Questo saggio prende spunto da un recentissimo libro di Giovanni Damiano dal titolo: Sovvertire il tempo. Scritti su l’origine e il nuovo inizio (pubblicato dalle Edizioni di Ar di Padova nel 2017), del quale dunque non vuole essere una vera e propria recensione. Mi è parso molto interessante l’accostamento che in alcuni degli scritti che lo compongono viene fatto tra il pensiero di Michel Foucault e quello di un pensatore controverso come Alfred Baeumler, che invece andrebbe rivalutato e riabilitato, stando perlomeno a quanto Damiano sostiene sulla sua filosofia di ascendenza nietzschiana.
A parte questo, Sovvertire il tempo và letto per intero in quanto è un libro di estremo interesse per quel che riguarda le tematiche in esso esaminate. Complessivamente è un’opera pensata con penetrante intelligenza. Ben padroneggiata è la terminologia heideggeriana della quale il suo autore fa un abbondante ma giustificato uso. Ma io cercherò di essere il più possibile divulgativo, cercando di veicolare il suo profondo contenuto per mezzo di una terminologia più semplice, tale cioè da essere accessibile per il maggior numero di lettori (per quanto ciò sia possibile).
Del libro ho quindi preso particolarmente di mira solo alcune sue parti. Mi sono inoltre consentito di trarre da esso delle considerazioni, le quali credo non siano in contrasto con il contenuto complessivo della raccolta di scritti, ma sue implicite conseguenze, sperando inoltre di aver colto tale contenuto in modo perlomeno sufficientemente adeguato.
Il mio saggio si apre con l’analisi di Nietzsche, la genealogia, la storia, un breve scritto di Foucault, introduttivo della sua interpretazione di Nietzsche, esegesi corrispondente all’essenza del pensiero del filosofo francese.
Passo successivamente a trattare della filosofia di Baeumler.
Espongo quindi le mie vedute, le quali sono tuttavia in contrasto sia con quelle del pensatore francese che con quelle del pensatore tedesco che aderì al nazionalsocialismo.
Dalle mie critiche di carattere puramente teoretico conseguirà, almeno parte di una lunga ma molto generale digressione di carattere storico-politico (costituisce la parte più estesa del saggio), consistente quindi, in una certa misura, nelle conseguenze politiche del mio personale e prospettico modo di vedere le cose.
Stando a Foucault, Nietzsche intende per origine anche l’era primordiale della tradizione nella sua accezione più banale, che potrebbe su per giù corrispondere all’età aurea esiodea così come all’era dell’Eden (il mito greco e quello ebraico, del resto, si somigliano molto).
Tali età sono quantomeno caratterizzate da una natura accogliente, ovvero da un mondo a misura d’uomo, posto al suo servizio: le conoscenze di cui abbisogna sono ben poche in quanto è un mondo privo di imprevisti, di pericoli e di malattie (cose prodotte anche da ogni presunto progresso). Ma l’uomo è radicato in un mondo simile, non solo per via della sua amena condizione materiale d’esistenza. Anche le sue esigenze meno materialistiche sono sommamente soddisfatte: l’uomo delle origini è felice, ama disinteressatamente il suo prossimo e la sua anima è grande (perlomeno alcuni di tali aspetti, caratterizzano certamente l’epoca della ‘bella eticità’ hegeliana, ma forse non le due età suddette).
Tali caratteristiche positive – eccezion fatta forse per la felicità – sono proprie anche dell’uomo ‘umano’ (ovvero dell’uomo dotato di humanitas, dell’uomo non animalesco) aristotelico: tale uomo è peculiare, cioè differente da ogni altro (ha personalità) anche se mite e ha carattere, ossia positiva costanza comportamentale (per via della sua grande e accogliente anima). Non sarebbe egoista in quanto il suo corpo è separato e indipendente da ogni altro corpo. Sarebbe realmente, qualitativamente, differente dall’uomo animalesco in quanto quest’ultimo avrebbe un’anima solo per se stesso, badando solo a se stesso, essendo incurante, per il resto, di tutto e tutti.
Ebbene l’idea di humanitas che ho appena concluso di esporre è del tutto infondata dal punto di vista teoretico, per cui l’uomo che la propugna è un mentitore e, in fondo, un superficiale: Foucault ironizza su tale idea di tradizione o origine.
Per Aristotele non esisterebbe tuttavia un’età dell’oro: il mondo in origine è selvaggio e incontrollato. Sta all’uomo, alla sua conoscenza, la possibilità di mitigarlo, di addomesticarlo e di dominarlo. Aristotele sarebbe cioè un sostenitore del progresso. Del resto interpreta le filosofie dei suoi predecessori (compresa quella socratica) quali tentativi scientifici di cogliere l’essenza dell’intera realtà allo scopo di dominarla. E così, ad esempio, Talete, credendo (stando ad Aristotele) di aver individuato nell’acqua l’archè, avrebbe ritenuto che tutto sarebbe stato riconducibile a particelle elementari acquatiche (Anassimene, per fare un altro esempio, avrebbe ricondotto tutto a particelle aeree): allo stesso modo il materialismo moderno riduce tutte le cose ad aggregati di atomi.
Probabilmente il filosofo di Stagira considerò il suo allievo Alessandro Magno un apportatore di civiltà fra i barbari attraverso la sua opera di mondiale conquista. Ma le sue imprese guerresche erano giustificate anche dal fatto che i vari ‘barbaroi’ erano – e lo erano anche per lo stagirita – come animali: tanto che per Greci e Macedoni potevano essere ridotti in schiavitù, se catturati in battaglia (ma un po’ di premura doveva venir preservata anche agli schiavi, così come agli animali – questo era anche il parere di Aristotele).
Sebbene Foucault faccia riferimento a Platone per quel che riguarda il senso della filosofia classica, io continuerò invece a far riferimento ad Aristotele poiché – per vari motivi – mi è stato e mi sarà più agevole e congeniale discuterne. Inoltre, sebbene ciò che intendo per pensiero aristotelico potrebbe corrispondere alla sua deformazione da parte della peggiore scolastica, ciò non deve interessare: l’importante è fornire un esempio di ciò che Foucault intende per pensiero classico quale bersaglio da lui preso criticamente di mira.
