L’apprendista stregone. Così potremmo descrivere la parabola del nazionalismo italiano. Intendiamo per apprendista stregone colui che evoca forze che non è poi in grado di padroneggiare e che prendono il sopravvento su di lui, finendo per governarlo. Si rovescia così il rapporto tra chi crea e chi è creato. Il secondo comanda il primo, comunque lo assoggetta e subordina a sé. Lo condiziona, quantomeno. In termini analoghi potrebbe essere considerato il rapporto tra nazionalismo e fascismo.
Scrive Giuseppe Parlato nell’introduzione a questa sua raccolta di studi, sei già pubblicati (tra il 1983 e il 2020) e uno inedito, ripresentati in veste aggiornata grazie all’editore Fallone, evidenziando come da una nuova ricognizione della vita, del pensiero e dell’opera di personalità di quel vario e complesso movimento culturale sorto in Italia a fine Ottocento «si può comprendere come i nazionalisti considerassero i fascisti degli scolari neppure troppo attenti e soprattutto ancora legati al virus rivoluzionario» (p. IX). Vario lo fu, il nazionalismo italiano. Recuperando la feconda intuizione storiografica di Gioacchino Volpe, che fu peraltro parte in causa dell’oggetto esaminato, Parlato evidenzia come questa varietà fu anzitutto doppia, ossia sul piano dottrinale e su quello geografico. Differenze considerevoli correvano tra il gruppo torinese del «Tricolore», esaminato attraverso la figura di Vittorio Cian, e quello emiliano di Luigi Federzoni. Il primo gruppo era imperialista, mentre il secondo era di più stretta ascendenza risorgimentale. Poi c’era il gruppo romano, maggiormente coinvolto a livello politico, mentre quello veneto era legato all’irredentismo e dunque anti-austriaco. Da non dimenticare poi il nazionalismo meridionale, imperniato su una visione filosofica di stampo neohegeliano che contraddiceva la tendenza positivistica prevalente all’interno dell’Associazione nazionalista italiana, sorta a Firenze nel dicembre del 1910.
Parlato segnala «l’assenza di un pensiero unico interno al mondo nazionalista» (p. V), il che giustifica maggiormente la rassegna che propone con questo volume significativamente intitolato La Nazione dei nazionalisti. Liberalismo, conservatorismo, fascismo. Non è un caso che il primo sostantivo del titolo, oggetto precipuo dell’analisi, sia con l’iniziale maiuscola. È la nazione il dato accomunante, ma le sue declinazioni possono essere, e furono, innumerevoli. Chi sottolineava il problema dell’emigrazione, chi la collocazione nel contesto internazionale, chi la centralità del lavoro. Ad accomunare tutti un nemico, come sempre. Il “noi” si definisce in funzione di “loro” che ingrossano le proprie file ed avanzano apparentemente inarrestabili: i sostenitori dell’internazionalismo proletario, in questo caso. Non evoluzione naturale del liberalismo in senso conservatore, il nazionalismo italiano, preso nel suo insieme, intendeva anzitutto allargare l’idea liberale di nazione.
Come ha osservato Carlo Curcio, i cui studi opportunamente recuperati da Parlato sono diventanti per lui fonte di numerosi stimoli interpretativi, era ben radicata «nell’Italia liberale tra il 1870 e la fine del secolo, la convinzione che la base sociale dello Stato andasse allargata, che bisognasse risolvere il problema dell’emigrazione con un’adeguata politica coloniale, che il sistema politico andasse difeso dalla prepotenza del Parlamento, che andasse debellata la corruzione, che lo Stato fosse politica ed educazione e non solo amministrazione» (p. VI). La rivendicazione di un ruolo centrale e, per certi aspetti, onni-interveniente dello Stato fu un tratto distintivo del nascente movimento nazionalista, il quale operò per mobilitare le masse al fine di chiedere che questo interventismo statale prendesse forma e sostanza. La guerra di Libia fu il primo atto di una formazione che, provenendo da destra, adottava modalità sovversive di propaganda, tanto da introdurre la distinzione tra “italiani” e “non-italiani”, individuando negli internazionalisti, socialisti in primis, il “nemico interno”. La premessa di una messa in moto di mutamenti radicali era la guerra, perché questa avrebbe anzitutto trasformato il ruolo dello Stato, ristabilito dunque il primato della politica, a cui economia e diritto venivano subordinati e tra loro coordinati. In tal senso decisivo appare oggi il contributo in termini di cultura politica apportato nell’ultimo quarto dell’Ottocento da Pasquale Turiello, il quale, dalle posizioni di una Destra storica rivissute e reinterpretate in modo originale, ad esempio partecipando nel 1860 alla conquista garibaldina del Mezzogiorno, pose al centro la questione coloniale in una prospettiva espansionistica, simpatizzando per la politica crispina a cavallo tra anni Ottanta e Novanta. Aggiungendo una durissima critica antiparlamentare e l’avversione alla democrazia liberale, Turiello, «da buon positivista inconsapevole o riluttante» quale in fondo era, fornì «le matrici culturali e politiche del colonialismo nazionalista» (p. 29), come Parlato sottolinea riprendendo felici intuizioni di Curcio e di Franco Gaeta. È con Turiello ed intorno alla sua pubblicistica che la cultura liberale conservatrice degli ultimi due decenni dell’Ottocento assume contenuti e contorni che la volgono verso un nazionalismo culturale che prenderà poi forma organizzativa politica, infine partitica, nel corso del primo decennio del nuovo secolo.
