Se abbandonare, come sostiene qualcuno, vuol dire lasciare fuori dal bando, dal segno e forse anche dalla legge, allora si capisce perché nell’Appennino, terra d’abbandono, si trovino tante cose interessanti. Perché le cose e i luoghi fuori dal bando, fuori dall’ordinario, fuori da questo presente omologato, sono in realtà le più fruttuose, sono i segnavia per chi cerca i sentieri della meraviglia.
Così una falce fienaia rotta non è utile, ma affascina, nel senso magico del termine. Così un antico casale abbandonato serve, apparentemente, solo a far arrampicare i rovi. Così nessuno sa più come usare un colle dal quale si possono guardare i monti, con attenzione e con devozione.
Eppure questo piccolo colle esiste davvero – ci sei salito passando accanto alle uniche catacombe fuori Roma – e conserva un toponimo che mette curiosità. Si chiama Monticastri. Sta lungo il ramo meno importante dell’antica Flaminia, quello che va da Narni a Bevagna, distaccandosi dalla via principale che invece passava per Terni/Interamna e per Spoleto, ricongiungendosi poi oltre Foligno e proseguendo così verso l’Adriatico. Una variante, costruita più di 2200 anni fa, che incuriosisce come quasi tutte le varianti e come l’antico ponte Fonnaia che ha resistito alla sfida dei millenni ed è ancora lì, sotto Monticastri, solido come una roccia a sfidare con un ghigno i vicini e malridotti piloni in cemento armato della E45.
Ancor più avvolte di fascino sono le strade sterrate che incrociano questa Flaminia minor e se ne distaccano tra due filari di vecchie querce e qualche noce che ombreggiavano e ombreggiano i viandanti, uomini o bestie non fa differenza, e che separano i grandi campi ingialliti di settembre, in paziente attesa dell’aratura e di un nuovo inizio.
Sei a poche miglia da Acquasparta, appena sopra un’antica sorgente e poco prima della Statio ad Martis, oggi Massa Martana, un borgo che sorveglia i Monti Martani, monti degli dei, dei castellieri rotondi, dei templi umbri e sabini, dei longobardi; monti segnati infine dalle grandi camminate, dalle visioni e dai sogni folli di Francesco d’Assisi.
La collina è franosa: questa è una zona di argille. Qualche decina d’anni fa hanno provato a contenere il cedimento con grandi blocchi di cemento. Non una trovata originale: prima, molto tempo prima chi frequentava questo stesso luogo ha cercato di fare altrettanto con grandi blocchi di calcare.
Ma allora l’intento era diverso: non si trattava solo di contenere il terreno, ma anche di dividere. Un grande muro segnava il perimetro sacro di un tempio di non si sa quale divinità. Il tempio è il luogo delimitato, diviso, dove è possibile cogliere il sacro senza il rischio di essere inghiottiti dal caos.
Sarà per questo che oggi, cadute le mura, tutto è più difficile e occorre uno sforzo enorme per cercare di sentire e recuperare il valore di questo luogo e la sua sacralità. Tuttavia basta uno sguardo leggero verso i Martani per intuire che tutto si tiene, che prima delle antenne che oggi deturpano il Monte Martano, c’erano altri segnali e collegamenti più sottili tra quelle cime, i loro templi e il tempio di questa collina, in una geografia sacra che non è mai stata scritta in nessuna mappa, ma – probabilmente – è stata narrata – anche qui, in questo stesso luogo – migliaia di volte da uomini e donne più semplici, più immediati di noi.
I grandi blocchi di travertino superstiti sono sparsi a terra, davanti al pozzo-cisterna, sotto una grande quercia, come se invitassero a una pausa di ristoro nel cammino, a sedersi all’ombra e a riflettere su quel che è stato e su quel che sarà.
Nei muri portanti del casale il solito puzzle di pietre di recupero, di mattoni di sassi. Tutto si è sfasciato per essere poi ricomposto diversamente e per cadere di nuovo. In futuro chissà cosa accadrà…magari ci faranno un bel resort…
Tra erbacce e rovi, una porta d’ingresso ad arco introduce ad un locale dove ancora si conservano vecchi attrezzi agricoli; proprio lì davanti, da terra, spunta un ferro arrugginito. Sembra un coltello, ma a ben vedere è la punta rotta di una falce fienaia. Ti fa tornare alla mente le antiche credenze e le piccole magie agricole, quando si pensava che catene e attrezzi di ferro gettati sull’aia durante un temporale servissero a proteggere i raccolti dalla grandine e dai fulmini.
La recuperi con curiosità e la porti con te sulla via del ritorno, lungo quelle strade antiche tra le querce. Ma giunto a un crocicchio, presso il castellaccio, la rocca di Montalbano, davanti a una collina gialla di fieno tagliato, intuisci che il frammento di falce fienaia va lasciato lì, in ricordo della fatica dei falciatori, a protezione di quei campi non ancora abbandonati.
Pochi passi dopo lo sguardo inciampa in una piccola pietra tonda e scura. La raccogli: ha la scorza esterna come quella di un tartufo estivo e il peso di una palla di ferro. I vecchi contadini saprebbero dirti cos’è: è una pietra del fulmine. Pare ne nasca una ogni volta che un fulmine colpisce la terra. Se è vero, se è accaduto, è successo lì sulla sterrata accanto al grande campo di fieno, che è stato salvato. Magari proprio dal frammento di falce fienaia, che dall’aia del casolare tempio, è finalmente tornato al suo posto.
E così, in questa trasparente giornata di settembre, tutto sembra tornare in ordine…intorno al colle di Monticastri, al suo tempio, all’aia dei sortilegi, lungo la vecchia strada, tra il verde dei lecci sulle montagne e il giallo del fieno tagliato. Sotto lo stesso cielo di sempre. (Appenniniweb.it)