La vicenda dello sbarco della Vlora nel porto di Bari, l’8 agosto del 1991, viene raccontata oggi secondo una narrazione lontana dai fatti. Si parla della volontà di bravi cittadini albanesi di cercare un lavoro in Italia, gente che arrivava per cercare una opportunità di vita in più, nel nome della fratellanza e dell’accoglienza. E’ la solita zuppa che trasforma tutto, che offre interpretazioni lontane dalla realtà. L’arrivo della Vlora fu anche questo ma non solo. Di ipotesi ne sono state fatte molte e indizi sono sempre stati evidenti. Ma non prove. Per alcuni fu un’operazione della malavita per altri, l’iniziativa di ex militari del regime comunista, per altri ancora un’iniziativa del Governo del paese balcanico per ottenere aiuti economici. Di certo un numero cospicuo di albanesi era formato da criminali (alcuni ricercati anche dalle Forze dell’Ordine italiane) e avventurieri la cui azione fu destabilizzante. Poi ci furono trattative fra Governi per ottenere dallo Stato italiano degli aiuti economici, e la Polizia individuò anche ex agenti segreti comunisti fra i clandestini. Dare una versione univoca è impossibile. Non si può asserire con certezza nulla di queste ipotesi.
E anche le prime dichiarazioni che il sindaco di Bari di allora, Enrico Dalfino, pronunciò “Sono persone, persone disperate. Non possono essere rimandate indietro, noi siamo la loro ultima speranza”, dimostrano certamente uno spirito buono e comprensivo ma nello stesso tempo che il primo cittadino non aveva capito ancora, in tutta la sua complessità, la situazione e le cause.
Sbarchi organizzati?
Già da qualche mese c’erano stati sbarchi, in Salento, di clandestini provenienti dall’Albania. La buona stagione e il mare calmo favorivano queste migrazioni nello stretto d’Otranto. Gli albanesi abbandonavano la propria nazione per raggiungere l’Italia, meta promessa per tanti di loro che fuggivano dal Paese dove ancora c’era la dittatura. La molla era la ricerca della libertà, dell’Occidente, la fuga da un regime dispotico e da quello che era rimasto del comunismo.
Così, quando la mattina presto una fonte della Guardia di Finanza allertò sull’arrivo di una imbarcazione sulle coste pugliesi, il compianto collega e amico Liborio Lojacono, con il sottoscritto, entrambi cronisti della “Gazzetta del Mezzogiorno”, fummo i primi giornalisti ad arrivare al porto di Bari. Era l’8 agosto del 1991 e non si sapeva dove “l’imbarcazione avrebbe attraccato” ma la Guardia costiera parlava di una “grande imbarcazione”. Si ipotizzava l’attracco a Mola, a Monopoli, difficilmente a Bari, date le condizioni della nave. Si parlava di natante, motoscafo, poi grande imbarcazione, non si capiva quanta gente c’era a bordo. Poi si parlò di centinaia di persone. Nulla era chiaro. Il vicecapocronista del tempo avvisò il direttore che ci chiese di restare nel porto di Bari. Dopo le nove, a me e a Liborio apparve una visione che ci fece ammutolire: una nave lunga 150 metri stracolma di gente. Gente ovunque, in piedi, sulle paratie, stipata sottocoperta. La nave, dal nome “Vlora” (Valona) era una carretta del mare costruita nei cantieri di Ancona e varata nel 1960 poi venduta a una compagnia albanese. Il 7 agosto era arrivata da Cuba a Valona dove erano state scaricate tonnellate di zucchero. Al termine delle operazioni, si diffuse la voce che c’era nel porto quella nave e circa ventimila albanesi (la cifra esatta non è stata mai definita) si diressero verso il porto di Valona, ingaggiarono scontri con i militari, occuparono la nave e costrinsero il comandante, Halim Milaqi, a partire urgentemente prima che intervenisse la Polizia. Per la verità, alcuni militari della Marina e dell’Esercito albanesi abbandonarono le armi, alcuni si tolsero la divisa per non essere riconoscibili, e salirono, in slip e canottiera, a bordo della nave. Secondo alcuni studenti che erano fra i fuggiaschi, erano stati i comunisti a farli fuggire sparando anche alcuni colpi di pistola contro di loro. L’ipotesi era di una fuga pilotata, organizzata dallo Stato, ma prove certe non c’erano.
