Alla vigilia della Marcia su Roma il clima nella capitale sembra anticipare quello di cinquant’anni dopo: “rossi” contro “neri”, tutti contro lo Stato. Agguati, violenze, infamie insanguinano le strade e si consumano episodi che ricordano per crudeltà e acredine gli Anni di Piombo. Il 29 ottobre 1922, i militari riescono a ottenere dagli squadristi che stanno marciando su Roma e dai comunisti del popolare quartiere di San Lorenzo una fragile tregua. Che improvvisamente salta… Come racconta un nuovo saggio di cui “Storia in Rete” anticipa due passaggi
Di Andrea Augello
Igliori e Bottai mordono il freno. Un nuovo agguato a Casal dei Pazzi, sulla Nomentana, costa la vita al giovane fascista umbro Benito Moggioni: anche in questo caso i due attentatori comunisti vengono catturati e passati per le armi. Ma più che questi tragici avvenimenti, è la condizione generale di migliaia di squadristi con viveri razionati e da due giorni sotto la pioggia a preoccupare i due dirigenti romani. […] I due infine si accordano sull’ipotesi di avanzare verso Roma come richiesto da Igliori, arrestandosi però davanti ai ponti Nomentano, Salario e Mammolo in attesa di ordini. La mattina del 30, mentre le squadre di Igliori stanno salendo sui treni che le condurranno a Ponte Salario, giunge alla stazione di Monterotondo il segretario nazionale del partito, Michele Bianchi, per comunicargli che il grande bluff è riuscito: il Re sta per conferire l’incarico per formare il governo a Benito Mussolini. Bianchi tenta, inutilmente, di convincere Igliori a ritardare la partenza, ma ottiene solo la rassicurazione che la colonna si fermerà a Ponte Salario. Igliori precede i suoi uomini e, mentre sta cercando una soluzione per alloggiarli al coperto, alcuni ufficiali superiori dell’esercito lo informano che Mussolini ha ricevuto l’incarico. A questo punto, senza attendere altri ordini, decide di entrare in città dalla via Salaria con le sue malconce legioni inquadrate. Alla stessa ora Bottai arriva a ponte Mammolo, dove apprende le medesime notizie. Quando gli comunicano che Igliori è già sulla Salaria decide di entrare in città dalla via Tiburtina. Il ponte è presidiato da un battaglione del 59° fanteria, che però non ha più l’ordine di sbarrargli la strada. Perciò Bottai avanza tranquillamente, finché non vede venirsi incontro il generale Piola Caselli con un codazzo di ufficiali provenienti da Roma, lungo la via Tiburtina. A questo punto si svolge un colloquio che così verrà riferito da Bottai cinque anni dopo: «Piola Caselli: Lei ha intenzione di entrare in Roma? Bottai: Precisamente. Piola Caselli: Le consiglio di non passare per il rione San Lorenzo. Il consiglio potrebbe diventare un ordine se lei non lo eseguisse. Bottai: Mi dispiace molto, ma la mia strada passa da San Lorenzo e non devierò».
Forse questo scambio di battute ha veramente luogo, ma non corrisponde al vero che Bottai decida di proseguire verso San Lorenzo senza prendere in nessuna considerazione l’avvertimento del generale. Quando, nel 1927, scriverà sulla rivista «Gerarchia» la sua versione dei fatti, cercherà di far credere che quel colloquio sia stato conclusivo e che i suoi uomini abbiano puntato senza esitazioni su San Lorenzo. Al contrario, ancora una volta Bottai tenterà con una trattativa di evitare altra inutile violenza, andando incontro all’ennesimo fallimento. Ci sono delle evidenti ragioni di opportunità politica che impediscono alla colonna di girare al largo del popolare rione romano. L’onta subita pochi mesi prima in occasione dei funerali di Toti, l’omicidio del giovane Grella e molti altri episodi minori rendono poco onorevole e presentabile una deviazione. D’altro canto l’onorevole Mingrino e i suoi Arditi del Popolo temono che quel passaggio sia un pretesto per mettere a ferro e fuoco il quartiere e aspettano in armi il nemico, decisi a difendersi con le unghie e con i denti. Bottai decide di avvalersi della mediazione dell’Esercito per proporre una soluzione onorevole per tutti: la colonna entrerà nel rione con la sua garanzia che non ci saranno rappresaglie. Gli Arditi del Popolo e gli altri aderenti alla Lega antifascista potranno presidiare il quartiere fino al transito definitivo della colonna e l’esercito vigilerà sull’intera operazione. Conosciamo i dettagli di questo compromesso grazie al memoriale scritto dal generale Pugliese, responsabile della difesa di Roma all’epoca dei fatti, nel secondo dopoguerra. Il generale Piola Caselli, dopo il colloquio con Bottai, incarica infatti il tenente colonnello Sagna di proporre le condizioni della mediazione che abbiamo appena descritto ai rappresentanti delle milizie antifasciste del rione.
