Si entra subito in un’atmosfera che sa di miracolo. Là ove la fantasia poetica giunge a cogliere il magico incanto di una materia corporale che si trasmuta in altro attraverso un atto visionario. Per la prima vota uno scrittore riesce a penetrare i versi di Ovidio e a coglierne l’influenza esercitata sulla musica dal Rinascimento al Duemila. Una straordinaria connessione che illumina quel ponte teso fra l’umano e il divino nel prodigio dell’eterna mutazione e nel pathos del mito, che diviene andamento ritmico e osservazione psicologica dell’esistenza. È il merito che va ascritto a Paolo Isotta, musicologo, scrittore di estrema raffinatezza. E al suo saggio La Dotta Lira. Ovidio e la musica edito da Marsilio (pp. 426, euro 22).
Delle opere del grande poeta di Sulmona, dagli amores alle Heroides e all’Ars Amatoria, Isotta analizza la produzione di maggiore impegno filosofico e virtuosismo lirico, vale a dire i Metamorphoseon libri, ovvero Le Metamorfosi poema mitologico scritto in esametri, un dizionario enciclopedico in quindici libri dove vengono raccolte tutte le vicende di trasformazione offerte dalla tradizione. L’influenza del capolavoro ovidiano è riscontrabile nella poesia non solo dei secoli successivi a lui vicini, bensì fino ai giorni nostri.
Due millenni di costante confronto per chi guardò a lui come un modello inesausto dalla Tebaide di Stazio alle Dionisiache di Nonno di Panopoli, greco d’Egitto del V secolo. Per continuare con Dante, Petrarca, Poliziano, Ariosto, D’Annunzio fino ai contemporanei Giuseppe Conte e Roberto Mussapi.
Per non tacere l’impronta di Ovidio nell’arte figurativa, citando i maggiori quali Pollaiolo, Raffaello, Tiziano, Caravaggio, Annibale Carracci, Bernini. Con il volume di Isotta si svela finalmente il rendiconto tra il Sulmonese e la musica. Il titolo del saggio nasce dai versi con i quali Ovidio parla di sé apparendo agli spettatori nel prologo della prima opera lirica della storia, la Dafne scritta nel 1598 da Ottavio Rinuccini e musicata da Jacopo Peri. E da un carme di Leopardi, che celebra nell’Ultimo Canto di Saffo la quindicesima epistola delle Eroidi di Ovidio.
Il trattato di Isotta è diviso in otto capitoli, i primi due di impronta storica, i successivi con scelta a tema. Gli autori approfonditi sono in particolare Monteverdi, Charpentier, Cherubini, Mercadante, Scarlatti, Bach, Handel, Haydn, Gluck, Offenbach, Berlioz, fino al Novecento e al Duemila con Stravinskij, Strauss, Bartok, Krenek, Milhaud, Malipiero, Savinio, Birtwistle, Scappucci. L’autore confessa di aver iniziato a pensare quarantatré anni fa a un saggio su Ovidio e la musica. Un concepimento lunghissimo, quasi ossessivo, incominciato nel luglio del 1975, quando al Nationaltheater di Monaco assistette alla Daphne di Strass sotto la direzione di Sawallisch. E poi conclusosi ora in otto mesi di indefessa scrittura poiché, seguendo le osservazioni di Verdi, “un’opera d’arte dev’essere rapidamente realizzata affinché lo stile ne sia omogeno”. Andata in scena per llla prima volta a Dresda nel 1938, alla vigilia del secondo conflitto mondiale, nel frontespizio del libretto la Daphne di Strauss viene descritta come un dramma bucolico derivato da Ovidio, ideato in un atto solo. Il librettista avrebbe dovuto essere Stefan Zweig, al quale venne però impedito dai nazisti di firmare il testo, perché di origine ebraica. Strauss descrive simbolicamente e allegoricamente un mondo arcadico di pace e bellezza, sul quale si catapulta Apollo, innamorato di Dafne, che giunge a far eliminare il rivale Leucippo con brutalità.
Così il mito di Ovidio si sposa con la violenza di Hitler. Apollo chiede a Giove di trasformare la disperata fanciulla nella pianta di alloro. S’assiste al disgregarsi della protagonista, ormai irrigidita, e alla sua trasformazione in voce pura, eco sempre più lontana.
*Da Il Corriere della Sera del 17.12.2018