Una carretta stracolma, che ebbe difficoltà a raggiungere Bari, con il motore che alla fine funzionava solo in parte, con la linea di galleggiamento di molto al di sotto di quanto previsto. Quindi, ebbe difficoltà ad attraccare, nonostante quattro rimorchiatori aiutassero la nave nelle operazioni. Operazioni rese difficili anche dal fatto che a centinaia gli albanesi si lanciarono a corpo morto in acqua, a nuoto raggiungevano le banchine del porto e avevano difficoltà a salire. Non solo: il poco tempo a disposizione fece sì che si potessero organizzare iniziative di soccorso solo dopo l’entrata in porto della nave. Ingresso molto discusso: la Capitaneria dette l’ordine di fermarsi all’imbocco del porto ma il comandante albanese forzò il blocco affermando di avere feriti a bordo e di non poter fare “macchine indietro tutta”. La frase che usò fu: “Non sono in grado di decidere. Non comando nessuno. Fateci entrare nel porto, per pietà. Non abbiamo medicine, non abbiamo materiale, non abbiamo niente. A bordo abbiamo persone ferite, in gravi condizioni. Qualcuno sta morendo”. Il comandante tirò diritto, forzò il blocco, per un pelo non speronò la fregata della Marina militare “Euro” e passò oltre.
La nave fu quindi indirizzata al cosiddetto Molo Carboni, il molo 30, il più lontano dal centro abitato. Durante l’entrata nel porto molti albanesi, come detto, si gettarono dalla nave e nuotarono fino alla banchina. Alcuni cercarono di scappare. Le operazioni di ingresso furono lunghe e verso le 11 la nave attraccò fra le grida di gioia “Toca! Toca” (Terra, Terra!) e furono fatti scendere i clandestini. Questo momento è stato immortalato nelle famose foto note in tutto il mondo scattate dal giovanissimo fotoreporter Lorenzo Turi, dell’Agenzia fotografica Luca Turi.
L’Invasione
Mi sembrò di vivere la scena che apre il romanzo Il campo dei Santi di Jean Raspail (edizioni di Ar) dove lo scrittore francese illustra, in questo romanzo distopico, l’invasione dei porti del Sud della Francia da parte di migliaia di imbarcazioni stipate con oltre un milione di asiatici provenienti dal porto di Calcutta. Raspail ambientò la scena in un “lunedì di Pasqua di un anno intorno al 1990”.
Ma quello che si sentiva dire nel porto di Bari è che bisognava fare qualcosa, ma la Polizia municipale non sapeva cosa, la Polizia di Stato cercava di arginare quella massa di persone, insieme con Carabinieri e Guardia di Finanza.
Nel cielo volteggiava un elicottero. Al porto arrivò il sindaco democristiano Enrico Dalfino: fu bloccata la banchina, per evitare che i clandestini fuggissero nella città (cosa che comunque in parte avvenne). Alcuni albanesi iniziavano ad accusare malori e vennero trasportati in ospedale, al Cto, al Policlinico. Coordinare tutto era un problema. Dalfino non sapeva da dove cominciare ma convocò gli assessori e cominciò ad assegnare i compiti. Ma nessuno aveva capito che cosa stava accadendo. Del resto si è trattato del primo e più grande sbarco di clandestini immigrati nella storia degli ultimi trent’anni in Europa. Era il momento di decisioni difficili ma da assumere in tempi brevissimi. I massimi rappresentanti delle istituzioni erano in ferie, prefetto compreso, e il sindaco, dietro decisione della Prefettura, fece spostare un numero cospicuo di albanesi sul terreno erboso dello stadio della Vittoria, il vecchio stadio realizzato durante il Fascismo. Tre feriti usciti da sottocoperta furono inviati in ospedale e un albanese di circa 50 anni fu trovato morto nella stiva della nave. A bordo furono rinvenuti dalla Polizia bastoni, cacciaviti, grimaldelli, pistole. Un albanese fu trovato in possesso di una pistola e fu arrestato. Cinquecento clandestini furono ricoverati negli ospedali di Bari e provincia. Fra loro alcuni fingevano di star male per avere, con il ricovero, letto e pasti assicurati. Una situazione di emergenza difficile da controllare.