Dopo qualche esitazione l’accordo viene raggiunto, con la curiosa precisazione che i fascisti potranno anche cantare i loro inni lungo il tragitto senza essere infastiditi. Nel frattempo Bottai ha arrestato la sua colonna sul piazzale del Verano ed è lì che il tenente colonnello gli porta la notizia dell’intesa appena siglata. All’apparenza sembra molto improbabile che la cosa possa funzionare, considerati i precedenti e la scarsa propensione alla disciplina e all’autocontrollo delle milizie contrapposte. Non di meno l’accordo ha una sua logica rispetto alle diverse esigenze dei soggetti che lo sottoscrivono. Mingrino e gli Arditi del Popolo non hanno infatti alcun interesse a opporre un’inutile resistenza a ottomila fascisti che marciano su Roma: vogliono più semplicemente evitare di essere fatti a pezzi da un nemico numericamente più forte e ben armato. Bottai non può evitare San Lorenzo ma è anche convinto che un bagno di sangue non sia il miglior viatico per la nuova fase «governativa» del Fascismo. Dunque esiste una cornice logica e un sincero intento da ambo le parti di evitare spargimenti di sangue, ma è davvero chiedere molto alla sorte e alla fortuna sperare che tutto fili liscio. Bottai senza ulteriori esitazioni si pone alla testa della colonna e inizia l’attraversamento del quartiere, seguito da migliaia di squadristi armati. Sfilano inquadrati dietro labari e gagliardetti, mentre dai tetti, dagli angoli delle strade che incrociano la Tiburtina e da dietro le finestre gli Arditi del Popolo e gli altri antifascisti li scrutano con le armi in pugno. Tutti i crocevia più a rischio, a cominciare dall’angolo tra via dei Sardi e la Tiburtina, sono presidiati dall’Esercito in assetto di guerra. Gli squadristi abruzzesi e marchigiani rispondono con disciplina a quell’inatteso fuori programma, anche perché non sono coinvolti emotivamente nella guerra privata tra il Fascio romano e San Lorenzo. I minuti scorrono lenti, intervallati dal passo di marcia e dalle canzoni fasciste urlate a squarciagola, mentre una folla muta si assiepa dietro i cordoni di militari e Polizia. Il silenzioso popolo di San Lorenzo questa volta non si mostra né ostile né entusiasta, si limita a osservare gli avvenimenti con curiosità e paura. Incredibilmente non succede nulla.
Bottai supera l’incrocio con via dei Sardi e lentamente risale fino a via Marsala. Giunto quasi all’angolo di piazza dei Cinquecento è ormai convinto che anche la coda della colonna stia uscendo dal quartiere e tira un sospiro di sollievo. Ma a questo punto accade l’imprevedibile: «La testa della colonna era già arrivata all’altezza a via Marsala quando si udì lo scoppio di una bomba. La seconda metà della mia colonna impegnava il combattimento. I sovversivi, annidati nelle case fronteggianti la via e la piazza, sparavano di dietro le comode feritoie delle persiane. Ordinai l’alt e il dietro front. Le squadre in ordine perfetto ritornarono verso la piazza e la via Tiburtina e, addossate ai muri della stazione tramviaria, iniziarono un vivace fuoco di fucileria contro le finestre e gli sbocchi delle strade». Ancora una volta la ricostruzione che ci propone Bottai in queste righe non è del tutto veritiera. Secondo la sua versione saremmo infatti indotti a credere che la coda della sua colonna sia stata attaccata da un lancio di granate e, conoscendo i retroscena della trattativa della mattinata, dovremmo concludere che le milizie antifasciste abbiano deliberatamente violato i patti. Non è così. Il fragile castello dell’accordo raggiunto crolla per un caso, un dettaglio imprevisto. Fin dalla mattina la voce di un’imminente battaglia a San Lorenzo era circolata anche nella colonna di Igliori e da lì si era estesa e ingigantita attraverso le staffette di collegamento tra le varie colonne in marcia a tutte le squadre che stavano convergendo su Roma. Così due squadra toscane, entrata a Roma da ponte Milvio, decidono autonomamente di portare soccorso alla colonna Bottai, come racconta il generale Pugliese: «Essa [la colonna Bottai] attraversa quasi completamente e senza incidenti il quartiere popolare, quando, giunta la coda della medesima all’altezza del cimitero del Campo Verano, si inizia a Porta San Lorenzo un’intensa sparatoria tra fascisti e comunisti, provocata dall’irruzione di squadre fasciste toscane, entrate in Roma da Ponte Molle, che avendo appreso, erroneamente, di una violenta reazione comunista contro la colonna Bottai, senz’altro si precipitano nel quartiere e con numerosi colpi di moschetto sparati contro le finestre del piazzale, provocano l’immediata reazione da parte popolare e altra controreazione di parte fascista».
