Grande è la confusione sotto il cielo della crisi. E quindi opportuna se non ottima è l’occasione per riannodare opzioni prematuramente archiviate. L’economia vi pare una “demonia”? Rileggetevi quanto scriveva veramente il Barone Evola, che sull’argomento non è mai stato tenero, ma che invitava ad accettare la sfida della borghesia sul suo terreno, offrendo le opportune contromisure culturali e sociali.
Economia non è solo finanza. Di “spread” si può anche fare a meno. Ma di lavoro no. Del lavoro che è lotta quotidiana, fatica ed orgoglio, e dunque strumento partecipativo, socialità concreta. Qualcosa di più insomma che mero sostentamento.
Nel rimescolarsi delle vecchie scuole economiche, pensare di aprire la partita partecipativa anche nel nostro Paese non solo è auspicabile ma doveroso. E a meno che non si voglia lasciare il campo al sempre più usurato decisionismo imprenditoriale, da un lato, e allo sbiadito massimalismo di classe dall’altro, due facce della stessa medaglia, il progetto partecipativo appare come l’unica strada percorribile per costruire, su nuove base, un progetto realistico di fuoriuscita dalla crisi.
E non solo dal punto di vista strettamente economico e sociale. Scopriamo l’acqua calda (basta leggere le percentuali dei votanti gli ultimi appuntamenti elettorali) dicendo che la voglia di partecipazione ha bisogno di altre strade rispetto a quelle parlamentari.
Il corporativismo è una di queste. D’accordo, il termine non va per la maggiore. Anzi, nella vulgata corrente, è segno di frantumazione e di egoismo sociale.
Ma se provassimo a coglierlo nella sua essenza? Senza andare alle origini del fenomeno “corporativo”, ben noto e disciplinato dal diritto romano, o al ruolo che esso ebbe a partire dal Secolo XI fino alla fine del 1700, o all’attenzione che manifestò sul tema il sindacalismo rivoluzionario da una parte ed alla Chiesa Cattolica dall’altra, a volere focalizzare l’attenzione sull’attualità non si può non cogliere che molte delle proteste che attraversano l’Italia, e non solo, sono legate a una richiesta di maggiore rappresentanza sociale e territoriale, a Nord come a Sud, con un riconoscimento delle specificità locali, del ruolo delle categorie, del valore del lavoro, con una forte domanda di socialità e di partecipazione.
Questo – sia detto per inciso – significa storicamente e sociologicamente “corporativismo”: capacità di rappresentanza degli interessi organizzati, appunto “corporati”, all’interno di più ampia visione d’assieme. Da lì, anche da lì bisogna partire per ripensare nuova la politica e la società. Per uscire dal genericismo delle buone intenzioni e dare concrete prospettive alla domanda di cambiamento. Che poi lo si chiami “corporativismo” o neopartecipazionismo o “communitas” ha poca importanza. Andiamo alla sostanza delle cose, superando i vecchi steccati con lo sguardo oltre la crisi. Il “dopo” va ripensato da oggi.