Con tanti autobus furono trasportati sin dal primo pomeriggio centinaia e centinaia di albanesi dal porto allo stadio. Il caldo era da record, il tasso di umidità toglieva il respiro, bisognava sfoltire le presenze di persone, la Polizia municipale lanciava getti d’acqua sui clandestini e venivano distribuite bottiglie d’acqua e panini. Scene da girone dantesco, con gente che spingeva, altra che cercava la fuga, altra ancora che si tuffava in mare. Tra i profughi non c’erano solo ragazzi, studenti, giovani donne e gente in cerca di fortuna, ma anche un certo numero di malavitosi, come alcuni studenti albanesi riferirono. E infatti, già la sera dell’arrivo, ci furono aggressioni contro la Polizia e i Carabinieri.
Il clima divenne effervescente allo stadio, il giorno dopo, dove alcuni gruppi di facinorosi lanciarono mattoni e pietre contro Carabinieri, Polizia e Guardia di Finanza. Erano disposti intorno allo stadio solo settanta fra poliziotti, finanzieri, carabinieri.
Le prime reazioni politiche furono diffuse già nel pomeriggio. Il presidente del Consiglio Giulio Andreotti sottolineò che “non c’è proprio possibilità di asilo o ospitalità nelle nostre regioni del resto lo stesso governo albanese è d’accordo che gli albanesi devono essere restituiti tutti all’Albania”. Il sottosegretario Claudio Vitalone disse al termine di un incontro con il primo ministro albanese Ylli Bufi: “Dobbiamo rispettare la legge nazionale per questo coloro che sono entrati illegalmente saranno espulsi senza alcuna eccezione”. L’Italia offrì un contributo di 10 miliardi di lire all’Albania in aiuti alimentari e medicinali e due miliardi da investire per affrontare i problemi dell’infanzia.
Intanto le associazioni di volontariato a Bari si mobilitarono al massimo degli sforzi.
La soluzione dello stadio fu necessaria per offrire spazio, servizi igienici, sebbene il sindaco Dalfino e il presidente della Regione Puglia, Michele Bellomo, non erano d’accordo. Dalfino e Bellomo volevano attrezzare il molo foraneo anche in vista di un rapido reimbarco dei clandestini. Ma il viceprefetto, dopo consultazioni col governo e vertici in Prefettura, dispose il trasferimento. Circa settemila albanesi furono trasportati lì. La sera i clandestini, esasperati, tentarono di sfondare i cancelli della curva Nord per fuggire e alcuni ci riuscirono facilmente: i lucchetti non erano abbastanza robusti. Verso le 22 ricominciò la battaglia contro le forze dell’ordine: volarono pietre, pezzi di legno e metallo divelti da cartelloni pubblicitari e bottigliette di vetro dei succhi di fritta distribuiti nel pomeriggio, contro le forze dell’ordine che risposero con il lancio di candelotti lacrimogeni. Gli albanesi furono ricacciati nello stadio. La sede dell’Istituto di medicina dello sport, che era nei locali adiacenti la curva Nord, fu devastata e archivi e documentazione medica furono dati alle fiamme dagli albanesi e i macchinari sanitari del valore di decine di milioni di lire che erano lì, distrutti. Lo stadio era controllato anche da elicotteri della Guardia di Finanza.
Di notte arrivarono rinforzi alle Forze dell’Ordine da tutta Italia. L’Asl istituì un presidio medico allo stadio, con dieci medici. Il giorno dopo i primi cinquanta albanesi furono rimpatriati con un C130 dell’Aeronautica militare. Avevano chiesto espressamente di tornare a casa. Intanto, anche al porto ci furono attacchi alla Polizia che replicò con ripetute cariche. Attacchi che proseguirono il giorno dopo con sassaiole e feriti fra le Forze dell’Ordine. Dagli spalti dello stadio pioveva di tutto. I baresi che abitavano nella zona si erano asserragliati in casa. Un gruppo di albanesi di impossessò di un autobus e cercò di infrangere un blocco allestito dai carabinieri: i militari dovettero sparare alle ruote per fermarli. Nel parapiglia di questi assalti, ci furono feriti ma anche decine e decine di clandestini che riuscirono a darsi alla fuga. Gli animi si surriscaldavano perché gli albanesi erano convinti di essere accolti subito e invece circolava la voce che sarebbero stati rimpatriati. Infatti, qualche centinaio di clandestini fu imbarcato sulla nave “Tiziano” e trasportato a Valona. Intanto l’Esercito aveva messo a disposizione cinquecento uomini della Brigata Pinerolo (due giorni dopo divennero mille militari e trenta ufficiali) per il sostegno logistico e per il servizio d’ordine.
