“Firenze, come Venezia, è una città che non si può evitare” ha scritto Roberto Calasso nella sua raccolta di ricordi d’infanzia Memè Scianca, uscita purtroppo proprio il giorno stesso della sua scomparsa. E senz’altro egli non l’evitò, visto che vi nacque nel 1941 e vi trascorse i primi anni della sua vita. Per un bambino, un’età favolosa, in cui anche la tragedia è capace di stemperarsi nella poesia e l’odore acre dei calcinacci delle abitazioni di Por Santa Maria devastate dalle mine tedesche si confonde con l’aroma dei panini tartufati di Procacci.
Sarebbe improprio scorgere nelle 96 pagine di questo singolare e indimenticabile libretto un abbozzo di autobiografia. Se la memoria è sempre selettiva, la memoria dell’infanzia è ondivaga. Il dramma (con due m) della guerra si confonde col “Drama” – il soprannome di un burattinaio che si aggira per la gioia dei bambini col suo teatrino ambulante, – lo sferragliare del tram in via Regina Margherita, non ancora ribattezzata col “nome repubblicano e resistenziale di Spartaco Lavagnini”, si mescola al rombo delle nuove edizioni delle Mille Miglia e le raffiche di caramelle che i soldati statunitensi gettano per le strade dalle jeep quasi si sovrappongono alle raffiche dei franchi tiratori e dei partigiani in via Cavour.
Il piccolo Roberto appartiene a due famiglie di alta estrazione culturale, che vivono in quegli anni il momento più drammatico del loro impegno. Il padre Francesco è un giurista, impegnato nell’antifascismo; la madre, Melisenda, è figlia di Ernesto Codignola, pedagogista, editore, fondatore della Nuova Italia e della Scuola Città Pestalozzi. Dopo essere stato un collaboratore di Gentile, ha aderito alla Resistenza. E così, quando il piccolo Roberto non ha ancora due anni, sulla famiglia incombe la tragedia. Dopo l’assassinio del filosofo, “un gesto miserabile – commenta senza mezzi termini in queste pagine Calasso – ancor più miserabile per le abbondanti giustificazioni politiche che fu subito facile dargli e si sono costantemente rinnovate, con tortuose variazioni, fino a oggi”, il prefetto Manganiello ordina l’arresto e la fucilazione per rappresaglia di cinque intellettuali, fra cui Calasso padre e il nonno Ernesto, che però sfugge alla retata. A salvarli sarà l’intervento della famiglia Gentile e del console tedesco Wolf, che anche per questo si meriterà la cittadinanza onoraria di Firenze.
Finito il dramma, però, il soggiorno a Firenze concede al piccolo Roberto una straordinaria rete di conoscenze, legate alle relazioni familiari: c’è La Pira, che da sindaco fa imbestialire lo zio materno Tristano quando in consiglio comunale termina le discussioni recitando un’Ave Maria, ma poi regala al nipotino “i soldatini più belli e più rari”; c’è il dotto filologo Pasquali, che si compiace di un linguaggio aulico, chiama “famulo” il cameriere, ed è gelosissimo della moglie, c’è il direttore del “Vieusseux” Giorgio Bonsanti, con l’“aria sommessa di un alto funzionario coloniale” (mai definizione fu più appropriata: era rimasto uguale anche trent’anni dopo, quando chi scrive gli portava le recensioni per il bollettino bibliografico della “Antologia Vieusseux”). E poi ci sono i luoghi simbolici, della cultura e del saper vivere, da Doney a Giacosa, alla libreria Seeber, con l’impiantito in legno e il primo tavolo dove troneggiano le copertine bianche delle edizioni Gallimard.
Di questa prima stagione della vita di Calasso non eravamo in molti a conoscenza: lo stesso autore scrive che “una lastra impenetrabile e trasparente separa ciò che ho vissuto sino alla fine del 1954 da tutto il resto”. Ma se è vero che, come sosteneva Renan, la filosofia non è mai stata così grande come nelle ore più terribili della storia, questi anni vissuti fra viale Margherita e via Tornabuoni hanno esercitato sul futuro padre della Adelphi un’influenza più profonda di quanto a prima vista possa sembrare.
Enrico Nistri
Tipico dei comunisti di ieri, di oggi, di sempre.
Miserabili di natura, vocazione, pensiero, azioni….