
Ha suscitato un certo stupore, nei circoli politico-diplomatici internazionali, la lista dei ministri del nuovo Governo afghano, insediatosi da pochi giorni a Kabul: una lista comprendente varie “primule rosse” del terrorismo, ex detenuti di Guantànamo e perfino – agli Interni – un elemento come Sarajuddin Haqqani, da sempre fiancheggiatore di Al Qaeda con la famosa “Rete” fondata da suo padre.
Ma perché stupirsi se gli studenti coranici hanno presentato i loro uomini “migliori”? Il nuovo Governo, dal loro punto di vista, è un vero dream team che risolverà rapidamente i giganteschi problemi del Paese: la nostra speranza, ovviamente, è che non voglia risolverne, a modo suo, anche all’estero.
Addio formule inclusive
Le richieste occidentali di un “governo inclusivo”, in realtà, non potevano non rivelarsi che timide speranze presto destinate ad essere smentite: sia perché sopravvalutavano il desiderio talebano di rassicurare l’Occidente (nonostante qualche dichiarazione iniziale apparentemente distensiva), sia perché il concetto stesso di “inclusività” è un po’ troppo politically correct per essere inteso in un contesto islamista e tribale.
Il paradosso afgano
Cosa ci aspetta quindi in Afghanistan? Nulla di più che una realtà con cui dovremo per forza convivere: e ciò, al di là della questione del riconoscimento formale del vecchio-nuovo regime. Anzi, potrebbe toccarci aiutare i Talebani in qualche modo – come fanno da sempre i Servizi pakistani – per evitare che gruppi ancora più “puri” li detronizzino, destabilizzando ulteriormente l’area e minacciandoci più direttamente. Per un “mondo libero” che intrattiene rapporti di grande amicizia e collaborazione con l’Arabia Saudita, teatro di quel “nuovo Rinascimento” di renziana memoria, non sarebbe poi un sacrificio così insostenibile.