Ogni giorno qualche centinaio di albanesi veniva rimpatriato. Il giorno 10 si rischiò l’incidente diplomatico: a due navi della Marina militare italiana che trasportavano clandestini albanesi non fu permesso di entrare nel porto di Valona. Il ministro dell’Interno Vincenzo Scotti accusò: “Quel governo gioca al rialzo. Vuole soldi e aiuti che abbiamo promesso e che finora non siamo riusciti materialmente a dare”. Polemiche anche per la non applicazione della legge Martelli che prevedeva che la Vlora sarebbe dovuta essere respinta direttamente, come poche settimane prima avevano fatto le autorità maltesi in un caso simile. Furono installate tende per donne e bambini e il rischio di epidemie stava divenendo una realtà. Sul molo foraneo si moltiplicavano i rifiuti organici. Non era possibile fare una bonifica a causa della marea umana e della presenza minacciosa di albanesi malavitosi che spesso sottraevano razioni di cibo ad altri albanesi. Il risultato? Diversi clandestini non mangiavano da tre giorni. Ed erano esposti al caldo, all’umidità, per intere giornate sotto il sole. Tanto che la distribuzione di cibo per donne e bambini fu effettuata in momenti diversi per essere sicuri che i pasti non venissero sottratti a donne e bambini.
Povera gente e malavitosi
Insomma, c’era povera gente, donne, bambini, studenti, persone umili ma anche criminali (come le forze di Polizia fecero sapere), disertori, facinorosi, gente equivoca, persone che appena giunte a terra cercarono di fuggire e far perdere le tracce. Un bailamme. Inoltre, per non finire davanti alla Corte marziale in Albania, proprio i militari fuggiti erano i maggiori irriducibili, che non volevano accettare proposte dal Governo italiano. Pretendevano di essere accolti e basta. Molti altri erano convinti a tornare nel Paese delle Aquile con la semplice offerta di 50mila lire, un paio di jeans e una maglietta. Subito salivano sugli autobus per andare al porto a imbarcarsi oppure per andare all’aeroporto e tornare nel Paese delle Aquile in aereo. Le condizioni di scarsa igiene, il rischio di epidemia, le risse, le cariche delle forze dell’ordine, le ambulanze, gli sfondamenti dei cordoni della Finanza o dei Carabinieri, le fughe, tutto questo non viene mai descritto nelle rievocazioni e nei documentari che parlano della “nave dolce” e delle testimonianze in tv di gente (e talvolta di giornalisti) che al porto e allo stadio non ci sono mai state. Anche perché con il tempo si è voluto dare una lettura “ideologica” della vicenda della Vlora, facendola passare per povera gente alla ricerca di una nuova terra promessa, che fuggiva dalla miseria e cercava l’occasione per una nuova vita sull’altra sponda dell’Adriatico. I baresi furono generosi, spesso regalarono vestiti e cibo, ma la storia della Vlora non fu solo di “amicizia e fratellanza” come vogliono farla passare. Tanto che poi quasi tutti i clandestini preferirono tornare in Albania, tranne gli irriducibili che vi furono costretti. Per loro restare in Italia significava soprattutto sfuggire alla Polizia del proprio Paese.