Ebbene, la filosofia aristotelica è ingenuamente realistica: il mondo sensibile viene preso per reale. Tale realtà può venire conosciuta dall’uomo, sia immediatamente, sia attraverso le divine categorie che la ordinano. La coscienza dell’uomo non si limita a curarsi del solo presente, ma si estende sia al passato che al più lontano futuro. Infine la sua coscienza coinvolge, è rivolta, anche agli altri (nonché, dunque, ai posteri).
Il pensiero moderno è più annichilente rispetto al pensiero classico. Foucault ne parla in termini, per così dire, sintetici, riassuntivi, caratterizzandolo in tal modo: il mondo non è più concreto, ma rappresentativo. La conoscenza per i moderni non diviene però prospettica, poiché il Soggetto trascendentale (ovvero le soggettive categorie – che per Aristotele sono oggettive e reali – ovvero, in definitiva, la nozione di causa-effetto) consiste praticamente in qualcosa di oggettivo, essendo qualcosa di comunque universale. E Foucault associa il Soggetto dei moderni all’idea di utilitarismo etico, il che – ancora una volta – non è qualcosa di prospettico, ma di universale. A quest’ultimo infatti si connette l’idea che vi sia una biologia, come tale, comune ad ogni uomo: ogni uomo ‘ha paura della morte’, ovvero rifugge il dolore (la vita è per tutti autoconservazione). Infine, la filosofia moderna distrugge – come è ovvio poiché consequenziale all’utilitarismo – le nozioni moralistiche di grandezza e di disinteresse.
Finalmente, con Nietzsche, l’annichilimento di ogni universale è compiuto: sebbene Foucault non vi faccia riferimento nello scritto in esame, ritiene assai probabilmente che con Nietzsche si sia tornati al pensiero di Eraclito. L’efesino sarebbe stato un’antiuniversalista ante litteram. Eraclito, Dioniso e la nozione di ‘volontà di potenza’ in Nietzsche coinciderebbero.
La lacerazione diviene la nuova cifra del mondo, anche dell’uomo con se stesso (da cui la dionisiaca ebbrezza, che è un tenue patire, in luogo della gioia, che è invece pienamente felice).
Il conflitto, l’assenza di ogni conciliazione o pacificazione (la coscienza è solo sensibile o immediata), l’impossibilità di conoscere alcunché (anche perché il mondo è sogno), l’assenza di oggettività e universalità (da cui anche il caos in ambito scientifico), caratterizzerebbero la vita per Nietzsche.
La biologia stessa perde per Foucault di significato, se per essa si intende la ‘paura della morte’, ovvero l’istinto di conservazione. In luogo di essa vi sarebbero corpi sani e forti e corpi malati e deboli, entrambi – per giunta – faziosi o partigiani: sono solo i secondi a temere per la loro vita e ad aborrire ogni dolore (piccolo o grande che sia). Infine, ogni futuro, rispetto a un certo presente (ad un certo ‘qui ed ora’), risulta imprevedibile e dunque conoscitivamente non dominabile, indomabile. Cadute le categorie (e con esse la causalità nel senso più proprio), la singolarità (imprevedibile per definizione) fantasmagorica di tutto quanto si offre al mondo è tutto ciò che resta al mondo.
Tutto ciò che ho appena concluso di dire può venire dunque indicato dalla formula nietzschiana ‘volontà di potenza’.
La forza di un corpo non è data tanto dalla bruta possanza fisica, quanto piuttosto dalla sua salute psichica, ovvero dalla sua lucidità mentale. E così, per fare un esempio, un pezzo di musica dura e ritmata è snervante per il debole e inebriante per il forte: il primo, se vi si imbatte a sentirlo, ad esempio, in televisione, essendone infastidito, cambierà subito canale. Il patimento procurato ad entrambi dal brano musicale è identico (il dolore inteso come sensazione è oggettivo, ossa uguale, per intensità, per tutti). È la necessità di respingerlo a farne ‘dolore’: per l’uomo forte che lo afferma esso è gradevole (e proprio in quanto l’afferma, ascoltandolo piacevolmente).
I sentimenti stessi sarebbero espressione di debolezza psichica: la pietà naturale di cui parla Rousseau (la quale, fra l’altro, concerne per lo svizzero solo il presente e l’annessa facoltà della sensibilità) non è universale, ma è espressione di labilità nervosa, di nevrastenia (tipica dunque dell’uomo debole). Chi, dunque, non ne dispone, non sarebbe un essere perverso. Inoltre, non provare sentimenti, non corrisponde ad essere interiormente gelidi e indifferenti. L’uomo forte, in loro luogo, prova costantemente un senso d’ebbrezza che anima e vitalizza anche ogni suo piacevole momento conviviale (ossia di partecipata socialità).
Ebbene Foucault e Baeumler condividerebbero la visione filosofica da me esposta fino a questo momento. Soltanto che il primo patteggia per i deboli, il secondo sta invece dalla parte dei forti.
Veniamo dunque alle soluzioni politiche propugnate dal francese per fronteggiare i forti dominatori del mondo.
Se la coscienza di cui disponiamo si estende al solo presente (ed è connessa quindi alla facoltà dei sensi), come faremo ad incidere sul futuro?
L’uomo debole prova immediatamente antipatia per il forte. Ma prova antipatia anche per quei deboli che non sono in grado di modificare una situazione cosmica perennemente caratterizzata dalla dialettica tra oppressi e oppressori. Vuole faziosamente (e forse anche in buona fede) avere ragione di questi ultimi. Il suo efficace operato politico colpisce nell’immediato i suoi due avversari politici: i deboli politicamente inetti e i forti che lo opprimono (tale il verbo che Foucault utilizzerebbe per designare l’atteggiamento nei confronti dei loro sottoposti dei ‘signori’ in senso nietzschiano). Il suo vero scopo, non è dunque quello previdente di stare bene in futuro, ma è quello immediato di aver ragione di chi gli è antipatico e di chi odia. Ma tale suo operare modificherà in meglio il suo futuro, anche se a ciò non avrebbe in fondo aspirato.
Il rapporto oppressi-oppressori costituisce ciò che si può definire ‘crisi’. La conoscenza consente di rovesciare momentaneamente tale rapporto in modo tale che gli oppressi divengano i nuovi dominatori. Ma tale operato tecnico-conoscitivo non può che – contemporaneamente – innescare una serie di cause le cui conseguenze daranno necessariamente luogo ad una crisi futura, dunque necessariamente imprevedibile al presente: ogni situazione storica, ogni momento storico, sarebbe inaudito e singolare. E, sorta una nuova crisi, ‘il gioco’, per così dire, ricomincia daccapo.