Sono dunque due squadre fasciste toscane che piombano su San Lorenzo montate su camion BL 18, provenienti da via Principessa Margherita (oggi via Giolitti), Arco di Bibiena, a rompere la tregua, scatenando l’inferno. Così il «Corriere della sera», il giorno dopo ricostruisce i fatti: «Giunte le squadre alla Porta Tiburtina, quasi fuori dal quartiere, mentre stavano per imboccare via Marsala, sopraggiunsero incontro ad esse, provenienti dal centro della città in camions, gruppi di fascisti toscani tutti armati di fucili. Non si è potuto assodare cosa precisamente sia accaduto. Hanno rintronato d’improvviso degli spari, altri spari hanno risposto ed è iniziata una vera battaglia».217 Lo scontro si accende soprattutto davanti alla stazione dei tram per Tivoli, più o meno dove erano avvenuti gli incidenti durante i funerali di Enrico Toti e il bilancio è pesantissimo: otto morti, tra cui due donne e decine di feriti. Non ci sono vittime tra i fascisti. Alle 13 Bottai ha già riordinato la colonna e prosegue verso il centro, mentre nel quartiere arrivano due autoblindo per rastrellare le strade. Non sapremo mai cosa abbia indotto gli squadristi toscani a sparare per primi: il «Giornale d’Italia» parlerà di un equivoco, un grido di sfida di uno squadrista, rivolto a un avversario appostato a una finestra, scambiato per una richiesta di aiuto. La spiegazione più probabile è che i toscani, ignorando il patto tra Bottai e Mingrino, giunti a San Lorenzo, vedendo gente armata alle finestre, abbiano aperto il fuoco. Il bilancio delle vittime si aggrava in serata: si registrano nuovi conflitti a fuoco tra i militari e i comunisti, mentre verso le 22 due squadre di Ancona, facenti parte della colonna Bottai, tornano nel rione e irrompono nell’abitazione dell’onorevole Mingrino, che ha già lasciato Roma, dandola alle fiamme dopo aver gettato mobili e suppellettili dalle finestre. I morti salgono a tredici.
Come Ramelli: l’omicidio Grella, morte di un adolescente
Come abbiamo visto nelle pagine precedenti, il 1922 è, a Roma e nel Lazio, un anno di violenza senza precedenti, ma è proprio nella Capitale che si registra un atto terroristico che sembra anticipare di mezzo secolo i delitti con modalità simili che si consumeranno nei cosiddetti anni di piombo. La sera del 20 ottobre, in via Conte Verde, a due passi da piazza Vittorio, viene assassinato Carlo Grella, sedicenne studente dell’Istituto tecnico industriale, all’epoca appena aperto all’Esquilino. L’istruttoria della Corte di appello di Roma, che portò alla condanna degli esecutori nel giugno del 1924, consente di ricostruire nei dettagli l’attentato. Intanto bisogna premettere che Carlo Grella non è neppure iscritto al Fascio: è solo uno dei tanti ragazzi che hanno simpatia per il Fascismo, ma diversamente da molti suoi coetanei più militanti non partecipa alle tumultuose vicende dello squadrismo e si limita a un impegno politico studentesco. In pratica è un piccolo leader dei giovani dell’Istituto tecnico, attacca qualche volantino davanti all’ingresso, partecipa a manifestazioni patriottiche, insomma nulla che lo possa far sentire bersaglio di un’iniziativa terroristica.