La guerra libica, tra il settembre del 1911 e l’ottobre del 1912, «introdusse almeno due elementi di assoluta novità nella politica italiana, la funzione mediatica e il concetto di nemico interno» (p. 73). In qualche misura, si trattò delle prove generali per quanto accadde con la Grande guerra e la spaccatura in Italia tra interventisti e neutralisti, con l’accresciuta «tendenza a dividere gli italiani fra quelli che rappresentano la nazione e quelli che rappresentano l’antinazione» (p. 77). Se il mito della rivoluzione faceva proseliti a sinistra, quello di una controrivoluzione preventiva attecchì presso una destra culturale, molto attiva nella pubblicistica anche a larga diffusione. Non si trattava di fuoriuscire dal solco del Risorgimento nazionale, tutt’altro. Occorreva semmai recuperare l’afflato ideale e la spinta monarchica presenti in quella aurea stagione, due decisivi aspetti culturali ed istituzionali abbandonati o sviliti da una politica governativa impaludatasi nei meschini, particolaristici e corrompenti compromessi tipici del sistema parlamentare.
Il volume di Parlato merita attenta lettura anche per una serie di ritratti che mancavano nella galleria dei nazionalisti oggetto di analisi storiografica, come quelli di Vittorio Cian e Carlo Delcroix, nonché per un ripensamento critico della interpretazione che Luigi Federzoni fornì nel secondo dopoguerra per tentare di scindere i legami tra nazionalismo e fascismo, in particolare quello più maturo, «denso di populismo rivoluzionario e di velleità rivoluzionarie» (p. X). Ed è su questo punto che alcuni capitoli apportano significativi arricchimenti al dibattito storiografico. In particolare il quarto, dedicato proprio al rapporto tra nazionalismo e fascismo. È, com’è noto, una vexata quaestio, a lungo dominata dall’interpretazione elaborata in contemporanea allo svolgersi degli eventi da Luigi Salvatorelli con il suo Nazionalfascismo, pubblicato nel 1923 per i tipi di Gobetti, raccolta di articoli giornalistici redatti, soprattutto per “La Stampa”, dopo il 1919.
Il punto, ben evidenziato da Parlato, è che al termine della Grande Guerra i nazionalisti temettero di vedere esaurita la loro funzione. Chiave fu, in tal senso, il ruolo svolto da Alfredo Rocco con la sua proposta teorica e politica della costruzione di uno Stato nuovo, che di quell’inedita così prolungata e rivoluzionaria esperienza bellica tenesse debito conto, sia dal punto di vista della politica economica sia della più generale riorganizzazione della pubblica autorità, con tutte le istituzioni annesse e connesse. Nota a tal proposito Parlato: «i nazionalisti provarono a costruire un’alternativa allo Stato liberale, del quale vedevano tutti i limiti», e soprattutto Rocco «aveva compreso più e meglio degli altri suoi sodali l’effetto devastante del conflitto mondiale sulle forze politiche, in particolare quelle di matrice liberale, considerate le vere sconfitte dalla guerra e non solo a livello nazionale» (p. 103). E aggiunge ancora, individuando nell’impresa fiumana il punto di svolta e il segnale che tra monarchia e classe politica liberale la sintonia e le alleanze si erano fatte labili, potenzialmente sostituibili, comunque integrabili con elementi nuovi, provenienti dalle file del nazionalismo e di qualsiasi proposta politica e culturale avanzata in nome dell’ordine pubblico e della reazione antisocialista:
i nazionalisti, quindi, – scrive Parlato – compresero che per sopravvivere avrebbero dovuto mutare linea, entrando nel gioco democratico con una logica “rivoluzionaria e antidemocratica”: in questo senso l’impresa di Fiume fu un’occasione da non perdere. Per i nazionalisti, l’impresa dannunziana era doppiamente importante: da un lato rappresentava tangibilmente un modello di “eversione nazionale”, cioè una forma indubbiamente antilegalitaria rappresentata dalla “diserzione” dei legionari, necessaria per ripristinare quella legalità che lo Stato liberale e la sua classe dirigente non erano riusciti più a imporre; nello stesso tempo Fiume voleva dire riconciliarsi con l’irrendentismo e ciò contribuiva a riunire tutte le componenti del nazionalismo, da quelle fortemente conservatrici e risorgimentali, a quelle più eversive (pp. 103-104).
