Le opere letterarie, scritte in lingue regionali, meritano una maggiore rilevanza nei testi di storia della letteratura. Sì, nei libri di scuola, ci sono i poeti dialettali dell’ottocento lombardo e romano; ecco il Porta e il Belli in bella posizione nei testi scolastici; ecco il poeta dialettale Salvatore Di Giacomo, apice della lingua napoletana tra ottocento e novecento; ecco…
Però, se cerchiamo un poeta barese nella grande letteratura, non troviamo quasi niente. Per questo motivo è giusto cogliere l’occasione per ricordare il bicentenario della nascita ( 12 luglio 1813) del più noto poeta barese del diciannovesimo secolo. Limitiamoci a questo tipo di premessa per far conoscere Francesco Saverio Abbrescia, il poeta/prete nato a Bari, uomo di ideali liberali e comunitari, tanto da immaginare una società pacificata nelle sue liriche.
La sua opera è al centro di numerosi studi svolti dagli storici locali. E la sua identità coincide con l’avanguardia intellettuale borghese nella prima metà dell’ottocento. Insegnante di Lettere nel Real Liceo di Bari, nel 1848 simpatizza con il Comitato liberale che auspica un’evoluzione della monarchia borbonica.
Consapevole della possibilità di trasformare il suo paese, ipotizza la nascita di un ‘Giornale Scientifico Letterario Commerciale ed Industriale’ da intendere come una sintesi tra la ‘voglia di fare’ dei baresi e le scienze o tutte le arti moderne.
Vi sono pertanto spazi critici per ri-considerare l’opera di questo letterato dell’ottocento, figlio della piccola borghesia cittadina, e sensibile artista interprete dell’anima popolare locale. Ed è la poesia il punto più alto della sua opera. In molte liriche Abbrescia dà espressioni intense alle tradizioni cittadine tra antica religiosità e nuovi costumi.
Raccontati con la lingua locale, i temi delle sue poesie sono dedicati all’ amore tra i giovani, al contrasto vita/morte, alla corruzione delle abitudini locali. Al centro dei suoi racconti, in versi vivaci e satirici, rimane la città di Bari: una città che comincia la propria ricerca dell’ idea di nazione; come nella poesia patriottica ‘La uascezze’ ( ‘Allegria’). In questa ballata il popolo abbraccia i nobili, i ricchi borghesi vanno a braccetto con i poverelli (poverijdde), il re borbone trionfa su tutti; ma, mentre una mescolanza di sentimenti cristiani si diffonde nelle strade, la bandiera tricolore si leva alta su tutti e tutto ( ‘… la pannera benedette/ senza uerre, senza sanghe/ tene un verd’ u rus’ u bianche ’- “la bandiera benedetta/senza guerre, senza sangue/tiene il verde il rosso il bianco.”)
‘La uascezze’ è scritta in riferimento con gli eventi del 1848, per i quali il poeta barese subisce un successivo processo politico. Di certo, per una collettività senza “ nemisce e tradeture” ( “nemici e traditori”), il poeta/prete si è esposto; egli ha auspicato una comunità pacificata; con ingenuità intellettuale ha intravisto un regno costituzionale e una società inter-classista.
Con un vernacolo fresco e ironico, la sua poesia sembra agganciarsi al lavoro letterario delle avanguardie borghesi nazionali della prima metà del diciannovesimo secolo.
Oggi le sue poesie patriottiche meritano di essere ri-lette. E sono all’altezza di un significativo inserimento critico nei libri dedicati alla poesia romantica/risorgimentale.
Questo poeta/prete non disgiunge i suoi versi dalla necessità di raccontare il popolo, le tradizioni religiose di una città, e le illusioni politiche di un periodo storico italiano. Inoltre, nella poesia ‘A le puète’ ( ‘Ai poeti’ ), egli chiarisce che non intende il suo poetare en passant, cioè vanitoso e lieve. Al contrario, Abbrescia conosce l’arte della parola come la sua gatta, da maltrattare pure, da tenere sempre all’erta, da non adulare, per scongiurare, in tal maniera, che la gatta/poesia, si ingrassi, si ingrassi.., e poi esploda, “ Vu tenìte la Muse e ì la gatte, / e de fame la fazze ndesecà…” ( “Voi avete la Musa ed io la gatta, / e di fame la faccio star male…”).