
Chissà quanto ci metterà Hollywood a tirare fuori un altro bel filmetto di propaganda con sfavillanti effetti speciali, come quello che fece per la Somalia, in cui i micidiali Black Hawk si rendano protagonisti di qualche eroica azione di guerra in Afghanistan? Per il momento, un bel numero di quegli elicotteri militari è diventato il nuovo apprezzato giocattolo dei talebani che li hanno tolti all’esercito statunitense insieme a una grandissima quantità di altri armamenti: migliaia di veicoli di vario tipo, 200 tra aerei ed elicotteri e 600mila armi leggere, oltre a visori notturni e altri gadget tecnologici. A ulteriore testimonianza di quanto siano state patetiche e grottesche le parole di Joe Biden che ha definito uno “straordinario successo” il ritiro delle forze statunitensi da Kabul. Un successo che, in realtà, assomiglia molto da vicino a una rotta disordinata in cui non ci si cura di lasciare al nemico le proprie armi e di abbandonare in territorio ostile, sembra, circa duecento propri connazionali, oltre a svariate migliaia di afghani che avevano collaborato con le forze occupanti.
Una disfatta
Per gli Stati Uniti la guerra in Afghanistan si è risolta, con tutta evidenza, in una disfatta storica. Anche la giustificazione del presidente Usa che afferma che è stato centrato il vero obiettivo dell’invasione, ovvero quello di colpire le forze terroriste di Al Qaeda, additate come responsabili dell’attacco dell’11 settembre, è risibile. Innanzitutto, va ricordato che, prima dell’attacco statunitense, il mullah Omar aveva accettato di consegnare Osama Bin Laden a un tribunale internazionale se gli fossero state presentate dagli Usa le prove del suo coinvolgimento nell’attentato e, in ogni caso, se la motivazione fosse stata solo quella di colpire i terroristi sarebbero bastati i primi mesi di occupazione in cui furono distrutte le basi di Al Qaeda. Anche se i piani dell’invasione erano pronti da ben prima dell’11 settembre, è comunque vero che gli Usa attaccarono l’Afghanistan poco dopo per vendicarsi degli attentati (pure una grande potenza talvolta può agire in conseguenza di una spinta emotiva) ma ci sono rimasti per vent’anni perché avevano anche altri obiettivi.
La vecchia strategia
L’ambizione strategica e una folle scelta ideologica sono alla base della lunga occupazione statunitense. Washington intendeva prendere i classici due piccioni con una fava: vendicando le proprie vittime coglieva l’occasione di installarsi in un’area da sempre contesa e giudicata di grande importanza, in prossimità dell’heartland eurasiatico e, soprattutto, quasi alle porte di quella Cina che già allora era diventato il nemico principale. Inoltre, e qui veniamo alla sostanza ideologica, gli strateghi statunitensi erano davvero convinti, in quel torno di tempo più che mai, che il rafforzamento della loro supremazia planetaria potesse realizzarsi attraverso la dottrina dell’esportazione della democrazia che gli garantisse un mondo a propria immagine e somiglianza e soggetto al proprio comando. Come se i montanari e i pastori tagiki, pashtun, hazara e di tutte le altre etnie non aspettassero altro che abbracciare l’american way of life e bramassero di costruire una nuova Westminster al riparo delle montagne dell’Hindu Kush.
Effetto tigre di carta
Il principale insegnamento del conflitto afghano è che lo strapotere militare Usa è efficace come deterrente quando si erge a garanzia dell’egemonia di Washington, ma può trasformarsi in una tigre di carta quando viene messo alla prova sul campo contro nemici che hanno una diversa concezione della vita e regole morali differenti. I boots on the ground si sono alla fine dimostrati non sopportabili per gli statunitensi, con le loro meno di 2.500 vittime, mentre non hanno incrinato la volontà dei talebani che di morti ne hanno contati più di cinquantamila.

La frase attribuita al mullah Omar, “voi avete gli orologi, ma noi abbiamo il tempo”, spiega come un’armata di poche decine di migliaia di combattenti in sandali e kalashnikov abbia potuto infliggere una dura lezione all’esercito più potente e più formidabilmente armato del mondo, che con droni e missili poteva uccidere il nemico senza rischiare di essere colpito. Sarebbe opportuno che tale lezione rimanesse bene in mente ai vertici politici e militari di Washington che, ossessionati dalla “minaccia” cinese, talvolta vagheggiano, o meglio vaneggiano, di risolvere la questione manu militari. E lo sfacelo dell’armata collaborazionista afghana, forte di 300mila uomini, con armamenti sofisticati e copertura aerea, dovrebbe insegnare agli Usa che è inutile sperare che altri, pur pagati ed equipaggiati, possano fare il lavoro sporco per loro perché ben pochi sono disposti a morire senza davvero credere in ciò per cui combattono. A paragone, l’esercito afghano del governo filo comunista, una volta che l’Armata Rossa se ne era andata dall’Afghanistan, fece certamente una miglior figura, resistendo ai mujaheddin fino a che, con la dissoluzione dell’Urss, venne a mancargli ogni sostegno.