Ho dunque appena concluso di esporre come i deboli – stando a Foucault – dovrebbero fare politica.
Veniamo dunque a Baeumler. Il tipo umano per cui simpatizza non sarebbe caratterizzato dalla ‘paura della morte’: non avrebbe cioè, in fondo, paura di nulla. E così, ad esempio, non agirebbe mai per conformismo, poiché non avrebbe timore del giudizio altrui. La moda (qualora se ne possa parlare) ci spinge ad assumere atteggiamenti che non corrispondono alla misura (di ciò che vogliamo in un determinato momento), sia per eccesso che per difetto. Un carcerato che è stato per lungo tempo in isolamento apprezza massimamente un’esperienza banale quale è quella di respirare all’aperto. Nel corso del suo momento d’aria non desidera altro che quest’ultima. Se quindi lo si obbligasse a fare un’esperienza più forte o intensa non ne godrebbe, avvertendola come troppo pesante o opprimente (sarebbe per lui mal sopportabile). Nella vita di ogni uomo c’è quindi un momento per il gioco, c’è un momento per l’amore, c’è un momento per la guerra, c’è addirittura – forse – un momento per la morte (magari per una morte eroica in battaglia). È il particolare stato d’animo che si ha di volta in volta a suggerirci la migliore cosa da dover fare (quella per noi più congeniale al momento). E non c’è scelta esistenziale che l’uomo forte non possa assumere, purché vi opti al momento giusto.
L’uomo forte si trova a suo agio calato nel contesto di una natura originaria, incontaminata, selvaggia, imprevedibile, di cui gode esteticamente (in senso lato). Non usa la conoscenza per vivere. La sua forza caratteriale non è quella mentitrice e auto-mistificatrice di tipo, ad esempio, aristotelico, consistendo invece nella sua costante assenza di paura. Ma l’uomo forte non è mai identico a se stesso (è molto peculiare: è sempre, marcatamente, diverso da ciò che era un istante prima).
Ma veniamo al significato del rito (questa è una mia riflessione che quantomeno non contrasta con i principi sostenuti da Baeumler), connesso all’antica unione tra Stato e individualità umana: tra il primo e la seconda anticamente non vi sarebbe stata contrapposizione alcuna.
Sebbene io ritenga che il rito non sia stato altro che scienza superstiziosa, in molti la pensano diversamente. Il rito avrebbe rappresentato un momento solenne in cui l’individuo si impegnava di fronte a tutti (d fronte allo Stato) a sacrificare se stesso quale essere caratterizzato dalla ‘paura della morte’: il sacrificio rituale dava luogo a un dio (al Sé autentico), ovvero ad un essere privo di ogni timore. Fallire il rito significava far trapelare le proprie cattive intenzioni di tradimento nei confronti dello Stato e nei confronti di se stesso (quale Sé, quale dio). Insomma, era una sorta di lapsus freudiano.
Ma anticamente tutto era atto rituale. E così, ad esempio, il contadino, nel suo lavorare, era impegnato a non alterare troppo la natura (ovvero, gli equilibri naturali), a lasciarla il più possibile intatta e incontaminata (la tecnica moderna impiegata in agricoltura fa tutt’altro).
Il guerriero, con le sue imprese vittoriose, procurava vantaggio al mercante (che poteva espandere i suoi mercati, estendere i suoi traffici), così come (per fare un altro esempio) al nullatenente che diveniva un colono. Questi lo ripagavano, lo contraccambiavano, aumentando i suoi beni: tale il mutualismo vigente nelle antiche società (tale la simbiosi vigente fra ogni componente dello Stato).
Veniamo dunque al mio modo di vedere le cose. Le premesse da cui parto sono quelle probabilmente estremamente lucide del nichilismo, poiché onnidistruttive, che tuttavia accolgo solo teoricamente. Si tratta di far piazza pulita di tutto, di ogni credenza. L’ingenuo realismo della realtà sensibile rivela come il mondo sia un’inesistente rappresentazione. Dio e le categorie non esisterebbero. In poche parole, non esisterebbe nulla.
Ritengo tuttavia assai poco probabile che possa verificarsi il miracolo della violazione del principio di causa-effetto: sebbene dunque quest’ultimo per me non esista, sarebbe come se esistesse. L’Io – in linea di principio dotato di assoluto libero arbitrio – deciderebbe allora di agire sempre in base ad un movente o ad un presupposto scientifico.
La vita senziente è tale da avvertire costantemente dolore (spesso anche molto tenue). È il dolore a trasmetterci il senso della realtà esterna, concreta, ovvero estranea all’Io.
Se pathos e rappresentazione non possono quindi che essere sempre e costantemente congiunti – essendo dunque uniti anche alla paura – vediamo in che modo la realtà possa venire de-realizzata.
L’uomo può guerreggiare, gareggiare in una competizione, può avere preoccupazioni conformistiche o esibirsi in modo vanesio per gli altri (per fare degli esempi): se fa tali cose provando il minimo di paura che si possa provare è un nichilista (e ogni sua azione, fra l’altro, gli riuscirà al meglio). E così, si può dare pochissimo peso al fatto di non avere lo stesso tipo di scarpe che hanno tutti gli altri, si può dare il minimo valore al fatto che in una nostra qualsiasi attività si possa riuscire o meno (ed è allora che le cose andranno per noi per il meglio).
Se non vigesse praticamente (ma non vige dunque per me teoricamente) la causalità, potremmo trattenere un nostro impulso conformistico quando, per così dire, ‘bussa alla porta’, potremmo trattenere la nostra voglia di esibirci, potremmo, di fronte al nemico, rimanere immobili e ricevere dolorosamente da quest’ultimo ogni suo atroce colpo, dimenandoci e urlando. Ebbene, la possibilità (mai fattuale, o meglio, mai effettuale) di poter scegliere se (in generale) agire o non agire (trattenendo un impulso di qualsiasi tipo), de-realizza interamente, completamente, il nostro essere in vita. È proprio in virtù di tale assoluto libero arbitrio che vita e morte, essere e nulla, coincidono pienamente: il mondo è per noi sogno. Il mondo è rappresentazione e lo è quindi nel vero senso della parola.
