Esattamente settant’anni fa, nel 1943, Pierre Drieu La Rochelle pubblicava “L’uomo a cavallo”, un breve e suggestivo romanzo strutturato in quattro parti intitolate Il sigaro di don Benito, Donna Camilla Bustamente, La rivolta degli Indiani, Il lago Titicaca, a loro volta suddivise in capitoli. La narrazione, ambientata nella Bolivia dell’800, è un intreccio di passioni, tradimenti, macchinazioni, giochi di potere, slanci ideali e si incentra su due personaggi che rispecchiano la personalità contraddittoria e fascinosa dello scrittore francese: il giovane Jaime Torrijos, tenente del reggimento di cavalleria di Agreda, che sogna di riunire politicamente il continente latino-americano e di riconciliare le classi sociali e il chitarrista Felipe, che è al suo fianco e ne narra le vicende. Jaime è l’uomo d’azione, il condottiero e Felipe l’uomo del sogno, l’intellettuale. Non può non leggersi in filigrana nel romanzo il fallimento del sogno che accompagnò Drieu durante tutta la sua vita, quello di un’Europa dei popoli unita, non più dilaniata da guerre e da divisioni, forte e indipendente di fronte ai nuovi colossi che stavano sorgendo in America e in Asia.
Nel racconto ci sono anche due personaggi femminili di grande forza e personalità: Camilla, bella, colta e ricca rappresentante della classe agraria dietro la quale si può intravedere, l’argentina Victoria Ocampo che di Drieu fu prima amante e dopo amica intrattenendo una corrispondenza durata quindici anni interrotta solo dalla morte dello scrittore; e Conchita, la donna del popolo, altrettanto bella, passionale, sanguigna, nella quale si sommano tante donne di umili condizioni amate da Drieu. Entrambe suggeriscono “l’idea delirante che la bellezza è sempre diversa e sempre uguale.” Il racconto è dominato dalla rivalità delle due donne e dagli intrighi di altri due personaggi: il gesuita padre Florida e il massone Belmez, che fomentano una rivolta di indios contro Jaime e rappresentano le forze sovranazionali che agiscono dietro le quinte della storia, determinando il fallimento del tentativo di Jaime. La scena finale ha una sua tragica grandezza: il sacrificio del cavallo di Jaime, che viene ucciso e bruciato sulle rive del lago Titicaca, è il simbolo degli ideali che non di rado sono sconfitti dagli egoismi e dalla pochezza degli uomini. Jaime lascia il suo popolo per avviarsi a piedi verso l’Amazzonia, una terra primitiva e sconosciuta, alla ricerca di qualcosa di indicibile e forse per nuove incerte battaglie. Riportiamo la chiusa del romanzo:
<< Ma anche un uomo che aspira all’alto rimpiange sempre la patria. Jaime rimpiangeva la patria e anch’io la rimpiango. Jaime se ne andava a piedi. Portava con sé poco bagaglio, nessuna arma se non un coltello. L’accompagnai fuori dell’accampamento. Mi lasciò camminare per un’ora accanto a lui. Avevo il cuore afflitto e mi chiesi all’improvviso perché Jaime non mi permetteva di accompagnarlo. (…) Aggiunse: “Sai bene, amico mio, che non possiamo fare nulla l’uno per l’altro. Apparteniamo alla razza di chi vuol morire con gli occhi limpidi. E’ tempo di morire, l’uno per l’altro, come per tutto ciò che abbiamo amato.” Ebbi ancora una crisi di futilità, di curiosità e gli chiesi: “Raggiungerai gli Inca?” Alzò le spalle. Piangemmo ancora. Ma, alla lunga, ci stancammo di piangere. Allora poté partire. Guardavo le spalle dell’uomo dietro al quale avevo camminato per vent’anni. L’uomo a cavallo era a piedi.>>
Il romanzo è stato giudicato “appassionante” da Pierre Andreu. Per Moreno Marchi è una meditazione sull’eroismo, sulla politica, sull’arte e soprattutto sull’umano e il divino. Equilibrato e condivisibile è anche il giudizio che si trova su Wikipedia: “Anche se in alcuni passaggi il libro risulta un po’ lento nel complesso la vicenda e le descrizioni riescono ad essere convincenti se non proprio avvincenti. La disillusione sovrasta la forza dell’azione che appare sempre senza speranza per il futuro” (da Wikipedia, voce “L’uomo a cavallo”). Piuttosto malevola e gratuita ci sembra, invece, la critica rivolta da Gianfranco Franchi. Pur ammettendo che “è un’opera al limite singolare e per l’ambientazione e per l’atipico intreccio”, poi la stronca con questi giudizi lapidari: “è un libro scritto con una certa, percepibile stanchezza, con una cerebralità che è perfino sfarzosa… Non c’è nessuna descrizione suggestiva del Sudamerica; non c’è nessun personaggio che non sembri totalmente europeo… sconfortante la debolezza dei personaggi femminili”. E conclude con un non celato pregiudizio ideologico: “Disturba non marginalmente, in conclusione, questo stravagante tentativo di edificare una mitologia dell’uomo forte, soprattutto considerando il momento storico in cui “L’uomo a cavallo” è stato scritto. La tentazione, a questo proposito, è di adottare l’aggettivo “imperdonabile”. Quest’ultimo giudizio, affatto ideologico, si commenta da sé, peraltro si tratta di ben altro che di mitologia dell’uomo forte! Quanto ai giudizi estetici e di merito, sono facilmente confutabili leggendo il romanzo. Col che non si vuole sostenere che questo romanzo sia un capolavoro, come Fuoco fatuo o La commedia di Charleroi. E’ vero che in alcune passaggi narrativi si percepisce una certa stanchezza e staticità, ma questo è un peccato veniale rispetto al grande dramma storico che Drieu cerca di rappresentare nelle sue pagine. Detto, per inciso, se ne potrebbe trarre un magnifico film. Verso la fine del romanzo Drieu mette in bocca a Jaime una confessione che suona autobiografica e ci dà il senso e la misura di un’opera e di una vita: “Non sono che un pellegrino del sogno”.