“Io non voglio essere Michael Jordan. Non voglio essere Magic. Non voglio essere Bird o Isiah, non voglio essere uno qualsiasi di questi ragazzi. Quando la mia carriera sarà finita, mi guarderò allo specchio e dirò: ho fatto a modo mio”
Allen Iverson
L’All Star Game di Cleveland 1997 è probabilmente il più bello. L’NBA infatti, per festeggiare i suoi primi dieci lustri, invita e premia i cinquanta giocatori più forti. Può una cerimonia di così enorme pathos essere quasi oscurata? La risposta, almeno in parte, è si: c’era, infatti, enorme attesa per il Rookie Game, giocato al venerdì. Questa cerimonia viene celebrata solo alla domenica, prima della partita delle stelle. Come può una partita di esordienti suscitare tanto entusiasmo? Provate a leggere, tra le squadre, i nomi di due atleti: Kobe Bryant e il nostro protagonista, Allen Iverson, prima scelta al draft del 1996 e MVP della partita. Chi è questo fenomeno? Forse bastano due cifre per inquadrarlo: 1 metro e 83 per 74 chili; l’unico peso alzato in vita sua? Probabilmente la biro con cui firma i contratti.
La straordinaria forza di un grande uomo
Come può un uomo del genere aver giocato in Nba per quattordici anni e aver vinto per quattro volte la classifica di miglior realizzatore? Come può questo atleta aver giocato sempre al ferro, contro bestioni di due metri e venti per oltre centodieci chili? Non siamo così bravi da controllare i nostri destini ma tutti noi dovremmo tenere, sull’ideale comodino della nostra esistenza, le immagini di certi sportivi. Dovremmo tenerle e guardarle tutte le volte che, nei momenti più duri della nostra vita, pensiamo di non farcela. Allen, nato da una madre quindicenne e cresciuto senza un padre, non ha avuto una vita facile. Da adolescente finisce anche in cella. Iverson è uno che prende letteralmente le botte sul campo, rialzandosi ogni volta e riprovandoci, sempre e comunque. Senza mai mollare. Sempre facendo forza sui propri mezzi e sulle proprie convinzioni, forse al limite della spacconeria.
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12 Marzo 1997: The main event
L’obiettivo reale di queste righe però, è celebrare una singola azione. Una singola azione che mette in luce il talento immerso di AI3 (suo “acronimo ufficiale”). Iverson arriva in NBA nel 1996. Fino a quel momento non si era mai dovuto raffinare troppo, essendo dalle due alle venti volte più veloce degli atleti contro cui, tanto alle superiori quanto all’università, competeva. Giocava, per così dire, istintivo. Le prime partite sono da subito entusiasmanti: alla sua prima al Madison Square Garden, in una vittoria Phila su NY per 101-97, segna 35 punti. In quel periodo, però, la lega è di Michael Jordan che, a fine anno la vincerà anche con i “suoi” Bulls. Se dunque, non si si compie qualcosa di eclatante nei confronti del Re che indossa la 23, realmente non si è nessuno. L’occasione si presenta il 12 Marzo 1997: è il cosiddetto Main event; ovvero la partita in cui il nostro leva il velo al proprio David, mostrando la sua versione del crossover. Il crossover, nella pallacanestro, è l’abilita di palleggiare la palla in modo incrociato, così da disorientare il difensore e da poterlo battere nell’uno contro uno. Iverson farà di questo movimento una vera e propria arte. E pensare che all’università lui, che arrivava dal football, spesso con questa tecnica veniva umiliato. Addirittura, stanco delle tante umiliazioni subite, Iverson si fa insegnare tale movimento da un suo compagno, tale Dean Berry che nelle partitelle, sportivamente parlando, ce lo torturava. Berry che, incredibilmente (almeno per le costosissime università americane), pur essendo a Georgetown, non ha una borsa di studio. E’ quindi, tecnicamente parlando, un walk on. Il ragazzo senza aiuti economici è però abilissimo nel giocare la palla in questo modo. Questa tecnica è nota anche come Utep two-step. Il crossover ha quest’altro nome, in quanto il primo che davvero ne faceva un uso quasi ossessivo è stato Tim Hardaway, poi stella NBA. Hardaway infatti, aveva giocato a Utep: letteralmente, University Texas El Paso; two-step, doppio passo. Iverson, appreso da Berry, passa i mesi successivi ad allenare il movimento, mutandolo anche leggermente e rendendolo più efficace.
Gli arbitri, infatti consentono ad Iverson, “che è Iverson fin dall’esordio”, di tenere la palla sul palmo mentre la gioca. Tecnicamente sarebbe un doppio palleggio ma l’NBA lascia correre, rendendosi dal principio conto di che fenomeno le è capitato. Anni di duri allenamenti sfociano in un possesso chiave della suddetta partita contro i Bulls. Il clima non è dei migliori: gli atteggiamenti di Iverson gli provocano l’antipatia dei grandi vecchi dell’Nba e, in particolare, di re Jordan. Jordan stesso che, per dargli una lezione, viene praticamente spinto a difendere il numero 3 di Phila in ogni possesso. Phil Jackson, allenatore dei Bulls, è chiaro: egli infatti, esige che sui blocchi si cambi; così facendo sospinge il suo 23 a difendere su Iverson. Il nostro, dall’alto del suo metro e ottantatré, non si fa problemi. Non se ne è mai fatti. Anzi, prende Jordan faccia a faccia, palleggia e si tiene un passo fuori dalla linea dei tre punti. E’ il momento. Finta, sinistra-destra- sinistra, poi ancora destra. “Pam-pam”, il crossover riesce perfettamente. Jordan è battuto. Arresto e tiro dalla lunetta. Due punti. Mentre torna in difesa, si prende gli applausi scroscianti dell’arena. La partita in realtà, viene persa da Allen e dai suoi: 108-105. Pur essendo per Phila la sconfitta numero 46 delle 60 totali, a fronte delle poi sole 16 vittorie, il suo gesto è sulla bocca di tutti. C’è riuscito, il mondo intero l’ha notato. Nonostante tutto però, nelle interviste, improvvisamente è “Allen respect”. Nessun commento superbo, nessuna glorificazione del gesto. Solo un bellissimo tributo al più forte di sempre. Richiesto di un parere sull’azione, Iverson risponde esaltando la forza di Jordan. Egli infatti, si riferisce al fatto che questi, nonostante fosse del tutto fuori asse e in ritardo, in quanto aveva subito il crossover, stava comunque per stopparlo. Un elogio tecnico, valido più di tante altre frasi di facciata.
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Per Iverson solo il primo delle tante gioie individuali e delle tante giocate da urlo. Peccato “soltanto” che non abbia mai vinto un titolo: il suo -forse- eccessivo individualismo e il non aver mai giocato in squadroni, benché i suoi 76ers (squadra di Philadelphia con cui nel 2001 perde la finale contro i Lakers) non fossero neanche così scarsi, soprattutto difensivamente parlando, sono le principali ragioni del non aver culminato la propria carriera con un anello.
Bell’articolo, molto interessante. Anche se onestamente hai riportato, quasi parola per parola, il racconto che fa Federico Buffa in una puntata di “Buffa racconta la NBA”, episodio Allen VS MJ. Almeno potevi citare la fonte.
Ti ringrazio…il Maestro Buffa comunque è talmente un mantra che per forza ogni ispirazione non può che emanare da lui.