È quindi in virtù del grado di simulata, insincera, paura che proviamo liberamente nel compiere i nostri vari atti, che possiamo individuare tre principali tipologie umane (che possono oltretutto combinarsi tra loro in vari modi): l’egoista (finge di temere per se stesso), l’umanista (l’uomo ‘umano’, ossia l’uomo dotato di ‘humanitas’), che finge di temere anche per gli altri, il nichilista, che non teme né per sé, né per gli altri.
Ora, sebbene il credere nell’assoluto, illimitato, libero arbitrio umano possa addirittura sembrare un’idea delirante (Julius Evola afferma qualcosa del genere, anche se riterrebbe che esistano e siano sempre esistiti – sia pure in minoranza – dei puri e assoluti nichilisti) – ed è certamente un’idea da sostenere con ogni dovuta cautela – ritengo che vi siano buoni motivi per credervi. Per farla molto breve (non mi soffermerò a discutere dettagliatamente su tale problematica filosofica), ritengo personalmente che il provare paura – quando non si riduca a un grado minimo – ci derivi interamente da un’inculturazione ricevuta e impartita dall’esterno, che quindi in origine (cioè a partire da quando si nasce) non si offrirebbe ancora (in coloro che solo eventualmente, dunque, la riceveranno).
Del resto non sono il solo a credere che il dolore (ogni possibile dolore), in fondo, non esista: Lord Byron (ma potrei apportare anche altri esempi) la pensava così, anche se tale visione delle cose lo inquietava. Il più autentico materialismo (Hobbes) sostiene un po’ ciò che io sostengo: attribuisce al dolore carattere rappresentativo conferendo realtà unicamente alla res extensa e alle sue scientifiche leggi (cui l’uomo obbedirebbe quale – ad esempio – morto grave che obbedisce alla gravità – senza provare nulla, non avendo cioè, in realtà, un’interiorità).
Ammesso anche che l’uomo sia davvero cosciente solo al presente (dimensione temporale legata dunque alla sola sensibilità) e solo di se stesso, non può certamente avere coscienza sia del passato che del futuro (dimensioni legate invece al pensiero, ossia alla memoria e all’immaginazione) e, anche nelle anzidette dimensioni cronologiche, l’uomo non può avere consapevolezza (ossia curanza) né di se stesso, né degli altri.
Se infatti senso di colpa, rimorso, angoscia, noia (spleen), rimpianto, depressione, panico (per il futuro) ecc. sono certamente delle patologie, non possono – con assoluta certezza – rivelare qualcosa di reale: saranno stati d’animo, per così dire, erronei (che – come tali – non andrebbero mai provati, in quanto indubbiamente costituiscono dei disagi psichici, delle nevrosi, delle isterie).
Ma vi è anche una follia felice o piacevole: pascersi nel sentimento, piuttosto che compiacersi della propria ricca e singolare personalità (o altro ancora), sono gioie folli e istrioniche (poiché non hanno ragion d’essere – nulla infatti esiste), mere esaltazioni da tipi irrealistici o irrazionali, emotivi.
Ora, se nulla esiste, tutto ciò che appare avrà lo stesso grado ontologico (pari a nulla). Una conseguenza del nichilismo è dunque il relativismo: non esisterà più una norma (e una sorta di verità ad essa connessa) e quanto la contraddice (l’opinione, la falsa opinione), ma tutto sarà egualmente opinione, prospettiva. E non vi può essere un’opinione che sia migliore di un’altra, che sia preferibile rispetto a un’altra. Nichilismo e religione (in senso lato, cioè comprendente anche l’egoismo, oltre all’umanismo) si equivarranno perfettamente quali scelte esistenziali. Io, ad esempio, sto prevalentemente dalla parte dell’humanitas (sono, ad esempio, favorevole ai sentimenti e alla giustizia sociale): è bene che ognuno – qualsiasi cosa sia – affermi con forza la prospettiva che ha deciso – in fondo del tutto liberamente, gratuitamente – di incarnare, di assumere.
Ma veniamo alle critiche di quanto ho esposto in precedenza. Oggi, prevalentemente, in ambito filosofico, sia a destra che a sinistra, si sostiene la visione eraclitea suesposta (corrispondente, fra l’altro, ad una certa interpretazione del pensiero di Eraclito). Ma non è una visione, in fondo, religiosa (estremamente religiosa) delle cose? È come se si fosse un po’ tornati al pensiero di Paolo di Tarso, in cui all’intelligenza infinita e provvidenziale di Dio si contrapporrebbe l’infinita, l’assoluta, stupidità dell’uomo (la cui azione si restringe dunque al dover seguire la Legge, i comandamenti, e proprio in quanto frutto di divina rivelazione. Per il resto l’uomo non potrebbe nulla di buono attraverso le sue iniziative).
Mio intento è, al contrario, quello di recuperare una più audace visione magica, scientifica, delle cose. Ritengo che non si debba troppo e sempre temere per le conseguenze dell’attività scientifica, pur essendo fautore di uno sviluppo sostenibile. Faccio un esempio: se la catena di montaggio ha positivamente semplificato e reso meno faticoso il lavoro, il fatto che essa abbia anche impoverito la vita, non è poi un fatto così svantaggioso per l’uomo. Il dolore, infatti, si è detto, non esiste: una conseguenza di ciò sta ad esempio nel fatto che tra l’operato di un artista e quello di un moderno operaio non sussiste, in fondo, nessuna differenza.
Per fare un altro esempio, non è vero che ogni ‘qui e ora’ storico sia sempre inaudito e completamente imprevedibile da parte del suo antecedente momento. Sarebbero gli egoismi incontrollati del capitalismo a produrre situazioni del tipo anzidetto. Per cui, non faccio fatica ad immaginare un mondo futuro interamente socialista in cui tra un momento e il suo susseguente sussista un rapporto di grande e positiva somiglianza: ciò, infatti, non è in contrasto con l’indiscutibile principio degli indiscernibili e non è in contrasto con l’indiscussa idea filosofica del divenire.
Parlerò adesso – brevemente e per sommi capi – di soltanto alcuni degli snodi che hanno segnato il passaggio dal mondo medievale al mondo moderno in Occidente.
È la nascita del colonialismo moderno ad aver dato il primo impulso alla progressiva crescita di capitali della borghesia europea. Quest’ultima non poteva far altro che scontrarsi egoisticamente con le vecchie aristocrazie terriere e con la regalità quando assisteva all’ingente e progressivo incremento delle sue ricchezze. L’invidia sociale (motore di ogni possibile tipo di politica – popolare, borghese, aristocratica) non poteva far altro che spingere la borghesia a soppiantare le classi più elevate del mondo pre-moderno, tendendo a sostituirsi a loro nella conquista di ogni possibile privilegio.
