Era il settembre 1971 e nella sala convegni di un grande albergo di Montesilvano, in provincia di Pescara, si svolgeva il primo corso nazionale per dirigenti politici del neonato Fronte della Gioventù, alla presenza dei principali esponenti della classe dirigente missina. Uno dei delegati in un intervento perorò la causa dell’abolizione del servizio militare di leva, già allora cavallo di battaglia della destra giovanile. Subito dopo, il generale Giovanni De Lorenzo, già ufficiale impegnato nella Resistenza, già a capo del Sifar, già comandante dei Carabinieri e capo di Stato Maggiore della Difesa, poi deputato monarchico transitato nelle file del Msi, si sentì in dovere di fare una rettifica, ribadendo il valore morale e militare della coscrizione obbligatoria. E l’abolizione della leva non entrò nel programma del Movimento Sociale.
A distanza quasi mezzo secolo, la questione del servizio militare continua a rimanere aperta nel mondo della destra, come dimostrano le posizioni discordanti suscitate dalla proposta di Salvini e la loro eco anche su questa rivista. Sospesa, non abolita da un governo di centro-destra (per abolirla sarebbe stata necessaria una riforma della Costituzione, che la definisce un “sacro dovere”) la coscrizione obbligatoria torna a dividere il mondo politico. Una parte della sinistra vorrebbe sostituirla con un servizio civile di incerta utilità, una via di mezzo fra un campeggio per giovani marmotte di ambo i sessi e un modo per distribuire ai ventenni una paghetta in cambio di lavori più o meno socialmente utili e di qualche lezione di educazione civica in salsa buonista. Una parte della destra è fedele al mito di un esercito professionale, maturato negli anni ’60 magari dopo qualche lettura dei Centurioni di Lartéguy; un’altra crede nel ripristino della leva come momento educativo per le giovani generazioni. È questa la tesi di Matteo Salvini, che ha avuto il torto, a giudizio di chi scrive, di avanzare una proposta interessante con una forma infelice.
Il servizio di leva ha goduto di un sostanziale consenso sociale fino agli anni ’60, specie nelle classi popolari e nelle campagne, dove si organizzavano le cene dei coscritti e per chi era riformato era pronto l’antico sfottò secondo cui “chi non è buono per il Re non è buono nemmeno per la Regina”. Lo stesso Togliatti, che non era uno stupido, ebbe la saggezza di non attaccare, sia pure dopo una guerra persa, l’Esercito e gli ufficiali, replicando l’errore dei massimalisti del biennio rosso, che aveva contribuito alle fortune del fascismo. Fu la controcultura della contestazione a metterlo in crisi, con la saldatura fra l’antimilitarismo clerico-marxista, il libertarismo sessantottino e l’edonismo di babyboomers cresciuti negli anni del miracolo economico. Il “mammismo” degli anni ’80, che condusse anche al suicidio di un ufficiale contestato per avere imposto ai suoi soldati una disciplina troppo rigorosa, fece il resto. Quando fu sospeso, il servizio di leva, grazie a una legge molto elastica in materia di obiezione di coscienza, aveva di fatto perso la sua obbligatorietà a favore del servizio civile, per cui optavano, spesso per opportunismo, soprattutto i giovani della borghesia.
Dire che qualche mese di militare servirà a insegnare l’educazione – un tempo si sarebbe detto “raddrizzare la schiena” – a ragazzi viziati è senz’altro una gaffe. Sussistono però nell’attuale modello di difesa alcune criticità che non sarebbe corretto sottovalutare. Un esercito unicamente professionale costa molto, perché deve fornire incentivi economici interessanti per attirare volontari, anche fra i militari di truppa: oggi un volontario a ferma breve ha un potere d’acquisto maggiore di un professore fuori sede. Ha una scarsa autonomia logistica, perché, costando troppo i mercenari, molti servizi vengono appaltati a ditte esterne, con evidenti problematiche di sicurezza. È soggetto a un invecchiamento precoce delle truppe: a un cinquantenne non si possono richiedere la prontezza di riflessi e gli sforzi fisici di un ventenne. Non manca nemmeno il rischio che la speranza di una paga sicura e per i tempi allettante avvii agli uffici reclutamento giovani con motivazioni più alimentari che vocazionali.
Una leva della durata di sei mesi o addirittura meno, come quella da molti proposta, non risolverebbe questi problemi, anzi costituirebbe un pesante aggravio di costi per il bilancio della Difesa: i coscritti verrebbero congedati proprio quando cominciano a rendersi utili dopo l’addestramento. Una ferma annuale potrebbe presentare invece molti vantaggi: dopo avere ricevuto un’istruzione di base, i coscritti potrebbero scegliere se essere inseriti in reparti operativi e addirittura in missioni all’estero, in vista anche di un’eventuale rafferma, o essere adibiti a servizi di supporto: dalla guida degli automezzi alle guardie alle caserme, dalla sussistenza al presidio del territorio. In questo modo sarebbe possibile selezionare meglio i futuri militari di carriera – un anno di vita in comune permette di accertare l’attitudine militare e la salute psichica più di tanti test “Minnesota” – e di alleggerire il bilancio della Difesa di troppi oneri, compresi quelli di vigilanza alle caserme, talora delegati a vigili giurati. È noto del resto che in un esercito moderno per un militare ipertecnologizzato che opera al fronte ve ne sono almeno sei che assicurano i servizi di base e che non hanno bisogno di essere stati istruiti nell’impiego dei più moderni sistemi d’arma. I giovani usciti dal servizio di leva se avessero servito “con fedeltà e onore” potrebbero avere un canale privilegiato per l’accesso ai ruoli delle Forze dell’Ordine o anche per i concorsi nel pubblico impiego. Ma soprattutto potrebbero fornire gli effettivi di una “guardia nazionale” richiamabile, sul modello statunitense, in caso di necessità.
