Kamikaze è termine inflazionato. Dopo l’attentato alle Torri Gemelle è diventata parola passe-partout: i mezzi di comunicazione di massa l’utilizzano riferendosi al terrorismo islamista dei tagliagole dell’Isis. La confusione è il risultato dell’uso improprio del termine, iniziato nel lontano 1968, quando Alberto Moravia, su “L’Espresso”, nel riferirsi ai conflitti razziali che dilaniavano la società statunitense, definì gli elementi più radicali del movimento nero, kamikaze, capaci di accettare il proprio sacrificio se funzionale all’eliminazione dei bianchi. Oriana Fallaci, nel settembre del 2001, dalle pagine del Corriere della Sera, rievocò le gesta dei piloti giapponesi durante il Secondo Conflitto legandole a quelle degli attentatori di New York. Da quel momento la confusione terminologica è divenuta definitiva. Fortunatamente, un giovane studioso, Daniele Dell’Orco, scrittore ed editore, ha recentemente cercato di fare chiarezza in tema. Al riguardo, si leggano le pagine del suo, Non chiamateli Kamikaze. Dai cavalieri del Vento Divino ai tagliagole dell’Isis, pubblicato dalla Giubilei Regnani (per ordini: info@giubileiregani.com, euro 22).
Fin dalla Prefazione, che si deve a Matteo Carnieletto, si comprende la distanza abissale che separa il mondo dei Kamikaze da quello dei terroristi dell’Isis e affini. Nei primi, la ricerca della morte è atto conclusivo di una articolata visione del mondo, per i secondi, il ricorso agli uomini-bomba è soltanto strumentale: “Si tratta, insomma, di pura tecnica militare” (p. 7). Durante la Seconda guerra mondiale, in Giappone i piloti suicidi facevano parte del “Corpo d’Attacco Speciale”, che i soldati dell’Esercito del Sol Levante chiamavano “Unione delle forze coraggiose”. Essi rappresentavano l’alternativa esistenziale e spirituale più radicale nei confronti dell’idea di uomo venuta a prevalere nel mondo occidentale, a causa dell’egemonia degli Usa. Mentre: “Nell’ottica americana qualsiasi cosa nella vita si riduce infine a un freddo rapporto tra costi e benefici; nei precetti dei samurai […] qualsiasi primato della materia sullo spirito era disprezzabile” (p. 13). Il Bushidō ha insegnato per secoli ai Giapponesi a battersi fino all’esaurimento delle forze spirituali e fisiche. Per questo, in modo accorto, Dell’Orco cita Montaigne: gli occidentali contemporanei interpretano quale forma di barbarie, il sacrificio messo in atto dagli uomini del “Vento Divino”, perché deprivati degli strumenti culturali per interpretare l’humus della civiltà nipponica, alternativa alla civilizzazione (in senso spengleriano), da loro prodotta.
Il libro è costituito di tre parti. La prima, sicuramente la più rilevante ed originale, presenta l’ esegesi degli aspetti più significativi della cultura giapponese, mirata a far comprendere come il samurai-kamikaze rappresenti il momento apicale di tale mondo. Le restanti parti, analizzano la nascita e l’evoluzione dei guerrieri suicidi islamici, e svolgono la cronaca del terrore che ha accompagnato la storia dell’Isis. La storia del Giappone che l’autore presenta, prende le mosse dalla restaurazione imperiale Meiji, attuata da Matsuhito riaffermando il rispetto delle gerarchie, il culto degli avi e la fede nei confronti dell’istituto familiare. Grazie a tali scelte, il Giappone, anche nei secoli successivi, pur aprendosi allo straniero, fece della Tradizione il proprio inattaccabile tabernacolo interiore. La modernizzazione intaccò la scorza esteriore dell’antica civiltà, ma lo spirito eterno del popolo, come rilevò Motoori Norinaga, erudito della scuola Kokugaku del periodo Edo, rimase sempre: “simile al fiore di ciliegio ai primi raggi di sole del mattino. Puro, chiaro, carico di profumo” (p. 23). Quindi, mentre sembrava che il paese del Sol Levante stesse per occidentalizzarsi, in realtà era in procinto di samuraizzarsi.