Il protestantesimo, nonostante le sue docili (ma neanche troppo, facendo riferimento ai secoli trascorsi) e probe sembianze, corrisponderà al suo famelico spirito (sebbene ancora raffrenato): il riformato in generale non obbedisce più né alla Chiesa, né è più fedele all’Impero. La Chiesa, che da sempre aveva rappresentato l’oggettività in ambito morale (l’humanitas), diviene oggetto, da parte del protestante, di trasgressione: la sua coscienza non ha bisogno del prete per guidarlo lungo la retta via, decidendo da sé in cosa dovrebbe consistere quest’ultima. Ma la sua coscienza individuale, cosa gli suggerisce in fondo se non l’egoismo, ancora in larga misura camuffato nelle idee sacrosante della meritocrazia in ambito economico e della possibilità del matrimonio per i prelati, per i pastori? In poche parole il protestantesimo sorge come più liberale e come più libertario del cattolicesimo: in una parola è più individualista (egoista) di quest’ultimo.
Il protestantesimo evolverà nell’illuminismo, ancora più liberale (quantomeno nelle sue tendenze politiche più radicali) e più libertario del protestantesimo.
L’illuminismo svela completamente il suo volto nei tempi più attuali o recenti e specie nel nostro paese: nepotismo, clientelismo, familismo, esclusivismo, abusi di potere di ogni tipo (con annessa impunità), la rapacità che ha condotto chi spadroneggia in Italia al raggiungimento di tutto quanto ho appena elencato, non è altro che il quasi naturale e quasi spontaneo conato dell’egoismo borghese quando non sia più raffrenato da nulla di religioso (nel senso più proprio, ovvero da nulla di umanistico). Ciò sul piano più specificamente politico-economico-giudiziario, materiale: sul piano delle libertà più palesemente morali (al primo dei due piani strettamente intrecciato e da esso forse indistinguibile) la Chiesa sembra non essere troppo in grado di porre freni: adozioni gay, figli fatti in provetta e altro ancora, anche in Italia, sembrano ormai avanzare e affermarsi irrefrenabilmente. E l’informazione propaganda, in fondo (anche quando non lo fa apertamente), tutto ciò, senza che si possano udire troppe voci dissenzienti.
Fino agli inizi dell’età moderna l’egoismo sfrenato era per lo più il carattere dei ceti aristocratici e dei monarchi. È forse una strarisaputa regola politica – conosciuta da sempre dai ceti dominanti – quella per la quale una società non può perdurare e tenersi in piedi senza l’appoggio di una maggioranza costituita da un ceto medio (sia medio-piccolo che medio-alto) che se la passi decentemente (il primo) e bene (il secondo). Durante il medioevo la funzione della Chiesa (quale classe – per usare un termine gramsciano – egemone, dunque culturalmente egemone) è stata talvolta quella di educare il ceto medio sia piccolo che alto ad una certa continenza sia materiale che morale, in modo tale da non contrapporsi alle aristocrazie, ai re, agli imperatori, acquisendo potere politico ed economico a discapito di questi ultimi. La Chiesa ha per lo più e da sempre fatto in modo che il popolo non insorgesse mai contro lo status quo (il discorso che sto facendo su di essa è comunque astratto: durante il medioevo ha infatti appoggiato dapprima le aristocrazie contro il centralismo imperiale, successivamente – sempre contro quest’ultimo – ha appoggiato i comuni. Ha inoltre da sempre – in tempi più recenti – contrastato il comunismo).
Tra i mezzi di propaganda utilizzati dalla Chiesa vi era quello dell’arte. L’arte di un pittore come Giotto non è lineare, naif, per via di un imbarbarimento della tecnica pittorica: è semplice poiché si rivolge ad un fruitore piuttosto semplice o quantomeno mediocre. Quest’ultimo la deve poter comprendere (anche nel senso di poterla accogliere, tollerare, accettarla – deve essergli familiare). È un’arte che insegna immediatamente, che impartisce all’istante, le regole del buon senso comune, della ragionevolezza, ma anche la non-violenza (è un’arte che invita a rispettare cristianamente, evangelicamente, lo status quo). Sebbene dunque le corporazioni fossero imposte dall’imperatore e dai sovrani, non erano rari, nel medioevo, comportamenti di spontanea concordia tra un datore di lavoro e i suoi dipendenti.
Ora, è mio parere che l’uomo, per l’intera storia umana, non potrà inventare nulla di nuovo rispetto a tutto quanto si è offerto storicamente fino ad oggi. La storia è essenzialmente questione di propaganda e di economia politica: gli elementi che contraddistinguono tali due ambiti sono sempre gli stessi. Possono tutt’al’più venire ricombinati in modo innovativo. Con ciò mi porto a ciò che si è verificato in Russia, prima con Lenin e poi con Stalin (il discorso che farò sarà riduttivo, schematico e piuttosto breve).
La voracità irrefrenata dei ceti dominanti ha condotto la Russia alla rivoluzione e produsse un paese a stragrande maggioranza di contadini poco abbienti, senza una consistente classe media contadina. Non c’era neanche un ampio ceto industriale. Lenin, grazie alla sua presa del potere, lo creò (anche se il paese rimase prevalentemente agricolo). Dovette infatti alla fine creare, con la Nep (la Nuova politica economica), un ceto medio che consentisse al suo regime di rimanere in vita. L’indispensabile incremento della classe dei kulaki (dei proprietari agricoli abbienti) e l’inevitabile creazione del nepman (del commerciante agiato) furono – checché se ne dica e se ne pensi – frutto (da cui non potette dunque prescindere) del suo operato politico.