Alcuni baresi se la videro brutta. Un esempio? Il caso di Nicola Trisciuzzi, custode dello stadio, rimasto asserragliato in casa (nello stadio) senza che nessuno si ricordasse di lui e con il timore che gli albanesi entrassero nella sua abitazione. Per fortuna moglie e figli avevano fatto in tempo a rifugiarsi a casa di una parente. Quando, dopo tre giorni senza mangiare e senza soccorsi, Trisciuzzi uscì, gli rapinarono un braccialetto, un anello, una collana e duecentomila lire. C’erano anche albanesi che chiedevano solo un lavoro, la possibilità di restare in Italia, ammaliati dalla tv italiana. Un ragazzo, Miro, mi disse che era rimasto colpito dal benessere in Italia: nella pubblicità mostravano il cibo appetitoso per cani e per gatti! E tutti avevano beni di lusso, auto lussuose… ecco gli effetti della società del consumo…
La battaglia di Bari
L’11 agosto fu una giornata di battaglia: gli irriducibili pensavano di poter rimanere in Italia rifiutando ogni offerta del Governo. Nello stadio c’erano circa duemila albanesi e quella fu una giornata di scontri continui con le forze dell’Ordine e fra albanesi e albanesi. Fra coloro che volevano rimpatriare e altri che volevano restare, fra gruppi malavitosi contro altri malavitosi. La situazione rischiava di sfuggire di mano. Soprattutto al porto gli scontri furono prolungati. La polizia lanciò gas lacrimogeni. Alcuni clandestini avevano occupato una piccola nave, la “Susan”, che batteva bandiera maltese, e da lì avevano preso asce, catene e tubi metallici da usare come armi. Durante gli scontri un fotografo dell’Ansa fu colpito a una gamba e dovette ricorrere alle cure mediche. La nave ”Susan” fu poi incendiata e dovette intervenire una “pilotina” dei Vigili del fuoco dal mare per spegnere le fiamme. Quindi domenica 11 agosto scontri ripetuti allo stadio e al porto. Allo stadio dettero fuoco ai locali della Croce rossa e sottrassero asce e una pistola. Alla fine, devastarono la casa del custode. Alcuni albanesi chiesero il rimpatrio e non volevano più rientrare nello stadio perché non volevano avere a che fare con i connazionali malavitosi. In città si susseguirono rastrellamenti per rintracciare i clandestini fuggiti. La Polizia ferroviaria bloccò varie decine di albanesi che furono poi portati in Questura.
Man mano che passava il tempo il numero degli irriducibili diminuiva. Due giorni dopo circa settecento erano rimasti nello stadio. Il capo della Polizia, Vincenzo Parisi, in una conferenza stampa, disse: “Fra loro ci sono circa 300 irriducibili definiti teppisti dai loro stessi connazionali” e forse, si pensò, anche agenti segreti. Fino al 13 agosto erano stati sequestrati agli albanesi, un Kalashnikov, due fucili, tredici pistole e 16 coltelli. Si temeva, pertanto, che i trecento asserragliati potessero disporre di altre armi. Arrivarono per far fronte a questa situazione delicata i Nocs della Polizia, un reparto speciale. Altri incidenti ci furono la sera, durante la distribuzione dei panini. Alla fine agli irriducibili fu detto chiaramente che il Governo italiano intendeva rimandarli indietro. I clandestini non accettarono. Ma col passare del tempo alla spicciolata gruppetti si distaccavano dagli altri e accettavano le proposte a titolo personale. Fino alle 18 del 12 agosto, secondo dati ufficiali del Ministero dell’Interno erano stati rimpatriati, con traghetti e aerei, 16.573 clandestini. Ma altri vennero imbarcati nelle ore successive. Le trattative proseguivano.
Alla fine, due giorni dopo, il 14 agosto, fu assicurato ai duecento irriducibili scarsi che erano rimasti che sarebbero stati inviati in altre città. Furono trasportati all’aeroporto, caricati su aerei e trasportati, invece, in Albania. Un blitz con sveglia alle 5 e partenza del primo aereo alle 7,45 dall’aeroporto di Bari-Palese, il secondo alle 10,10. In totale, sette voli più uno con un C130 dell’Aeronautica militare riportarono in giornata tutti gli irriducibili, e qualche fuggiasco fermato dalla Polfer, in Albania. Erano tutti convinti di andare a Roma, Milano, Napoli ecc.
