Il secolo XX è stato caratterizzato da un intenso dibattito culturale. Sono stati, peraltro, messi in discussione, a partire dalla “rivoluzione intellettuale” dei suoi primi due decenni, gli statuti interni e i metodi d’indagine di diverse discipline. La “storia delle religioni” non è stata risparmiata da tali cambiamenti. Anzi, nel suo ambito, si è assisto al confronto tra storicismo e fenomenologia che, solo in alcuni casi, ha prodotto una possibile sintesi conciliativa. Tracce di tale confronto emergono dall’ultima fatica di Marco Toti, “Un atomo di fuoco”. Forme e dinamiche culturali d’Occidente: storia delle religioni, ermeneutica, tradizione, nelle librerie per il Cerchio (per ordini: info@ilcerchio.it, pp. 297, euro 32,00). Le intenzioni dell’autore sono chiarite nella Premessa che apre il volume e contestualizzate nella Presentazione di Pietro de Marco.
Toti, infatti, spiega che sua intenzione è stata fornire delucidazioni in merito alle relazioni che legano ermeneutica, storia e tradizione nel contesto degli “studi religiosi”, con un’attenzione mai celata per le acquisizioni teoriche proprie alla “scuola romana” afferente a Raffaele Pettazzoni. Più in particolare, nei saggi che compongono la silloge, lo studioso si interroga attorno all’individuazione di una via atta ad aprire un dialogo teoretico tra le religioni. Affronta, altresì, la questione del “primordialismo”, che viene discussa tanto in termini “sapienziali”, quanto sotto il profilo letterario-etnologico, fino ad assumere connotazioni dal tratto “esistenziale”. Ecco, ci pare che questo volume debba essere consigliato al lettore in quanto rappresenta, sotto il profilo metodologico e della esplicitazione delle fonti, una novità. L’autore tenta di saldare in uno, non semplicemente gli apporti esegetici desunti dagli approcci storicistico e fenomenologico, ma utilizza proficuamente il contributo di esponenti del pensiero di Tradizione, in particolare, ma non solo, nel saggio che conclude il volume, dedicato a Frithjof Schuon (discepolo di Guénon) e alla sapienza nativo-americana.
Tale scelta ermeneutica ha indotto Toti, come notato da de Marco, ad ampliare l’area degli studi comparati religiosi alle tecniche esicastiche ed alla corrispondente teologia: «con sguardo costante alle “mistiche” islamiche e indiane e […] attenzione […] sulla forma mistica, come classe di condotta e di dottrina» (p. IV). Lungo tale via, l’autore consegue due rilevanti risultati: innanzitutto, riesce a chiarire che l’esperienza mistica non è, sic et simpliciter, personale, ma essa si manifesta all’interno di un dato paradigma religioso condiviso e, il più delle volte, strutturato gerarchicamente: «La vita spirituale è tanto più qualificata quanto più la persona converge sul Modello. Spiritualità è perfezionamento nella imitatio», chiosa De Marco (p. VII). Toti, inoltre, mostra come la mistica cristiana non sia un fenomeno marginale, ascrivibile solo al plesso cattolico o a gruppi minoritari ortodossi. Prendendo in considerazione l’esicasmo, egli rileva che non può essere stato un fenomeno prodotto da influssi esterni, ma qualcosa di consustanziale all’afflato cristiano-orientale al divino. Il che non implica, naturalmente, negare la possibilità di influssi periferici e successivi.
Per quanto si riferisce all’utilizzo della strumentazione teorica afferente al pensiero di Tradizione, esso è motivato dall’integrazione che tale visione può fornire dei modelli esegetici prodotti dalla fenomenologia, in modo particolare per quanto attiene alla relazione uomo-cosmo. Peraltro, l’uso dei contributi dei tradizionalisti è in grado di determinare la: «diluizione eclettica e dilettantistica della divulgazione esoterizzante» (p. XIV). Ci pare, inoltre, che Toti riesca ad evitare, muovendo dall’ “unità trascendente” delle religioni, in forza del dettato fenomenologico, il rischio della sterile riduzione ad unum dei fattori religiosi stessi. Tra i saggi, decisamente interessante è quello dedicato a John Lindsay Opie e Cristina Campo. I due si conobbero e frequentarono per il tramite di Elémire Zolla, proprio nel momento in cui la Campo prodigava il massimo impegno per organizzare la “resistenza cattolica” e tradizionale al concilio Vaticano II. Entrambi vissero la Messa quale esempio di “esperienza della soglia”. Per la Campo, lo stesso culto della bellezza: «come armonia delle forme […] aveva radici ben salde nel dominio metafisico» (p. 151). Per tali ragioni la scrittrice mise a punto il testo del “Breve Esame critico del Novus Ordo”, firmato dai cardinali Bacci e Ottaviani, profondendo grandi energie in questo progetto, tanto che: «ne portò il peso e ne morì di agonia» (p. 152-153). La nuova messa aveva, per la Campo, il tratto dell’ “orrore”. Le fondate critiche, espresse nel documento ricordato, indussero le gerarchie ecclesiastiche a correggere il paragrafo sette, ribadendo il carattere sacrificale della Messa. Per Lindsay Opie risultò centrale la questione del mundus imaginalis. Alla sua luce, il fedele intrattiene una fitta rete di relazioni: «tra realtà “materiale”, simboli ed archetipi» (p. 155). Per il cristiano, gli archetipi assurgono al ruolo di contenuti della Rivelazione. In conclusione, per i due autori l’esoterismo è contenuto nel cuore della rivelazione cristiana, che lo eccede. Il Cristianesimo delle origini, a dire di Lindsay Opie, prevedeva un’autentica iniziazione ai misteri celesti: «Il futuro credente […] veniva introdotto […] in un sistema grafico di valore quasi sacramentale, composto […] di sigilli della Croce e del Nome» (p. 163). L’esoterismo risulterebbe essere, pertanto, la dimensione interiore del cristianesimo.
Di altrettanta rilevanza è lo scritto dedicato a Pavese. Lo scrittore piemontese è letto da Toti come proteso alla ricerca delle “origini”. Per lui la memoria fu davvero lo scheletro attorno al quale l’io viene a definirsi. In tale contesto, conoscere corrisponde a ricordare. Da ciò discese, per Pavese, la straordinaria importanza del passato “in collina”, dell’infanzia magica e festiva. Questo il tratto mitico del mondo ideale del piemontese: «ciò che si fa, si farà ancora e anzi si è già fatto in un passato lontano» (p. 241). Il tempo della “casa in collina” è ciclico. Pavese, dopo aver cercato una palingenesi personale, tentando di conseguire il punto zero del tempo, da cui tutto si diparte: «fu sopraffatto dall’usura della “fatica di vivere”» (pp. 245-246). A dire di Ernesto De Martino, il suo scacco esistenziale sarebbe stato il prodotto della mancata integrazione della memoria individuale in quella sociale. Toti ritiene l’iter della spiritualità pavesiana simile a quello percorso da Simon Weil, i due intellettuali: «si fermarono sulla “soglia” della Chiesa» (p. 258), distratti dalla lacerazione “catara” del loro animo.
“Un atomo di fuoco” è, pertanto, un libro complesso, articolato, ma ricco di suggestioni teoriche.