Si entrò nell’era Shōwa, corrispondente al regno di Hirohito, iniziato nel 1926, permeato, in ogni sua manifestazione dallo “spirito nazionale”. I soldati, con la ripresa degli insegnamenti buddhisti, vennero santificati sotto forma di kami, figure semi-divine incaricate di proteggere l’Imperatore. Ci furono i trentatre mesi del primo ministro Hirokei Tōjō, considerato impropriamente la massima espressione del “fascismo” nipponico ma, soprattutto, ci fu la ripresa degli insegnamenti tradizionali, centrati sul trarre godimento dalle piccole cose della vita, ma anche dall’apprendere la possibile rinuncia ad essi nel rispetto del dovere. E’ qui che Dell’Orco sviluppa la parte più rilevante del libro, nel presentare la lezione di Sen no Rikyū, maestro della Cerimonia del Tè, o nel descrivere rituali quali quello dell’impiattamento, che abituano a godere dell’estetica del cibo. Egli ricorda al lettore come il Giappone non si sia mai privato della libertà per antonomasia, quella di morire, attraverso il rigido rituale del seppuku “Chi teme la morte morrà sconfitto, chi la sfida vivrà vincitore. Nella Restaurazione Meiji venne perpetuata la tradizione del sacrificio” (p. 75). I piloti suicidi, come intese l’ammiraglio Ōnishi, si ritenevano già degli dei, non erano mossi da alcun desiderio del “basso”, animati com’erano dalla sicura fede “nella vita tramite la morte” (p. 192).
I kamikaze avevano una consapevolezza spirituale del mondo, testimoniata da Ōnishi, inventore dei Corpi d’Assalto speciali, che reagì alla resa del proprio paese facendo seppuku: “Vorrei che i giovani del Giappone trovassero una morale nella mia morte” (p. 201). Il 30 maggio 1972 all’aeroporto Ben Gurion in Israele, due attentatori morirono dilaniati dalle esplosioni. Il terzo era un giapponese membro dell’Armata Rossa, una formazione nipponica di estrema sinistra. Questo è l’unico elemento di continuità tra kamikaze e terrorismo islamico. Quest’ultimo troverà una propria diffusione soltanto con la rivoluzione iraniana: quando Khomeinī, conquistato il potere, spinse i mujaheddin in clandestinità, si ebbe la prima comparsa dei shuhadā, i moderni guerrieri sucidi. La loro progressione, discussa con dovizia di particolari dall’autore, va da al Qaeda all’Isis, ed è segnata da una lunga striscia di sangue.
La grande differenza che marca la distanza tra l’esperienza dei kamikaze e quella del terrorismo islamico, va individuata nel fatto che i primi interpretavano lo spirito dell’intero popolo giapponese, i secondi, al contrario, non sono in grado di mobilitare le masse musulmane per federarle in funzione anti occidentale, come vorrebbero. Inoltre, i piloti giapponesi erano militari, reclutati prevalentemente tra gli universitari, non bambini addestrati nei Campi-Paradiso. I shuhadā sono civili che colpiscono obiettivi civili. Il kamikaze combatteva una guerra perduta, rinunciava a priori alla speranza. Testimoniava, in tal modo, la sua adesione ad un’etica antiutilitarista, agiva senza badare al successo o all’insuccesso. Un modello antropologico antitetico all’uomo liquido e senza Tradizione dei nostri giorni.
*Non chiamateli Kamikaze. Dai cavalieri del Vento Divino ai tagliagole dell’Isis, di Daniele Dell’Orco(Giubilei Regnani, per ordini: info@giubileiregani.com, euro 22)