Fu in particolare in seguito al grande successo ottenuto dal suo primo piano quinquennale che Stalin potette arricchire in modo abbastanza considerevole l’intera Russia. Se in un primo momento (il discorso è un po’ schematico) di tale accresciuto benessere ne usufruì l’intero paese, in seguito lo statista dovette necessariamente produrre un po’ di disparità sociale – di nuovo – tra un ceto medio – composto ad esempio dai membri dei kolchoz (delle cooperative agricole) – e il resto della popolazione. Ma le disparità non furono troppo marcate. Ciò, grazie al totale controllo dei mezzi di propaganda da parte di Stalin (controllo che non potette raggiungere se non per mezzo della sconfitta dei suoi avversari politici, eliminando cioè il precedente pluralismo legato alle varie anime della sinistra russa dei suoi tempi). Vi sono notevoli affinità – ad esempio e in primo luogo – tra il realismo socialista e l’arte medievale sul piano stilistico-contenutistico (le due cose non possono prescindere l’una dall’altra): solo che il primo incita il fruitore anche alla rivolta di fronte alle ingiustizie. Fu anche grazie a tale tipo d’arte che il popolo russo acquisì una certa continenza materiale (oltreché morale. Le due cose – lo ribadisco – non possono forse darsi come disgiunte).
Con la presa del potere da parte di Stalin si assistette quindi al passaggio da una società piuttosto permissiva ad una società, per così dire, più conservatrice. Tale fatto non deve sembrare innaturale: lo storicismo filosofico non esiste, per cui non è affatto detto che il mondo moderno e borghese proceda ormai in modo inarrestabile. La possibile piena – e tale deve essere per raggiungere il suo scopo – egemonia culturale da parte di un umanista può sempre e ovunque riprodurre, riproporre, una società simile a quella sovietica post-leninista.
Ma torniamo all’odierna situazione dell’Italia. Forse il suo vero cambiamento giungerà quando i tantissimi suoi giovani disoccupati e precari non potranno più ricevere sostegno economico da parte delle loro famiglie. Sarà allora possibile colpire davvero i privilegiati, creando una nazione che offre benessere perlomeno alla maggioranza della sua popolazione, il che potrebbe addirittura rappresentare un primo passo per la successiva creazione di una società più socialista rispetto a quella che ipoteticamente la precederà.
Per compiere tale primo passaggio è tuttavia necessario che una forza politica a carattere umanistico-religioso (dovrebbe essere ormai chiaro che per religione non intendo tanto il credere in Dio, quanto piuttosto il credere in qualsiasi cosa che limiti il nostro assoluto potere) riesca a farsi rappresentante della maggioranza degli italiani.
Per quel che riguarda la restante situazione europea, non farò riferimento a Francia e Inghilterra (parlare della storia del welfare e del liberalismo – però davvero concorrenziale, meritocratico e antiburocratico – caratterizzanti tali due paesi richiederebbe molto tempo), quanto a un paese come la Germania.
Il suo buon funzionamento credo sia un retaggio dell’epoca del dispotismo illuminato. L’illuminismo ha creato un’arma astuta e al contempo subdola posta al servizio della grande borghesia ed è riuscito mirabilmente a diffondere le sue idee oltre i confini dei paesi europei più liberali. Accanto a classi dominanti più o meno fameliche e dispotiche ha posto classi dirigenti zelanti ed efficienti, difficilmente corruttibili (tutt’al’più, in alcuni casi, corruttibili fino a un certo punto), poste al loro servizio. Tali politici, burocrati, amministratori, hanno prodotto e continuano a produrre benessere per la maggior parte dei loro concittadini.
È stata proprio la tradizione del dispotismo illuminato ad impedire, in paesi come Austria e Germania, l’avvento di una rivoluzione come quella bolscevica, non verificatasi neanche – naturalmente – nei restanti paesi europei dalla consolidata tradizione liberale (e anche sindacale).
Forse – purtroppo – l’unica arma in grado di mutare la situazione di stallo in cui il mondo intero sembra al giorno d’oggi riversare (di tale impasse ne parlerò un po’ più dettagliatamente fra breve), non può che consistere nel corrompere classi dirigenti, amministratori e burocrazie, rendendole smodatamente egoistiche. Spetterà allora a quelle forze politiche che hanno, per così dire, ‘vigilato’ durante tale ipotetica fase di decadimento delle nazioni, intervenire politicamente. Esse forse non mancheranno da nessuna parte: distruggere la religiosità ritengo sia pressoché impossibile, in quanto la finzione dell’humanitas è qualcosa di quasi connaturato in moltissimi uomini.
L’attuale situazione mondiale mi sembra che sia la seguente (difficilmente potrà mutare, anche se non è detto che il cambiamento – in un futuro anche molto lontano – non possa verificarsi, sia pure superando difficoltà di non poco conto).
Ad oriente la Cina ha prodotto una classe media maggioritaria. Ma la restante parte della sua popolazione (eccezion fatta ovviamente per i cinesi ricchi) è senza diritti, essendo quindi oppressa e disagiata. Ritengo personalmente che anche in Russia e nei paesi dell’Est europeo la situazione politica sia quantomeno affine a quella cinese (anche se sono paesi più poveri della Cina).
In America meridionale i nazionalismi di sinistra non riescono ad arginare in modo sufficientemente energico l’azione delle forze politiche borghesi (spesso, per giunta, corrotte). Credo tuttavia che il recente rafforzamento del suo potere da parte di Maduro costituisca qualcosa di positivo.
Poi c’è l’Africa, in cui, per lo più, il ceto medio è assente, con il risultato che gran parte dei suoi governi sono altamente instabili e precari. Ci sono sempre guerre – specie intestine – in Africa. E la sua miserabile popolazione crede di risollevarsi combattendo contro le etnie avversate, alle quali verrebbe imputata la causa dei loro mali. In Africa l’unità di tutti gli oppressi dovrebbe superare la loro frammentazione, politicamente infruttuosa: gli etnicismi andrebbero superati, tolti di mezzo, in nome dell’internazionalismo.
Anche nei ricchissimi Stati Uniti vi è un ceto di poveri molto consistente (c’è sempre stato).
Infine, anche gli islamici dovrebbero abbandonare (ad esempio) la Sharia (anche se, perlomeno alcuni degli stati in cui vige ne traggono dei benefici), abbracciando in pieno il comunismo (cosa che ad esempio hanno fatto i Curdi della Turchia del Pkk).
Un’astuta quanto semplice tattica politica, consistente in definitiva nell’estirpare il marxismo-leninismo da ogni luogo al mondo, ha consentito agli Stati Uniti in particolare, di primeggiare incontrastati: lo scenario planetario suesposto è forse il risultato di un’accorta battaglia ideologica stravinta (almeno per il momento) dalle forze del capitalismo mondiale.
