Andare oltre l’utopia e oltre il classismo, significa recuperare l’essenza di una reale domanda di cambiamento, di giustizia sociale, di partecipazione, largamente presente nella società, ma rispetto a cui, nel corso dei decenni, non si è riusciti a dare forma politica e modalità di pensiero e di azione concrete.
E’ perciò dalla consapevolezza dei limiti “di sistema” che bisogna partire per dare una risposta complessiva, insieme culturale, sociale e politica alla crisi contemporanea.
Non basta allora mutare i rapporti di produzione o ribaltare le alleanze politiche, sperando con ciò, di cambiare, nella sostanza, la realtà.
Non basta l’attesa del “nuovo”, dell’utopia letteraria e filosofica di stampo ottocentesco, per costruire un’autentica stagione di speranza.
Né è sufficiente la denuncia dei limiti del sistema partitocratico, delle responsabilità della “Casta”, per delineare un’autentica alternativa.
E’ piuttosto da una più ampia e complessa idea di “coesione sociale”, che bisogna partire per costruire un realistico progetto di rifondazione istituzionale e sociale, che risponda in modo maturo alla crisi contemporanea, superando i vecchi schematismi di classe e le debolezze strutturali di un capitalismo assoluto, senza vincoli e senza confini, spesso slegato dal territorio, dalla storia delle aziende, dal valore del lavoro.
Su questi “crinali”, potremmo dire epocali, passano i percorsi di un riformismo non utopistico, capace di rispondere contemporaneamente ai temi della governabilità e alle grandi questioni sociali, lasciate irrisolte dalla crisi del classismo e acutizzate dal “dogma liberistico”.
Lo stesso Sindacato deve uscire fuori dalla vecchia logica conflittuale, assumendosi tutte le “nuove”responsabilità che gli competono. Intanto in direzione di una essenziale ricostruzione del rapporto fiduciario con i lavoratori , attraverso l’adozione di modelli partecipativi e di verifica del consenso più trasparenti, quali referendum interni ai luoghi di lavoro ed organismi bilaterali, finalizzati alla costruzione di sistemi premiali.
E’ questione di metodo e di merito. E qui pensiamo ad un mondo sindacale più “aperto”, capace di chiedere, per primo, rigore e quindi rispettoso e garante del patto tra produttori (lavoratori e datori di lavoro, privato e pubblico). Più attento nei confronti di chi lavora e, nel contempo, meno accondiscendente verso chi furbescamente o grazie a certe inefficienze di sistema, non fa il proprio dovere. Pensiamo ad un Sindacato che sappia farsi carico delle inefficienze, presenti sui luoghi di lavoro, che le denunci e che si impegni per superarle , piuttosto che mascherarle.
In termini sociali ciò vuole dire risolvere il problema della rappresentanza reale, non puramente formale, del “lavoro” e delle competenze professionali, non solo all’interno delle aziende ma anche delle istituzioni, dando alla Politica, legittimata da un fondato consenso sociale, il ruolo che le spetta, tutto il ruolo che le spetta, ben al di là del formalismo liberale, per il quale “resta soltanto valido, nello Stato e nella politica – come notava Carl Schmitt (Le categorie del “politico”) – ciò che concorre unicamente ad assicurare le condizioni di libertà e a sopprimere ciò che le contrasta”.
A crisi globale riforma globale nel segno della partecipazione sociale dunque (nelle istituzioni, nella società, nell’economia, nella cultura): consapevoli della posta in gioco e di una strategia non contingente per dare all’Italia autentiche prospettive di cambiamento, pena il suo irreversibile tramonto.