Non c’è Tregua per Giampiero Solari, regista della commedia di Aristofane “I Cavalieri” che ieri sera ha debuttato (repliche fino all’8 luglio) al Teatro Greco di Siracusa. Nessuna fanciulla ancheggiante dai suoi auspicabili trent’anni si fa palpeggiare da Demo (il rappresentante del popolo), perché nell’idea di Solari la pace è da escludersi. E non è la sola ellissi del testo aristofaneo: mancano le battute sui tragici (ancora Euripide è il bersaglio di Aristofane) e quelle dirette al pubblico. Eppure come nella migliore tradizione comica la quarta parete è abbattuta. Il popolo è il pubblico ed è in scena, e il metateatro è collocato nel finale affidato a Demo (interpretato da un magnifico Antonio Catania) che rivendica al teatro comico, ”arte esile e facilmente esposta a giudizi affrettati”, e ad Aristofane la testimonianza concreta e libera della realtà, con l’augurio che la festa di Dioniso Leneo faccia uscire il pubblico dal teatro baciato dalle riflessioni e dal buonumore.
Si riflette e si ride in “I Cavalieri”, la commedia che nel drammatico 424 a.C. (l’anno dell’elezione a stratega di Cleone, reduce dalla battaglia di Sfacteria in cui prese prigionieri quasi trecento Spartiati) fece vincere ad Aristofane il primo premio alle Lenee e che ieri sera ha vinto un’altra sfida, premiata dagli applausi: non cadere nella trappola, in nessun punto della messinscena, della banalità degli eccessi della mimica e del linguaggio o della ostinata spettacolarità, in cui spesso scivola la rappresentazione delle commedie.
Solari ha regalato alla commedia il dono del garbo, dell’allegria e del dubbio, memore di quanto Luciano Canfora, consulente storico-filologico del 54° festival del teatro greco di Siracusa, sostiene, che i classici sono utili perché non consolano. E così tra molte risate e un magistrale gioco sul linguaggio si mette in scena un altro potere che esce di scena, come nelle tragedie. Se in “Eracle” l’uscita dell’eroe era nell’abbraccio dell’amicizia consolatoria, se in “Edipo a Colono” il vecchio cieco veniva risucchiato dalla Natura, qui Paflagone (l’interpretazione di Gigio Alberti è di forte impatto soprattutto per la voce ferma e rabbiosa ) esce di scena a sinistra, si immerge nel buio oltre l’orchestra accompagnato dalla tromba del silenzio militare. Ma un altro potere avanza ed è qui il senso del testo di Aristofane: la scelta del capo. “Petti di pollo e responsi di Apollo”: il divertissement lessicale fa la sostanza della scelta. Gli dei suscitano scorregge e sono strumenti nelle mani di lestofanti adulatori come Paflagone (dietro cui è Cleone, l’odiato Cleone) che finiscono per essere defraudati dello stesso potere che hanno conquistato. Arriva il salsicciaio. Arriva così, per caso: si materializza sulla scena del potere nella totale arbitrarietà della fortuna e se lo prende, il potere perché lui che sa di carne (dalla giacca penzolano le sue salsicce) può riempire la pancia del popolo “Il Primo Ministro è chi riempie la pancia del popolo”. Francesco Pannofino è un salsicciaio sempre nella parte: grottesco, gradasso, volgare. Demo è voltagabbana e cinico.
Un bel ritratto dell’Atene del V secolo? No, un bel ritratto dell’Italia degli ultimi anni, quelli dal liberalismo al populismo, dal cavaliere (Catania si lascia scappare per un breve tratto un accento berlusconiano di tutto rispetto) a Salvini (Demo a un certo punto si strappa la giacca da circense e mostra una maglietta con la sua faccia) ai Cinque Stelle ( i cavalieri e il popolo gridano “Onestà, onestà!” battendo tirsi non più sacri). La commedia di Solari riesce a raccontare questo tempo senza retorica buonista, senza partigianerie anzi mette tutti dentro questo grande circo mediatico che è la politica e la percezione della politica, un grande reality finito in un ributtante Masterchef e in un avvilente quiz “Ce l’ho, ce l’ho, ce l’ho!”. Il circo è la metafora della commedia di Solari. Il circo è nella tromba del corifeo Roy Paci che riempie la cavea delle note di tutta la sua musica.
Ritmi ska, mambo, valzer e tango si trasferiscono dalle labbra del musicista ai corpi del coro. Le coreografie di Lara Guidetti sono belle come impeccabile è il coro coordinato da Simonetta Cartia e formato dagli allievi dell’Accademia del Dramma antico. Un coro, che come nelle tragedie, ha dominato la scena per la perfezione dei movimenti e delle voci. Il coro di “I Cavalieri” nell’adattamento drammaturgico di Riccardo Favaro e Pablo Solari è muto, nascosto dietro enormi maschere che ricordano i cartoni animati e i fumetti (Betty Boop e i Griffin) e i personaggi della famiglia Addams, e infilati dentro costumi simili a quelli di Gelsomina di Federico Fellini o della “La notte dei morti viventi” di George A. Romero. Sono teste enormi e vuote, sono corpi tutti stomaco i cavalieri che congiurano e il popolo che plaude.
Originali i costumi di Daniela Cernigliaro e il gioco di luci (colorate, sfavillanti) di Angelo Linzalata che fanno ridondanza laddove la scelta della scenografia è spogliare lo spazio, il contesto. Linzalata, che cura anche la scenografia, ha evocato Atene mettendo oltre le siepi che delimitano l’orchestra alberi che sembrano ulivi, un po’ spelacchiati (allusione?). E’ una commedia che sottrae al testo e aggiunge alla scena e forse a questo si riferiva Solari quando dice che Aristofane -in questa commedia pare che l’autore abbia recitato nel ruolo di Paflagone costruendosi la maschera- gioca a trasgredire la commedia: anche Solari ha trasgredito rispetto al testo (non solo le citazioni tragiche ma anche eliminando gli interventi del coro e riducendo quelli del corifeo),e ha trasgredito anche nel linguaggio che evita il forte turpiloquio del testo di Aristofane. La traduzione di Olimpia Imperio gioca sui vari registri del testo di Aristofane, compreso quello della tradizione giambica, violentemente allusivo e sconcio, con un effetto di osmosi lessicale tra antico e contemporaneo, favorito dalle sottigliezze della lingua greca: una traduzione rispettosa del testo persino nel gioco delle sticomitie, delle battute dello spazio di una frase. Solari trasgredisce contaminando il teatro comico con la televisione e con il cabaret ma lo fa con maestria, perché fa della televisione a teatro la metafora della politica a teatro.
Se pecca c’è stata è nell’uso degli attori, tutti bravissimi (generosa anche la prova di Roy Paci soprattutto nelle liberatorie battute in siciliano) ma troppo chiusi nella loro identità attoriale. Persino i due servi Giovanni Esposito e Sergio Mancinelli, che hanno comunque saputo essere la coppia e la macchina comica della commedia.
Alla fine gli applausi divertiti del pubblico (il teatro non era pieno, segno che la commedia è ancora e a torto considerata un genere minore) hanno suggellato il debutto di questo pregevole lavoro di Solari, che ha lasciato nella sera di Siracusa l’eco delle risate e una riflessione, la sua “Solo il teatro permette di rappresentare il mutismo e la volgarità, quindi fa quello che dovrebbe fare il popolo”.