Mi porto nuovamente all’Italia in quanto in essa (forse più che in ogni altro paese) è in voga da sempre un fenomeno solo apparentemente, a mio parere, positivo: quello dell’assistenzialismo per gli ultimi. Strutture pubbliche e private (spesso finanziate per giunta dallo stato), laiche e religiose, si prodigano continuamente per dare almeno un po’ di sostegno al ceto minuto. Il risultato è che una più o meno consistente parte di esso se ne accontenta. La parte restante no, in quanto le sue componenti hanno una mentalità borghese che prova invidia per chi è più in alto di loro nella scala sociale. Questa vasta minoranza resta tagliata fuori dal ceto medio maggioritario di ogni paese politicamente stabile.
Certamente in Europa (non so se lo stesso si verifica anche in America) ciò ha condotto al superamento delle più gravi condizioni di indigenza che si possano immaginare, tantoché in Europa occidentale un minimo di dignità materiale è garantita a chiunque. Realizzare ciò è stato reso ovviamente possibile dall’aver spudoratamente depredato il Terzo Mondo (ad opera in particolare dell’imperialismo americano, dei cui vantaggi l’Europa occidentale ha beneficiato sia direttamente che indirettamente e continua a beneficiarne).
Se alle origini dell’assistenzialismo in Italia vi è sia il cristianesimo che (ancora una volta) l’illuminismo, nei restanti paesi occidentali esso avrebbe avuto origine soprattutto da quest’ultimo. È un umanitarismo filantropico (perlomeno in buona parte dei casi) femmineamente ipocrita, perciò odioso (e non ha mai risolto nulla alla radice e a livello globale).
Una fetta dunque – ritengo – non molto consistente del ceto minuto o subalterno si accontenta di pochissimo: è composta da chi, dalla vita, non ha mai avuto nulla e in essa non è mai stato nulla. Tale sottoproletariato è poco invidioso degli altri e – quasi paradossalmente – sperimenta un certo tipo di felicità. È la felicità di chi è già da sempre come morto, come mai nato: riceve quello che è in fondo un dolce atteggiamento di indifferenza da parte di ogni restante membro della società, poiché non può essere oggetto di invidia alcuna (non avendo e non essendo nulla dunque). Vicino alla morte è vicino alla più piena felicità (si pensi alla dottrina della Noluntas: c’entra infatti qualcosa con quello che ho appena concluso di dire).
La rimanente parte del ceto più subalterno è invece la più infelice, poiché l’invidia sociale la divora. Ora, l’uomo in generale credo abbia un’alta soglia di sopportazione del dolore più concreto, più materiale. Ma il livore, il rancoroso risentimento sociale, lo può spingere a compiere le azioni più assurde. Prendiamo ad esempio un imprenditore (piuttosto che un banchiere) molto ricco che ha fallito di colpo: uno stato d’animo estremamente lugubre si impossesserà di lui. Ebbene (fra l’altro), per quest’uomo, l’indifferenza di cui diverrà oggetto in seguito al suo dissesto economico da parte di una società che prima lo teneva in grandissimo conto, verrà vissuta come una sferzata mortale (tra le più atroci che si possano ricevere) rivolta alla sua rispettabilità di individuo o onorabilità personale.
Comunque, credo stia di fatto che la maggior parte del ceto minuto europeo e statunitense abbia una mentalità demagogica o populistica che lo fa tendere ad essere come il più spietato, disumano e ricco dei potenti: anch’esso aspira a porsi al di sopra della legge – ovvero al di sopra di tutto – dominando dispoticamente, prepotentemente, su tutto e tutti. Tali sue ambizioni sono irrimediabilmente frustrate. Ma se un membro del suddetto ceto entrasse a far parte della classe media, un po’ si calmerebbe, accettando quasi fatalmente la sua socialmente mediocre condizione (si rassegnerebbe al suo destino).
È mio parere che tale demagogia di popolo vada sradicata. Ma và sradicato anche il parassitismo degli ultimi, cui andrebbe dato lavoro e non elargizioni. Ad essi và inculcata un po’ di invidia sociale, facendoli diventare qualcosa, conferendo loro una sorta di dignità che li sproni anche a migliorarsi socialmente. Uno dei principali rimedi a tanto potrebbe consistere nell’accoglierli quasi familiarmente in un partito che gli impartisca, ad esempio (fra le altre cose), l’idea della dignità, dell’onorabilità, insita nel lavorare.
Ma anche la parte restante e più consistente del ceto minuto dovrebbe diventare ‘popolo’. Ovvero, una genuina cultura popolare dovrebbe andare a rimpiazzare la loro mentalità in fondo borghese. Ciò è possibile ‘umanizzandoli’: acquisendo ‘humanitas’ sarebbero portati a non più emulare chi tiranneggia il mondo, o comunque il comportamento dei ceti più elevati.
Il loro senso di invidia verrebbe canalizzato nel modo seguente: la forma mentis popolare non desidera avere tutto, ma desidera che chi la sovrasta socialmente non abbia troppo. E non aspira alla tirannia, quanto piuttosto a fare in modo che essa non venga esercitata da nessuno. Ciò che al giorno d’oggi chiamano ‘giustizialismo’ (per intenderci) consisterebbe proprio in ciò.
Concludendo, il popolo si eleva abbassando, livellando a sé chi è più in alto di lui. Gli strumenti utili a tanto sono dunque principalmente due: la maggiore austerità realisticamente possibile sul piano economico per i ceti più alti da un lato; l’universalismo della legge (principio per il quale essa deve essere uguale per tutti) dall’altro.
Il futuro che auspico per l’umanità intera è un mondo interamente socialista. Il raggiungimento di tale obbiettivo è difficoltoso se non impossibile. Ma è a tale obbiettivo che si dovrebbe comunque – nonostante ogni intralcio – tendere. Ora, io non sono un antilibertario, né sono del tutto antiliberale. Dico soltanto che la concessione di qualche libertà economica e di alcune libertà sul piano morale (pur tuttavia contrastando quelle eccessive) abbia come sua condizione il superamento della fame nel mondo e la connessa creazione di condizioni di vita dignitose per tutti. Con tale eventuale situazione di benessere mondiale potrebbe risorgere una sorta di Nep sovietica. Lenin fu costretto ad attuarla per via dell’ancora indigente situazione economica in cui versava la Russia dei suoi tempi. In futuro potrebbe invece venire nuovamente realizzata per via del più alto livello di benessere globale e collettivo che l’umanità potrà mai raggiungere.
