Nel repentino e travolgente tracollo di Kabul sarebbe un ulteriore errore, tra i tanti fin qui fatti, “scaricare” sull’inebetito presidente Biden le ragioni della sconfitta e vedere nei talebani i soli vincitori di una partita che va ben oltre i confini dell’Afghanistan. C’è dell’altro e molto di più nella fuga repentina degli Stati Uniti e nel trionfale arrivo dei talebani, che in pochi giorni hanno azzerato vent’anni di politica statunitense in quell’area.
Se è prematuro fare previsioni sui nuovi assetti geopolitici provocati dalla vittoria talebana, salutata, con parole di apertura verso il nuovo governo degli insorti afghani, dalle diplomazie di Russia e Cina, appaiono ben evidenti le responsabilità di una sconfitta, che ha tanti padri e che preannuncia, da subito, preoccupanti ed immediate ricadute, all’interno e all’esterno dei confini dell’Afghanistan. A perdere, ancora una volta, è la politica occidentalista, guidata dagli Stati Uniti, incapace di misurarsi, in modo credibile, sugli scenari internazionali del dopo ’89. Di fronte all’ipotizzata “fine della Storia”, in un mondo che si voleva pacificato ed “ordinato” dal potere globalista e liberista, il nuovo scontro ideologico ha reso evidente la debolezza dell’Occidente. A cominciare da un’Europa incapace di sviluppare una politica autonoma ed unitaria, un’Europa che parla a più voci ed è divisa perfino nell’accoglienza dei profughi e nelle operazioni di abbandono di Kabul. Perde la Nato, priva di chiare strategie geopolitiche in grado di sostenerne l’azione, mentre a venire meno è l’idea di “esportare” la democrazia, in aree che – per cultura e tradizioni – debbono evidentemente fare i conti con altri modelli sociali e politici.
Non basta, non è bastato, il fiume di denaro investito per costruire un sistema di sicurezza e di difesa interno, sfarinatosi nello spazio di qualche settimana, sconfitto più che dalle armi dalla corruzione e dalla mancanza di un’Idea in grado di contrastare efficacemente l’integralismo avanzante.
Le “forze” in campo sono sproporzionate. Da una parte c’è chi ha fatto della precarietà una bandiera e dell’inaffidabilità un modo d’essere, trincerato dietro la politica degli “interessi”. Dall’altra parte c’è chi si misura non solo con la Storia ma con l’Al di là, è saldamente convinto di avere una Missione e di essere disposto a morire per essa.
A perdere – in queste ore – siamo anche un po’ tutti noi, le “opinioni pubbliche” d’Europa, distratte nella pausa ferragostana (incarnata da un Ministro degli Esteri italiano impegnato a fare selfie sulle assolate spiagge salentine), preoccupate dal Covid, in attesa della “ripresa economica” di settembre, ma ben lontane – non solo fisicamente – dalle drammatiche vicende afghane, da responsabilità che si vorrebbero “storiche”, da valori che dovrebbero informare il Vecchio Continente. Rincantucciati nelle nostre “comodità” assistiamo passivamente allo scorrere degli eventi (lasciando alle Forze Armate la gestione “tecnica” delle emergenze ed il ricordo dei caduti sul campo), in attesa di “indignarci” a comando per la condizione delle donne afghane, per i diritti civili violati, per il ritorno del terrorismo. Vent’anni sono passati invano. Con l’aggravante che le emergenze dell’ora presente (e di quelle che verranno) sono accompagnate dalle nostre debolezze “strutturali” e dalle incapacità di un Occidente culturalmente in rotta.
Dell’occidente che si vuole imporre all’oriente. Ognuno al suo posto!
Dell’imperialismo americano e dei suoi servi sciocchi. Non dell’occidente, che mai avrebbe dovuto sporcarsi le mani in vicende che non appartengono e non minacciano i suoi vitali interessi.