Se la disfatta è soprattutto statunitense, non è comunque solo statunitense, perché a uscire sconfitta alla sua prima vera prova del fuoco è anche la Nato. Questa alleanza militare, di cui i governanti e i media europei continuano a chiedere addirittura il rafforzamento, pur rappresentando in realtà la prova della subordinazione del Vecchio Continente, ha dovuto anch’essa levare in tutta fretta le tende, dimostrandosi, com’era del resto ovvio già prima, solo un’appendice militare della strategia di Washington. Del resto, l’Alleanza Atlantica si era già ampiamente disonorata quando, a cinquant’anni dalla sua fondazione, effettuò la sua prima vera azione di guerra, bombardando una capitale europea come Belgrado.
Il caso Italia
E l’Italia in tutto questo sfacelo afghano? Perché anche il nostro Paese, nel suo piccolo, è uscito sconfitto dalla guerra, ma nessuno da noi pare accorgersene. Come si ricorderà, noi intervenimmo quasi da subito a fianco degli Usa, sebbene Washington nemmeno avesse chiesto l’applicazione dell’articolo 5 della Nato, che indica che un attacco subito da un Paese membro deve essere considerato un attacco a tutti i membri dell’Alleanza. Non frapponemmo indugio, nonostante l’invasione non fosse autorizzata dall’Onu che diede il suo imprimatur solo a cose fatte, e siamo rimasti in Afghanistan per tutti i vent’anni della guerra sebbene, per esempio, la Francia già alla fine del 2014 avesse completato il suo ritiro iniziato tre anni prima. Per un esercito dalle potenzialità limitate come il nostro, il conflitto afghano è stato un impegno gravoso. Sul campo abbiamo schierato fino a 4mila soldati e abbiamo avuto le nostre vittime, con 53 soldati caduti e oltre 700 feriti, senza considerare gli 8,7 miliardi di euri spesi.

Perché ci siamo infilati nelle valli e nelle gole afghane? In pochi in questi giorni se lo stanno chiedendo. Di fronte all’evidente mancanza di una motivazione strategica o di qualsivoglia minaccia che potesse provenire dall’Afghanistan nei nostri confronti, gli opinionisti liberali di casa nostra si rifugiano nella vaga spiegazione che l’intervento italiano avrebbe accresciuto il nostro prestigio in seno alla comunità internazionale e all’Alleanza atlantica e avrebbe migliorato i rapporti con gli Usa. Un po’ come, parrebbe di capire, fece Cavour con l’entrata nella Guerra di Crimea, ma allora era ancora irrisolta la questione italiana e ciò aveva un senso, mentre oggi l’unico prestigio che hanno ottenuto gli italiani è quello dei servi fedeli che seguono il padrone anche se si getta nel fuoco.
Fa impressione che non ci siano state interrogazioni parlamentari a proposito del disastro afghano e che nei mezzi di informazione di tutto si parli tranne del ruolo dell’Italia in questa vicenda. Eppure di cose da chiedere al governo ce ne sarebbero, anche solo se ci volessimo concentrare sugli avvenimenti più recenti, come l’Accordo di Doha del febbraio 2020 nel quale gli statunitensi trattarono con i talebani i tempi e le modalità del loro ritiro, senza nemmeno che gli passasse per la testa di interpellare anche i propri alleati, tra cui l’Italia.
Non c’è discussione pubblica sul senso della nostra partecipazione alla guerra afghana né su quali indicazioni si debbano trarre dal suo esito, almeno per quanta riguarda la funzione del nostro strumento militare in futuro e il ruolo che l’Italia dovrà giocare nelle prossime crisi internazionali che presentino il rischio di trasformarsi in nuove guerre. Dalla lezione afghana il nostro Paese non trarrà alcun insegnamento, condannandosi a ripetere gli stessi errori.
Smetterla di fare i servi sciocchi, in cambio di nulla, morti, spese, profughi…