Sebbene Lenin non si fidasse (ma si sbagliava) molto di Stalin, non fece forse in tempo a concretizzare tutto quanto lo statista georgiano concretizzò. E forse, il più pieno statalismo che sia possibile raggiungere congiunto al moralismo, per entrambi gli statisti (ma ciò credo valga e sia valso per ogni politico marxista-leninista), avrebbe dovuto costituire soltanto una fase politica transitoria, da superare nell’instaurazione di una futura e definitiva società globale in cui alcune libertà illuministiche sarebbero state definitivamente reintrodotte.
Sebbene mi renda conto che le premesse teoretiche del mio lungo (eppur sommario) discorso sulla politica siano inaccettabili o indigeribili per la maggior parte dei suoi eventuali lettori, li esorto comunque ad accogliere perlomeno i risvolti politici di dette premesse. Essi infatti si accordano con chiunque creda ancora, al giorno d’oggi, nella bontà d’animo, nel decoro e nella giustizia. Insomma, tale saggio è destinato ha chiunque abbia mantenuto del buon senso in questi tempi straripanti di ogni possibile e inarginabile nefandezza.
Del resto il nichilismo relativistico da cui traggono origine i miei discorsi di varia materia, serve, da un lato a dare ad essi (quasi paradossalmente) un saldo fondamento, dall’altro a cogliere le cose nel modo più lucido possibile, in modo tale da poter fornire delle conoscenze che possano incidere davvero sulla realtà.
Mi rendo poi conto del fatto che i discorsi svolti in questo saggio siano molto generali, essendo personalmente poco ferrato in discipline quali l’economia politica, la propagandistica, la storia stessa. Ma – ancora una volta – invito chi ne sa ben più di me di tali discipline ad approfondirle, seguendo le direttive da me umilmente impartite.
La conoscenza – la conoscenza autentica – è uno strumento molto potente da rivolgere contro gli attuali poteri forti. Questi ultimi, dopo aver depredato prepotentemente gran parte del mondo grazie anche alla tecnologia, possono permettersi di seguire ben poche direttive politiche (quelle da me esposte in questo saggio) per mantenere il loro incontrastato (o quasi) dominio. Ben più difficile è fare politica quando si dispone di pochi beni e di poche risorse e quando si tende, ciò nonostante, a realizzare il bene comune (non, quindi, i propri interessi).
Ben più sapiente è il modo di fare politica che sorse in Russia ad opera di Lenin (che fu un asso in particolare durante lo svolgimento della rivoluzione) e di Stalin, prassi politica che si diffuse in un’ampia parte del globo. Credo che – soprattutto per quel che riguarda il modo di fare politica dello statista georgiano – essa sia derivata almeno in parte dal mondo bizantino, a mio parere addirittura superiore all’universo politico della romanità occidentale. Non a caso l’Impero d’Oriente durò ben più a lungo rispetto a quello d’Occidente. I suoi grandi legislatori (i suoi grandi sovrani) e i suoi grandi giuristi seppero dar luogo ad un efficientissimo apparato burocratico (anche nella Russia sovietica esso non fu, né inefficiente, né tantomeno superfluo ma tale da produrre una certa equità sociale) e seppero rendere subordinata alla propria volontà l’istituzione religiosa (mi sto riferendo ovviamente alla Chiesa ortodossa, da sempre, tutto sommato, fedele agli stati).
Concludo il saggio suggerendo quali siano in particolare le tematiche storiche da approfondire per ottenere una conoscenza politica che sia in grado, se applicata, di modificare la realtà (raggiungere una nitida conoscenza dell’intera storia mondiale – interpretandone correttamente il senso – sarebbe però l’ideale).
Soprattutto in Italia, sembra che si stiano man mano offrendo condizioni abbastanza affini a quelle che diedero luogo allo scoppio della rivoluzione francese (non per questo ritengo che in Italia ci sarà una rivoluzione). Invito dunque il lettore ad individuare tali cause e ad individuare la natura di quelle forze politiche che hanno saputo guidarla a buon porto.
Credo che non ora (i tempi mi sembrano ancora prematuri), ma in futuro, il M5s potrebbe vedere aumentato ulteriormente il suo consenso con l’accrescersi dell’impoverimento degli italiani. Come ha fatto – partendo da zero – a raggiungere le sue consistenti percentuali di voto? Sebbene inoltre sia una forza (mi sembra) più liberale che socialdemocratica, la sua organizzazione ricorda molto quella del Pci, in particolare quella del Pci di Enrico Berlinguer. Ma il suo elettorato è solo in parte di sinistra. Buona parte di esso ha una mentalità populistica moderata e, in seno a quest’ultima, vi sono anche persone dalla mentalità alquanto spregiudicata.
Se la flessibilità ideologica e la compattezza di fondo del fedele e disinteressato apparato partitico del Pci di Berlinguer, nonché – forse – anche della sinistra di Allende, hanno consentito il raggiungimento di alte percentuali di voto, quali sono le ragioni del riuscito golpe cileno ad opera di Pinochet? E cosa ha misteriosamente impedito la realizzazione del compromesso storico in Italia?
Perché, invece, la storia delle sinistre a trazione non comunista giunte al governo (si pensi ad esempio alle vicende politiche legate alla figura Léon Blum) è stata sempre fallimentare?
È stata forse l’ampia concentrazione di capitali nelle mani di pochi, dovuta alla Seconda rivoluzione industriale, a consentire quasi naturalmente o spontaneamente alle Trade unions di sindacalizzare l’Inghilterra? Perché invece in America (nazione in origine ultraprotezionista e antiliberale), alle varie sue crisi, si è sempre potuto rispondere con la (dunque progressiva) concessione di libertà economiche (perlomeno fino al ‘New deal’ keynesiano di Roosevelt)?
Invito infine il lettore – naturalmente – a conoscere dettagliatamente e con estrema lucidità le varie cause che hanno condotto alla riuscita della rivoluzione bolscevica. Ma perché quest’ultima è stata una sorta di colpo di stato mentre – ad esempio e in primo luogo – in Cina si è avuta una rivoluzione di popolo? Come ha fatto la Corea del Nord a mantenersi politicamente intatta per ben tre generazioni (essendo forse destinata a perdurare tale ancora per lungo tempo), quando invece la Russia ha avuto Krusciov? I nordcoreani sono stati in ciò più bravi di un politico del calibro di Stalin.