L’antifascismo ha tanti volti. Come ebbe a scrivere, in “Quale Resistenza?” (Rusconi, 1977), Sergio Cotta, docente universitario di orientamento cattolico e comandante di una brigata partigiana: “… l’antifascismo di Matteotti non è certo quello di Gramsci e Togliatti; l’opposizione dell’Aventino non s’identifica con quella di Giolitti; l’antifascismo di don Sturzo non coincide con quello di Bonomi o di Serrati. Così pure, sul piano culturale, l’antifascismo di Croce non è quello di Gramsci o di Rosselli”.
Da questo punto di vista parlare di antifascismo democratico-cristiano, di antifascismo azionista, di antifascismo comunista, di antifascismo socialista, di antifascismo liberale, significa verificare, nel concreto dell’agire politico e nel manifestarsi delle diverse classi dirigenti, quelle distinzioni e contraddizioni “di sostanza”, che possono aiutare a superare ogni visione falsamente unitaria dell’antifascismo. A cominciare dalle esperienze della guerra partigiana, la quale fu vista e vissuta come guerra di liberazione nazionale (contro l’invasione dello straniero, ex alleato) e guerra civile (contro i fascisti). Fu guerra politica (viste le diverse componenti partitiche del CLN) ed ideologica (contro i nemici “di classe”, non necessariamente fascisti, ma anche borghesi, cattolici, liberali).
Queste “distinzioni” emergono, in modo netto e drammatico, da molti episodi della guerra civile, nei quali l’idea dello scontro “di classe” fu condotto spregiudicatamente dalle bande partigiane di estrazione comunista, al punto da colpire i componenti dei raggruppamenti antifascisti di orientamento cattolico, monarchico e liberale, e sono rimarcate dall’azione e dall’esempio di figure emblematiche dell’antifascismo non comunista. Una di queste è Aldo Gastaldi, nome di battaglia “Bisagno”, primo partigiano d’Italia e medaglia d’oro della Resistenza, nato a Genova il 17 settembre 1921. In occasione del centenario della sua nascita il capoluogo ligure lo ricorda con una serie di incontri pubblici ed una messa in Cattedrale, officiata dall’Arcivescovo Marco Tasca.
Quello della Chiesa genovese non è un “ricordo” di routine. Nel maggio 2019 l’allora Arcivescovo di Genova, cardinale Angelo Bagnasco, ha dato il via alla causa di beatificazione e canonizzazione di Gastaldi. Il “postulatore della causa”, l’Avvocato Rotale Emilio Artiglieri, con il “supplex libellus”, nel quale ha raccolto la biografia di Gastaldi, ha evidenziato, “la sua grande fede, semplice e profonda, unita ad un abbandono e a una illimitata fiducia nella Provvidenza Divina”. Dopo l’8 settembre 1943, divenuto comandante partigiano, nell’entroterra di Chiavari, in Val Cichero, “nonostante le inevitabili asprezze della guerra – scrive Artiglieri– Aldo rimase profondamente coerente con i valori della sua fede cristiana, prodigandosi per il bene, materiale e morale, degli uomini che dipendevano da lui, nel rispetto delle popolazioni civili e anche dei nemici”.
È proprio per questi orientamenti che Gastaldi si trovò a dovere fare i conti, agli inizi del 1945, con la componente comunista preoccupata dei successi del Partigiano Bianco.
I vertici comunisti decisero allora lo sdoppiamento della divisione, sperando così di esautorarlo dal comando, al punto che si rischiò lo scontro armato, quando i fedelissimi di “Bisagno” affrontarono i comandanti comunisti ad armi spianate, trattenuti solo dall’intervento moderatore di Gastaldi. “Bisagno” mantenne il comando della Divisione Cichero ma, da allora in poi, temette per la propria vita, in totale rottura con i responsabili comunisti. Sono di quel tempo alcune sue lettere, nelle quali scriveva: “Noi non abbiamo un partito, noi non lottiamo per avere un domani un cadreghino, vogliamo bene alle nostre case, vogliamo bene al nostro suolo e non vogliamo che questo sia calpestato dallo straniero, dobbiamo agire nella massima giustizia e liberi da prevenzioni”. Oppure: “Continuerò a gridare ogni qual volta si vogliano fare ingiustizie e griderò contro chiunque, anche se il mio grido dovesse causarmi disgrazie o altro”.
A questa figura anomala di partigiano, casto e rispettoso degli avversari, Giampaolo Pansa ha dedicato il libro “Uccidete il comandante bianco. Un mistero nella Resistenza” (Rizzoli, 2018), soffermandosi sulla sua morte misteriosa, avvenuta il 21 maggio 1945, a seguito della sua caduta dal tettuccio del camion su cui viaggiava, di ritorno dal Veneto, dove aveva accompagnato alcuni partigiani provenienti dalla Divisione della Rsi “Monterosa”. Pansa sostiene la tesi della morte violenta del comandante “Bisagno”, voluta e provocata dalla frazione militarista del Pci, facente capo a Pietro Secchia. Di Gastaldi e della sua morte “misteriosa”, aveva anche parlato, Luciano Garibaldi, giornalista e storico anticonformista, in “I giusti del 25 aprile. Chi uccise i partigiani eroi?” (Edizioni Are, 2005), un avvincente e documentato racconto di tre figure emblematiche della Resistenza (Gastaldi, Ugo Ricci e Edoardo Alessi), uniti da una comune e intensa fede religiosa e ispirati a un progetto di riconciliazione con il nemico sconfitto, scomparsi “misteriosamente” nel momento culminante della loro battaglia.
Gastaldi sapeva che i partigiani comunisti lo volevano morto, dicono alcune testimonianze dirette. Tra l’altro, a Genova, egli stava lottando contro la trasformazione delle milizie partigiane in unità politiche del partito comunista e per fermare lo spargimento di quel “sangue dei vinti” che segnò la drammatica fase post resistenziale. Anche per questo, a cent’anni dalla nascita, la figura di Gastaldi, rimane come un esempio da additare, segno vivente di una Resistenza che avrebbe potuto essere diversa e che tale non fu, schiacciata dalle ragioni ideologiche e dallo strapotere di una parte.
Mario Bozzi Sentieri