Eppure nella scuola succede qualcosa, di cui non c’è traccia nelle carte processuali: qualcosa che non deve quindi andare molto oltre un’occhiata storta o un battibecco tra studenti. Tanto basta a un suo compagno di scuola, Giovanni Belli, per condannarlo a morte. Giovanni ha 18 anni ed è iscritto agli Arditi del Popolo, frequenta il circolo di via dei Sardi a San Lorenzo e convince i suoi compagni a dare una lezione ai fascisti di via Conte Verde. Forse, all’inizio, neanche lui immagina che quell’invito si trasformerà nella pianificazione di un omicidio: ma così avviene, soprattutto – secondo il giudice istruttore – per responsabilità di Eugenio Di Pietrantonio, comandante del battaglione degli Arditi del Popolo di San Lorenzo: lui non è un ragazzino, ha 32 anni, eppure a parere del magistrato non avrebbe esitato a utilizzare le informazioni del Belli per costituire un gruppo di fuoco, fornendo anche l’arma del delitto. Ne fanno parte Primo Fabbri, ventenne, lo stesso Belli, Giulio Cesari, ventenne, Angelo Bentivoglio, ventiquattrenne. Con compiti di copertura viene mobilitato un gruppo di giovanissimi: Gioacchino Dionisi, 17 anni, Pio Mei, 19 anni, Amedeo Presutti 25 anni, Natalino Palazzi 18 anni, Bruno Rossi 17 anni, oltre a un complice rimasto ignoto di nome Torquato. In sostanza il Belli ha il compito di individuare la vittima e indicarla ai complici, il Bentivoglio quello di pedinarla e di coordinare l’intera operazione, Fabbri è l’uomo che deve far fuoco e Cesari, nel caso Fabbri esitasse, deve essere pronto a sostituirlo. A tutti gli altri è semplicemente richiesto di presidiare gli incroci e di dare l’allarme nel caso transitino Polizia o Carabinieri.
Ogni cosa viene pianificata in via dei Sardi: sarebbe Di Pietrantonio, il capo degli Arditi del Popolo, ad assegnare i compiti mentre il commando verrebbe selezionato dal suo braccio destro Angelo Bentivoglio. Il 19 sera si svolge un primo tentativo, ma gli attentatori arrivano troppo tardi, quando il loro obiettivo è già andato via. Ci riprovano il 20 sera, all’uscita della scuola intorno alle 18,30. Carlo Grella esce dal portone dell’Istituto di viale Manzoni, si attarda qualche minuto per salutare gli amici e poi si allontana a piedi. Quando svolta l’angolo di via Conte Verde, non si accorge di essere pedinato da Bentivoglio e Belli. Sul marciapiede opposto Fabbri e Cesari aspettano il segnale convenuto, che giunge puntuale con un cenno della mano da Belli. I due attraversano la strada e arrivano alle spalle del giovane fascista. Fabbri estrae la pistola ma non riesce ad armarla: Cesari gliela strappa dalle mani e la predispone in posizione di sparo, poi gliela restituisce. Fabbri ha un’esitazione mentre punta l’arma verso la schiena della vittima che continua a camminare senza accorgersi di nulla, finché l’Ardito del Popolo non fa fuoco da pochi metri. Come poi ricostruiranno i medici legali, il proiettile passa attraverso il rene e raggiunge il fegato: Grella cade bocconi al suolo, mentre gli attentatori si danno alla fuga. Morirà il giorno dopo all’ospedale San Giovanni. Le indagini si orientano subito verso il Belli e il ragazzo già nei primi interrogatori vuota il sacco: seguono le confessioni di Fabbri e di Cesari e via via di tutti gli altri. Gli unici che si dichiarano estranei alla vicenda sono i più grandi e cioè Di Pietrantonio e Bentivoglio. Seguono poi una serie di parziali ritrattazioni: molti affermano di aver preso parte al primo agguato, quello fallito il 19 sera, ma non al secondo. Di Pietrantonio arriva a sostenere di non aver mai conosciuto né Fabbri né Belli e quindi di non aver fornito loro la pistola.
La sentenza finale, nel giugno del 1924 condanna Fabbri, Belli e Cesari a dieci anni di reclusione, vengono assolti tutti i ragazzi che non avevano avuto parte diretta nel delitto e si erano limitati a fare da palo, con l’eccezione del giovanissimo Rossi, condannato a cinque anni. Sopratutto, non compaiono tra i condannati Bentivoglio e Di Pietrantonio. La vicenda, al di là dei suoi aspetti giudiziari, suscita grande impressione nella città e determina rabbia e volontà di vendetta tra gli squadristi. Per loro non ci sono dubbi: sono stati gli Arditi del Popolo, sono stati quelli di San Lorenzo. A prescindere dalle responsabilità individuali, l’efferata esecuzione viene decisa nell’ambito degli Arditi del Popolo: l’attentato non ha alcun senso politico, si svolge contemporaneamente ai gravi incidenti di Viterbo e un mese e mezzo dopo l’assedio di Civitavecchia. Può quindi trattarsi solo di una feroce rappresaglia, che alimenta la spirale di sangue di quelle settimane. Un’azione tanto spietata quanto impresentabile, destinata, al pari degli incidenti a margine dei funerali di Enrico Toti, a indurre ancora una volta l’opinione pubblica a solidarizzare con i fascisti. L’omicidio avviene solo otto giorni prima della marcia su Roma. Carlo Grella è la vittima più giovane del Fascio romano.
[Pubblicato su Storia in Rete n. 143-144 – Per gentile concessione di Mursia]