LB/R La Bellezza Riunita, questo è il titolo di una recentissima uscita discografica, riguardante alcune rivisitazioni del repertorio ultimo di Lucio Battisti. Come si evince dal titolo, preso in prestito dall’epilogo-bunker Hegel (1994), siamo nei pressi dei famigerati “bianchi”, ovvero i cinque album di gelido elettro-pop con testi paroliberi di Pasquale Panella, ovvero il repertorio meno indagato e accessibile del musicista di Poggio Bustone. Il doppio vinile – ma esiste anche l’edizione in cd – è rilasciato in pregevole confezione razionalista dalle Industrie Discografiche Lacerba. La gloriosa sigla fiorentina, attiva già agli albori della new wave italica (Diaframma, Pankow, Rinf, Neon e altri) intese richiamarsi esplicitamente, nella propria ragione sociale, all’omonima rivista letteraria futurista, fondata nel 1913 da Giovanni Papini e Ardengo Soffici. Il collegamento non è casuale: proprio nel capoluogo toscano l’avanguardia artistica primonovecentesca e quella musicale dei primi anni ’80, s’abbracciarono spontaneamente, dopo decenni di supina sudditanza alle mode rock d’oltreoceano, generando uno stile originale, ricercato, in qualche modo ancora autarchico, certamente assai distante dai mimetismi omologanti del “mondo nuovo” globalizzato di lì a venire. Con lo stesso piglio innovatore, Lacerba propone oggi una perlustrazione coraggiosa, incursione ri-creativa nel repertorio apparentemente più ostico di Battisti.
Certo, la piaga degli album tributo toglie il sonno; quei dischi di cover e omaggi postumi, corrono sovente il rischio di tramutarsi in parassitarie preci devozionali o, nei casi peggiori, in dissennate deturpazioni di ciò che stava bene così com’era. L’originale artistico, a maggior ragione nella nostra epoca centrifugata, pappagallesca e iper-relativista, sembra il pretesto perfetto, il feticcio profanatorio a disposizione di chicchessia per atti vandalici sonori, emulazioni vampiresche organizzate in nome dell’oziosa condivisione passatista. Il buon vecchio Lucio, quello che piace sempre a tutti, in spiaggia come in pizzeria. Nel caso, segnatamente riguardo alla gloriosa epopea con Mogol, il rischio karaoke banalizzante è altissimo. Troppa memoria condivisa in quei pezzi, troppa aneddotica nazionalpopolare sedimentata per metterci le mani sopra, per osare l’oltraggio guastatore o per sprecare tempo in pedisseque copie omaggio. Quelle erano canzoni da cantare tra amici in campeggio o in pomiciata sugli ultimi sedili del bus scolastico, mica pretesti per farsi belli a ufo, tant’è che verrebbe quasi spontaneo prendere le difese della sempre bistratta “vedova nera”, la severa guardiana del faro battistiano. Grazia Letizia Veronese ha certamente ragione nel voler ostacolare la faciloneria famelica di un insistito saccheggio necrofagico; perché ella risiede di diritto nell’albedo, fu partecipe e coprotagonista (co-assenteista) di una plateale scomparsa; vestale e testimone di una volontà d’irreperibilità del marito, coerentemente si comportò di conseguenza. Il problema non è suo, ma dell’imbruttito creato origliante attorno, di quella dittatura sudaticcia delle pro-loco che armeggia in sediziose trasfusioni d’emozioni. Assai meglio un caveau blindato, pieno di vuoti. Giunse infatti il tempo del gelo, ritiro monastico trasalto in elettronica, medioevo moderno. In pochi se ne accorsero, la restante maggioranza attaccata alla flebo di un’Italia scomparsa, s’accoccolava in torcicollo.
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Considerazioni spurie, altezzose, forse vane, che salgono alte come mura merlate, attorno al fortilizio inviolato dei “bianchi”. Cittadella numinosa quella, piattaforma siderale, ara sterilizzata di un verbo accecante, assordante e stordente, tuttavia quasi silente nell’abecedario panelliano; Pentateuco imparato a memoria senza costrutto, proibita la recita, amnesia, sincopato respingimento all’uscio per i questuanti d’emozioni generaliste. L’attimo prima. Ebbene, il cavallo di troia de La bellezza riunita, riesce nell’impresa impossibile di scardinare quei chiavistelli semantici e le simbiotiche, squadrate, meccaniche liriche sintetiche: lo fa esasperando tutte le premesse sospese, inceppate filastrocche ebbre, quelle inconcludenti derive isolazioniste, le generanti perplessità riproduttive dirette sulla luna. Ci riesce negli episodi più azzardati – Rachele Bastreghi con Le cose che pensano, Larsen & Little Annie con Don Giovanni, Ecco i negozi ripresa da Spartiti e DJ Rocca, Allontanando “burializzata” da Backwords – accentuando meravigliosamente la vocazione senza ritorno, pollicino che smarrì le briciole nel bosco, degenerata estasi in sala operatoria vuota, ricarico industriale su quelle levigate pietre candide. Nell’impossibilità di semplificare, spiegare, condividere, illustrare – dato che Battisti e Panella vergarono un testamento di vuoti sepolcri e sigilli– tanto vale ricordarsi di dimenticare. Dimenticare, anche grazie a un disco/tributo che ci permette di.