeno, il duduk, sia capace di emettere suoni profondamente malinconici ma che allo stesso tempo incantano le orecchie e il cuore di chi ascolta. Ferite mai suturate e recentemente tornate a sanguinare con il conflitto in Artsakh (Nagorno Karabakh) conclusosi con una rovinosa disfatta e la vittoria della perenne ostilità turco-azera.
L’Armenia circa trent’anni fa è riuscita a raggiungere l’indipendenza dalla sofferta dominazione sovietica, ritagliandosi una piccola fetta di territorio fra i monti del Caucaso per un’estensione che è appena un decimo di quello che fu un tempo il suo storico regno, ma la pace per questo popolo non è mai arrivata. Il continuo conflitto sul confine orientale per il controllo dell’Artsakh, tutt’altro che concluso dopo il cessate il fuoco del 10 novembre che ha sancito la conquista da parte azera di circa 3/4 della regione; le insistenti ostilità lungo la linea occidentale da parte di una Turchia che ancora non intende lavarsi le mani dal sangue del genocidio armeno perpetrato a inizio ‘900, stringono a tenaglia la sopravvivenza di questo popolo di origine indoeuropea e che nei secoli in maniera straordinaria è riuscito a difendere e mantenere la propria identità. Il segreto di tale tenacia fu sicuramente l’originalità della propria lingua, capace di creare una coscienza nazionale, e la fedeltà al Vangelo di Cristo, che ne ha impedito l’assimilazione durante le dominazioni islamiche seppur a caro prezzo. Insomma, è l’amore che ha dato la forza a questo popolo di resistere benché la vita continui a scorrere sempre con un po’ di inquietudine e mai in piena serenità. Ma la forza da sola non basta, occorre anche una maturità politica e diplomatica che forse ancora manca nella classe dirigente armena e che può fiorire puntando sulle proprie università.
Benché, come detto, stiamo parlando di una nazione antica, l’Armenia è uno Stato relativamente giovane, che esce da 70 anni di centralismo sovietico e dai precedenti secoli di dominazione ottomana. In questi ultimi trent’anni di indipendenza, turbati anche dalle vicende bellicose, grandi sforzi sono stati fatti per ammodernare il Paese ma la sensazione è che ancora manchi una classe dirigente matura, capace di sviluppare economicamente le vocazioni interne e di valorizzare un ruolo strategico del Paese sullo scenario geopolitico. D’altronde, la trasversale povertà di argomentazioni durante l’ultima campagna elettorale, ferma a una retorica populista ed esclusivamente concentrata sulla guerra in Artsakh, conferma questa sensazione. Eppure è facile intuire che in Armenia urge innanzitutto uno sviluppo infrastrutturale delle reti logistiche per collegare più facilmente i principali centri, benché attualmente siano in corso numerosi lavori di ammodernamento della rete stradale. Soprattutto serve un collegamento rapido e diretto che attraversi il Paese per connettere l’Iran alla Georgia. In tal modo l’Armenia, oltre a rafforzare il suo possibile ruolo di “tappo” alle aspirazioni neo-ottomane della Turchia di Erdogan, può recuperare una sua strategica funzione di cerniera fra Oriente e Occidente. Già ai tempi della “Via della Seta”, che secoli fa attraversava queste frontiere, l’Armenia fu uno snodo fondamentale e oggi può diventare a nord un rapido sbocco per le merci dirette verso la Russia, e che incrociano i grandi corridoi commerciali per l’Europa; mentre a sud diventerebbe un rapido ponte sui mercati asiatici che passano per i confini persiani e si snodano fra Cina e India. L’Unione Europea recentemente ha investito 3,5miliardi di € per la creazione di una autostrada veloce che percorra da nord a sud il territorio armeno ma a questa deve necessariamente affiancarsi anche un percorso rotabile che attualmente manca. La rete ferroviaria, infatti, è abbastanza obsoleta in quanto risalente all’Unione Sovietica senza successivi investimenti, e comunque è totalmente mancante nelle province centrali e meridionali. C’è da dire che nel 2008 il governo armeno ha trasferito le competenze della rete nazionale a “Ferrovie del Caucaso del Sud”, una consociata russa con un contratto della durata di trent’anni. Attualmente la consociata è impegnata in un rinnovamento del parco carrozze ma ulteriori interventi non sono annunciati né sarà facile prevederne. Aver ceduto la propria sovranità sulla rete ferroviaria comporta necessariamente delle difficoltà nel programmare nuovi investimenti ma non l’impossibilità.
Impegnare capitali per potenziare le infrastrutture, magari attraendo fondi dall’estero, significa uscire dall’isolazionismo che purtroppo caratterizza il giovane Stato armeno, forse perché fra la sua gente è ancora vivo il trauma di secoli di dominazione straniera e della recente tragedia del genocidio subito ad opera dei turco-ottomani. Un isolazionismo che tradisce il carattere estremamente accogliente e caloroso di questo popolo, eppure le maggiori cause della sconfitta bellica nell’armenissimo Artsakh sono da ricercare, ancora prima che nella impreparazione militare, nell’assenza di un sostegno internazionale. Pur mantenendo e rafforzando un privilegiato rapporto con la Russia, ma anche con l’Iran, l’Armenia ha bisogno di intessere relazioni diplomatiche, culturali e commerciali forti con il resto del mondo e che oggi mancano o sono carenti. I tentativi del rieletto premier Nikol Pashinyan di sganciarsi dalla vitale sfera russa non sembrano affatto andare verso questa direzione aperturista, e la disastrosa guerra conclusa e persa lo ha chiaramente dimostrato. Costruire relazioni forti con il resto del mondo, in particolare con la sfera europea, non significa tradire la propria vocazione russofila, soprattutto quando l’unico reale risultato ottenuto è stato quello di avere aperto le porte a pressioni ideologiche di matrice nichilista e consumista. Infatti, attualmente la grande sfida dell’Armenia sembra non essere tanto la protezione dei suoi territori (comunque minacciati) né affermare una propria vocazione geopolitica. Benché questi due aspetti siano importanti, se vuole continuare a vedere davanti a sé un futuro, la priorità di questo Paese resta la difesa della propria identità oggi all’interno di un mondo globalizzato, vorace, uniformante. Se questo popolo millenario vuole continuare a sopravvivere, e finalmente trovare una dimensione stabile di pace, deve necessariamente difendere il suo genoma identitario dalle cosiddette “colonizzazioni ideologiche” che cominciano a diventare minacciose a queste latitudini.
La comunità “identitaria” ha il dovere di sostenere politicamente questa nazione nonché di difendere e promuovere il patrimonio culturale e tradizionale di questo popolo che storicamente è il primo ad abbracciare il Cristianesimo, tanto da poter essere considerato la frontiera più orientale dell’Europa dei popoli.