Il politicamente corretto oggi
In una dichiarazione che l’attuale sindaco di Bari, Antonio Decaro, ha rilasciato nei giorni scorsi a “Repubblica” ha detto: “L’approdo della Nave Vlora, all’indomani della caduta del muro di Berlino, aprì una breccia nelle nostre coscienze e dell’Italia intera. Il carico di persone che lasciò l’Albania sfidò non solo il mare ma un’idea di confine, amministrativo, economico e culturale, che fino ad allora ci era sembrato invalicabile. La Vlora – ha sottolineato il sindaco – cambiò per sempre la storia di Bari aprendola al mondo, ed all’Europa intera, rappresentando il primo esodo migratorio di massa nel Mediterraneo. Da quella storia però – aggiunge Decaro – è nata una grande amicizia tra due popoli”.
E’ una dichiarazione esagerata che non racconta la storia come fu e dimentica che tutti i partiti del governo di centrosinistra erano a favore del rimpatrio dei clandestini albanesi.
Si sa, la sinistra, per vocazione negazionista, spesso riscrive o addirittura cancella la storia (e soprattutto la cronaca) travisando fatti, date, dinamiche e tutto nel nome del buonismo e della propaganda. I documentari girati non parlano di ciò che Polizia, Carabinieri, Finanzieri, cronisti (quelli che c’erano, e ce n’erano molti di inviati, da tutto il mondo) hanno visto, documentato e vissuto in quei giorni. I politici ricordano tutt’altro e dimenticano altro ancora. L’interpretazione dei fatti era legata ai fatti stessi non al politicamente corretto. “La Gazzetta del Mezzogiorno” titolò il giorno dello sbarco “L’invasione”, due giorni dopo “la Repubblica” “La battaglia di Bari” per descrivere gli scontri fra albanesi e forze di Polizia.
Nessuno ricorda soprattutto la polemica fra il sindaco Dalfino e il governo scaturita con le prese di distanza dalle decisioni del governo Andreotti che il primo cittadino rimarcò in un’intervista al “Manifesto”. La replica del presidente della Repubblica Francesco Cossiga fu pesante e chiese al governo di valutare la possibilità di far dimettere da sindaco Dalfino. Questi sostenne di non aver mai dichiarato al giornale espressioni così pesanti contro il governo.Tutto finì con una mediazione di Scotti e le scuse di Dalfino accettate dal presidente Cossiga.
L’Operazione Vlora era terminata, anche se alcuni strascichi non mancarono.
Rievocazione documentata e molto equilibrata. Non sono stato testimone degli eventi, ma vorrei ricordare un aneddoto che conobbi per caso da un giovane che stava facendo il servizio militare in quel periodo. Molti profughi albanesi erano stati ospitati in una caserma, dove erano serviti dai nostri soldati, che facevano la corvée anche per loro. Il rancio un giorno non risultò di loro gradimento e lo buttarono nei gabinetti, intasandoli. Toccò ai nostri soldati pulire. Episodi come questi, e soprattutto la mancata sanzione di certi comportamenti, aiutano a capire i comportamenti devianti di molti albanesi: se i nostri soldati facevano loro da camerieri e da sguatteri, che rispetto avrebbero potuto avere nei confronti del nostro Paese e delle nostre istituzioni?
Vorrei confrontare il diverso tipo di accoglienza che la Svizzera diede ai rifugiati politici o razziali, e anche ai nostri soldati sbandati dopo l’8 settembre. Li accolsero, li sfamarono, ma li fecero anche lavorare: in servizi forestali, o anche nei campi dove erano stati internati, in cucina o nelle pulizie. Lo scrittore Piero Chiara lo ricordò in una serie di ricordi pubblicati in appendice al suo racconto lungo Il piatto piange. Si considerò molto fortunato per essere stato destinato alla pulizia del gabinetto del tenente che comandava il campo. E comunque ringraziò sempre la Svizzera, che a lui disertore e antifascista aveva salvato la vita.
Siamo sempre l’Italia senza autostima e sempre pronta al ‘buonismo’ deteriore. Non rispettiamo noi stessi e non pretendiamo logicamente mai che gli altri ci rispettino. L’Italia dei sciuscià, della pineta di Tombolo, delle marocchinate impunite, degli inglesi accolti ed acclamati come liberatori, dopo i loro bombardamenti terroristici sui civili…
…solo buoni a scannarci tra italiani, come sosteneva Montanelli.