“Piccolo ordine da salotto”, faccenda da Folletto sul tappeto, così potrebbe essere definito l’impianto valoriale occidentale attuale – altroché Fallaci e obesi americanismi – l’effimero sbuffo nichilista, parassitario tarlo nell’evanescenza relativista e ottuso megafono nell’adorazione della tecnica, o peggio ancora nel profitto; è il costrutto cedevole dalle fondamenta dimenticate nella melma, segno e destino di questo infinito declino. La crisi del mondo moderno, per l’appunto, titolo di libro e motivo per il quale non si costruiscono più castelli e cattedrali, ma solo brutti supermercati. Ciò alla luce di quanto espresso, tra gli altri, da un grande pensatore tradizionalista del secolo scorso, nato a Blois nel 1886 e morto Shaykh ‘Abd al-Wahid Yahya, dopo la conversione all’Islam, al Cairo nel 1951.
Inoltrarsi nel ginepraio libresco di René Guénon, senza tenere troppo conto le rigidità della diaspora interpretativa (invero: basta! col voler essere più ortodossi di chi i testi li scrisse), può essere esperienza illuminante, anche per ribaltare il punto di vista. Anzi, si direbbe, per farne addirittura a meno, considerando il cicaleccio delle opinioni come funzionale alla decadenza di soggettive minutaglie, misere sentenze blateranti nel vuoto. Faccende da mercato e da politicanti. Da pollaio e tappeti. L’elemento impersonale, sostanziale e non solo formale nell’esposizione teoretica guenoniana, si palesa più come studio e approfondimento, che come interpretazione a fini ideologici, propagandistici o nel migliore dei casi, proselitistici. Ora, senza voler aprire una vexata quaestio con il sodale Julius Evola, appare evidente che a Guénon interessasse ben poco dell’aspetto “rieducativo”, se cavalcare una tigre o un montone, se vestire le casacche di questa o quella congrega, se prediligere l’arco, la clava o il kalashnikov, se sperare o meno in un ritorno qualsiasi. Noto il carteggio tra i due, pure la comune vocazione tradizionalista; nota altresì la residenza d’entrambi nel cosiddetto mito incapacitante, solo che il francese nemmeno ci provò: il serpente si morderà la coda comunque, con spietato fatalismo. Tanto vale prendere nota.
L’opera di René Guénon indica per l’appunto il predominio dei cicli cosmici sulle piccole verità della contingenza, l’unità primigenia del Sacro – l’axis mundi – a fronte dei mille rivoli devozionali, delle essoteriche liturgie (dal greco: atti per il popolo), dei tribalismi più o meno belligeranti tra loro. Figuriamoci poi delle contrapposizioni politiche, nemmeno prese in nota, irrilevante sterco del Kali Yuga. La Verità non è nella Storia, non nelle mondane vicissitudini, non negli orgasmi del progresso, nemmeno nei fabulosi cenacoli teosofici (per quanto, da francese, ebbe un debole per la muratoria); la verità è un pellegrinaggio nella nostalgia del mito, un viaggio contro tempo, in direzione prima del tempo, prima del prima. Oriente Occidente, dunque, perché come un arcano cifrario dimenticato, le polarità si ricongiungono in segni, codici e matrici semantiche. Per un’introduzione alla lettura, varrà la pena riprendere l’accessibile Il re del mondo. Canzone di Franco Battiato, certo, ma soprattutto intenso libretto azzurro Adelphi: lì dentro si tratta di Agarthi, ovvero della terra inviolabile. Non sono certo zolle di possedimenti materiali, ma reticoli di simboli comunicanti: la Thule, Salem, Atlantide, meta-luoghi che il pensatore tradizionalista collegò tra loro in disegno perfetto. Talvolta non serve l’assillo del “fare”, basta la paziente predisposizione al sapere. I fatti sono sempre conseguenze, prima c’è dell’ambrosia versata in coppa. Ma è uscito “denari”.