Il genere dell’ ”autobiografia attraverso gli incontri” è diventato stucchevole e vieto. È ormai il pretesto col quale giornalisti, o scrittori che fanno i giornalisti, mettono insieme una catasta di articoli fingendo che diventino un libro; oggi la gran parte della cosiddetta “saggistica” è fatta così, ed è la parallela della narrativa basata sulle storielline autobiografiche da tinellino. Per un vero libro fatto di tante tessere staccate ci vuole uno scrittore geniale. Ecco perché è bello e intenso, pur nella massima concisione (solo 98 pagine), questo Il borghese di Vittorio Feltri (Mondadori, euro 17). Il titolo ha un’eco longanesiana; nulla potrebbe esser più lontano dagli eccessi, a volte di genio, a volte di consapevole ciarlatano, dello scrittore romagnolo: la narrazione di Feltri ha un tono di sermo cotidianus, una semplicità, una naturalezza, e anche un’eleganza, che affascinano insieme col sapore di verità.
Tra pochi mesi Feltri e io festeggeremo quarant’anni di amicizia del cuore; molte delle parti narrate (e anche alcune elegantemente omesse, perché tornano a suo onore professionale e umano) le ho viste da vicino, taluna addirittura convissuta. Ci siamo anche dipinti a vicenda in altri nostri libri. Ma le cose più toccanti della sua vita le apprendo leggendo Il borghese. La sua infanzia bergamasca poverissima; la – necessaria – laboriosità infantile: consegnava le bottiglie del latte a domicilio, poi portava in Lambretta le bombole del gas arrampicandosi fino ai quinti piani; indi ha fatto il vetrinista. Ma c’era in lui un desiderio di conoscenza, diciamo di cultura, se il vocabolo non fosse oggi sospetto e inquinato, che non si poteva reprimere. Andava in biblioteca e cercava d’istruirsi a casaccio; lì incontrò la meravigliosa figura di monsignor Meli, uno di quei preti colti come cinquant’anni fa ancora esistevano, che colse le sue qualità, gli si affezionò e si assunse l’incarico di guidarne l’istruzione. I racconti della vita giornalistica di Vittorio sono interessanti e veridici; sarebbe bene venissero letti da chi ha meno di trent’anni, giacché mostrano una realtà del tutto scomparsa, fatta di fatica e inseguimento della vita reale: la parte più bella del giornalismo era la cronaca… Ma ci sono cose più preziose: che mostrano la forte umanità di Feltri, la sua carica affettiva: e parlare di se stessi così bene, scendendo in profondo, è dato a pochi. A ventidue anni egli perse la moglie Maria Luisa, che non resse il primo parto. La descrizione della spoglia esanime, e poi dell’incubo ricorrente nei decenni, egli che guida la Cinquecento, lei, vista nello specchietto, che gli corre dietro, e lui non riesce a frenare l’auto in corsa, e l’immagine di lei che si allontana sempre di più, fino a sparire: è una pagina di alta letteratura.
Gli incontri sono solo alcuni pochi fra quelli avuti da Feltri in settantacinque anni. I celebri giornalisti sono raccontati con rispetto ma anche con un senso critico che mi trova quasi sempre concorde. Emergono la scarsa cultura di Enzo Biagi, il cattivo carattere di Bocca, la signorilità di Montanelli; ed è un gioiello quello di Oriana Fallaci, della quale non si dovrebbero mai dimenticare il dispotismo, la mancanza di rispetto per l’interlocutore, un’egolatria largamente sconfinante nel ridicolo. I politici sono tratteggiati a punta secca, e sempre con un’inaspettata simpatia: Andreotti, De Mita, Fanfani. Il ritratto di Craxi dovrebb’essere poi fonte di riflessione per molti. Secondo me è stato l’ultimo grande statista italiano, e ingiustamente perseguitato; so bene che questa opinione è difforme dalla linea del “Fatto Quotidiano”, ma so altrettanto bene che il “Fatto Quotidiano” ha per insegna la libertà concessa ai suoi collaboratori.
*Da Il Fatto Quotidiano del 14.10.2018