Dopo la fusione nel 1923, la storia dei rapporti tra nazionalismo e fascismo resta però ancora da scrivere. Parlato lo sa e lo afferma a chiare lettere, ma fornisce, sin dall’introduzione, alcune indicazioni di metodo utili per un fertile prosieguo degli studi sul tema. Da studioso, tra i maggiori in Italia ed Europa, del sindacalismo fascista e delle numerose espressione politiche e culturali che da dentro il regime mussoliniano tentarono di dare sbocchi rivoluzionari e/o variamente socialisteggianti all’esperimento sorto dopo la marcia su Roma, Parlato ricorda come «quella tra sinistra fascista e nazionalisti fu per certi versi una lotta fratricida: si trattava di due varianti di un medesimo nazionalismo in quanto entrambi ponevano la nazione al vertice degli interessi della politica. Ma mentre i nazionalisti rappresentavano la gioventù che emergeva dalla Prima guerra mondiale, la sinistra fascista sembrava rappresentare l’avvenire dopo la guerra d’Etiopia; la nazione veniva declinata diversamente, con uno spazio del tutto nuovo al popolo, non quello educato alla nazione ma quello educato alla rivoluzione sociale» (pp. X-XI).
In conclusione Mussolini, da abile tattico e cinico dittatore qual era, «si servì degli ottimi uomini di Stato che il nazionalismo possedeva per costruire lo Stato nuovo e, di fatto, caricando sul movimento che era stato di Corradini responsabilità che non appartenevano a esso» (p. 115). Fatto sta che, leggendo questa raccolta di studi sul nazionalismo italiano, viene alla mente la seguente massima di Gilbert Keith Chesterton, scrittore come sempre folgorante e meritevole di meditata riflessione: «il compito dei progressisti è commettere errori; quello dei conservatori è di impedire che vengano corretti». Cambiando, con qualche piccola forzatura, i progressisti con i rivoluzionari o i sovversivi antisocialisti, la sentenza di Chesterton, tutt’altro che liquidabile come calembour, pare attagliarsi quasi perfettamente alla drammatica vicenda storica che coinvolse, culturalmente e politicamente, fascismo e nazionalismo.
*G. Parlato, La Nazione dei nazionalisti. Liberalismo, conservatorismo, fascismo
Fallone Editore, Taranto 2020, pp. 224, €22.00
[articolo originariamente pubblicato in «Naxos. Rivista di storia, arti, narrazioni», I, n. 1, gennaio-giugno 2021, pp. 152-156]
I liberali di Giolitti avevano ragione ed i nazionalisti torto, come poi si vide… I nazionalisti distrussero l’Italia come nazione…
scusa Guido ma l’hai letto il libro??? I giolittiani furono i veri nazionalisti imperialisti. Con la Guerra di Libia attuarono l’emergenza del Nemico Interno come antinazionale e da annientare.
Giolitti intraprese controvoglia l’Impresa di Libia per dare un contentino al re, ad imperialisti, irredentisti, ciurmaglia pseudopatriottica varia da caffè e giornali – conclusasi senza una vittoria italiana, solo con l’impegno a versare al sultano ottomano il corrispettivo di quanto gli rendevano Tripolitania e Cirenaica – e rafforzando in sé l’idea che con i generali che avevamo era meglio tenersi lontano da avventure belliche….. L’interpretazione sul ‘nemico interno’ non è condivisibile. Giolitti mirava al allargare la maggioranza parlamentare a cattolici e socialriformisti… Era tutto (ma un autentico ed onesto Uomo di Stato) fuorchè un patriottardo vacuo e declamatorio…