Parallelamente i giovani che avessero optato per il servizio civile dovrebbero essere utilizzati in attività di un impegno psicofisico almeno pari a quello richiesto a chi serve sotto le armi, come il servizio nei vigili del fuoco, nella protezione civile, negli ospedali, nelle case di cura. Non ha senso continuare a utilizzarli come bibliotecari, impiegati comunali o magari sciacquini nel bar di qualche casa del Popolo. Per gli uni e per gli altri dovrebbe essere prevista una retribuzione un po’ superiore alla vecchia “decade”, ma inferiore a quella di un volontario a ferma breve.
Un discorso a parte merita l’aspetto morale della questione. I giovani di oggi non sono dei rammolliti scansafatiche, come dimostra il fatto che molti di loro sono disposti a lavorare per paghe aleatorie in attività precarie e faticose. Resta il fatto che la crisi dell’istituto familiare e del sistema educativo, per tacere di una certa subcultura dello “sballo”, li rende spesso refrattari a un rigoroso rispetto degli impegni, favorendo in molti lo sviluppo di una visione edonistica ed egocentrica dell’esistenza. Fare il soldato significa imparare che non si mangia quello che si è chiesto di preparare alla mamma, ma quello che c’è, che la sera non si tira tardi perché la mattina bisogna alzarsi in tempo per fare il “cubo” e mettersi sull’attenti per l’adunata, che quando si vive in comunità occorre anche tenere puliti i cessi, che ci sono momenti in cui bisogna staccare il cellulare, che quando si è di guardia bisogna rimanere fermi sotto un sole cocente o sotto la neve, perché la consegna è più importante di tutto.
D’altra parte, una parziale reintroduzione del servizio di leva, in una sorta di sistema misto analogo a quello ipotizzato già negli anni ’80, potrebbe avere effetti benefici anche sui militari di carriera. Le forze armate quali sono oggi assomigliano sempre di più all’esercito della via Pal, in cui tutti sono graduati e non c’è nessun soldato semplice, a parte il povero Nemecek, che poi muore. Sembrano a volte un istituto chiuso in se stesso, efficiente, ma poco desideroso di svolgere un’azione educativa sulle giovani generazioni, come dimostrano le tiepide reazioni alla proposta di Salvini. È un atteggiamento comprensibile: una cosa è avere a che fare con volontari che desiderano essere raffermati, altro con giovani con tutte le problematicità dei ragazzi di oggi. Per lo stesso motivo, sarebbero pochi i professori che fra insegnare in una scuola in cui gli studenti entrano previa una selezione preventiva e in un istituto in cui possono, anzi debbono inscriversi tutti, sceglierebbero la seconda possibilità. È corretto osservare, però, che, vista la possibilità comunque di optare per il servizio civile, i giovani che svolgono il servizio di leva sarebbero assai più motivati che in passato.
Il ripristino della leva, che per altro, vista la possibilità di optare per il servizio militare, coinvolgerebbe al massimo centomila giovani l’anno, potrebbe non solo impedire l’abbandono delle caserme, oggi condannate al degrado o alla speculazione, ma favorire una migliore integrazione fra società civile e società militare. Senza contare che anche il semplice ripristino della visita di leva, sconsideratamente soppressa nel 2005, tornerebbe a fornire alla scienza medica una documentazione preziosa sulle condizioni sanitarie degli italiani, a fini anche ma non solo statistici.
Un’ultima considerazione: non c’è bisogno di aver letto Oswald Spengler per capire che l’Europa odierna assomiglia molto all’Impero Romano d’Occidente minacciato dalle invasioni barbariche. Le cause della caduta di quest’ultimo furono molte – economiche, politiche, morali – ma una senz’altro è evidente: la sostituzione dell’antico modello militare, fondato su una classe di cittadini soldati che abbandonava l’aratro per la spada, con il ricorso a mercenari, in molti casi stranieri. Qualcosa di simile accadde nell’Italia del tardo Medioevo e del Rinascimento. Può piacere o non piacere, ma i popoli in cui le donne non hanno più voglia di fare figli e gli uomini di fare il soldato sono destinati alla decadenza. Come diceva Plutarco quasi duemila anni fa, se un popolo non è disposto a portare le proprie armi, finirà per portare quelle altrui.