Perché i poeti? La domanda è heideggeriana, ma Heidegger non sa uscire dalla prigione delle sue categorie razionalistiche e di un lessico rigido e convenzionale, opposto rispetto a quello dei poeti. E infatti la questione non ha approdo: un sentiero interrotto. Appena smette di essere intesa come un’espressione, un’irruzione, un’inquietudine impaziente di vita e di fertilità di vita, la poesia nulla rivela allo sguardo curioso di saperne. Ed è un’eclissi che ci annichilisce. Perché poesia significa questo:
Nessun indizio
da questo cielo impassibile
e la mia fiamma non sa per che
verso bruciare.
(Mariangela Gualtieri)
C’è sempre un sottinteso etico, nella grande poesia: un elogio implicito del calore del cuore, dell’umanità in grande stile, della ‘puntualità’ nemica della convenzionalità morale, della compostezza che obbedisce ai limiti attraverso i quali si comunica l’infinità della bellezza. E come uno spingersi a indagare l’ignoto stando in equilibrio sui limiti estremi del mondo – con il vento del vuoto che fa rabbrividire e disturba l’ascolto, lasciando filtrare solo i suoni necessari. Non riusciremo mai a essere così santamente sofferenti da oltrepassare in altezza (verticale e ‘vorticale’) quel punto da cui il poeta ci guarda e verso cui ci invita.
Se ho scritto è per pensiero
perché ero in pensiero per la vita
per gli esseri felici
stretti nell’ombra della sera
per la sera che di colpo crollava sulle nuche.
Scrivevo per la pietà del buio
per ogni creatura che indietreggia
con la schiena premuta a una ringhiera
per l’attesa marina – senza grido – infinita.
Scrivi, dico a me stessa
e scrivo io per avanzare più sola nell’enigma
perché gli occhi mi allarmano
e mio è il silenzio dei passi, mia la luce deserta
– da brughiera –
sulla terra del viale.
Scrivi perché nulla è difeso e la parola bosco
trema più fragile del bosco, senza rami né uccelli
perché solo il coraggio può scavare
in alto la pazienza
fino a togliere peso
al peso nero del prato.
(Antonella Anedda)
Poesia è forse il grado massimo dell’intelligenza – ma di un’intelligenza che si è scordata le ragioni dell’utile, la forza di gravità, piena di naturale seduzione, del profitto. Sorpreso dallo sguardo del poeta, il tempo-catena di minuti si sfalda e diventa stagione, o paesaggio animato dalle baudelairiane “corrispondenze”, o perfino estinzione, sudore di neve, tra vita e quell’attimo di estremo premere e definirsi della vita che precede la morte:
Vieni, andiamo,
guardiamo la neve
fino a restarne sepolti.
O voce che sveglia il mondo dal tempo:
L’allodola
canta per tutto il giorno,
e il giorno non è lungo abbastanza.
O respiro-sospiro di quando l’individuo è così magro di tempo da potersi nutrire di ogni incanto:
Le nubi di tanto in tanto
ci danno riposo
mentre guardiamo la luna.
(Matsuo Basho)
Tornando ad Heidegger: non, dunque, “Essere” e “Tempo”, concetti separati dalla zoppia del lessico filosofico, ma Essere attraverso il Tempo.
Qualcuno diceva
qualcosa sulle ombre che coprivano il campo, su
come le cose passano, come ci si addormenta verso il mattino
e il mattino se ne va.
Qualcuno diceva
di come il vento si spegne ma poi torna,
di come le conchiglie sono le bare del vento
ma le intemperie continuano.
Era una lunga serata
e qualcuno diceva qualcosa sulla luna che cosparge di bianco
i campi gelidi, e che non c’era niente da aspettarsi
se non sempre le stesse cose.
Non so chi parlò
di una città in cui era stata prima della guerra, una stanza e due candele
al muro, qualcuno che ballava, qualcuno che guardava.
Cominciammo a credere
che la sera non sarebbe mai terminata.
Qualcuno diceva che la musica era finita e non se n’era accorto nessuno.
Poi qualcuno disse qualcosa sui pianeti, sulle stelle,
di quant’erano minuscoli, quant’erano lontani.
(Mark Strand)
Non è una cosmogonia, questo breve componimento? Non è l’elenco completo di tutti i mali del vivere e delle medicine per curarli? La poesia si può leggere anche nel pieno del dolore e sentiamo che non ci fa il verso proponendoci distrazioni.
Anche a te, ingenua, anche a te ti ho visto
e il tuo viso non era il tuo viso ma il viso della paura, e i tuoi occhi, ah
i tuoi occhi
mi vedevano come se stessero vedendo una tempesta,
come se, ferma nella valle lontana, vedessi venire verso di te,
verso il tuo corpo fine come un gocciolare senza posa di tiepido miele,
una corsa di bufali in preda, forse, a una paura più profonda,
e ho visto le tue labbra, anch’esse tremule, per quello che non bisogna dire mai,
ti ho visto, ingenua, anche a te ti ho visto
e mi hai guardato come guarda il veggente la terribile immagine
e non hai detto nulla di quello che dovevi dire
e ti sei allontanata come si allontana tutto ciò che deve migrare al sud in inverno
e l’inverno ero io…
(Jorge Galan)
Qualcuno potrebbe dire – il lettore limitato dai preconcetti – che la poesia è qualunquista, perché sa rendere bello tutto ciò che tocca. Certo, il poeta può parlare anche della bellezza di cose polverose, scabre, macchiate, deformi perfino (indimenticabile il suono luminoso delle “vene di muffa e di salnitro” di una delle poesie montaliane più infinite e più bagnate di pioggia viva, che inzuppa tutto, la pagina su cui è scritta, l’“anima secca” del lettore), ma se lo fa è perché le ha scoperte toccate da una sorpresa di splendore, non perché sia lui a fingerlo. Il poeta sta in agguato per cogliere quello splendore, per non farsene sfuggire un brillio, una goccia, un sussurro, un’ombra, per arrivare meglio a salvarlo dal tumulto delle cose che variano, dei crepuscoli che procedono verso il buio uniforme cancellando gli attimi in cui l’azzurro-blu scintilla. (Certo, “dopo verranno le stelle, le tacite stelle”… A proposito di stelle, poesia è la vista acuta del bambino di tre anni che dice di una stella, sorridendole: “sembra una farfalla luminosa”.)
Oggi, tempo in cui la povertà lamentata da Heidegger dilaga, si possono leggere e rileggere quasi solo i poeti. Nella notte del dubbio, dell’equivoco, dell’informe, delle menzogne che coprono altre menzogne, sono loro ad accendere il lucignolo che può guidarci.
Somiglia la separazione a una fiaba
spaventosa: comincia di notte,
non ha fine.
Un tempo, in una notte di luglio
pestavano gli zoccoli i cavalli,
strillavano insonni i bambini,
si affannava all’alba il gallo.
Un tempo: gli incendi a mezzocielo,
e la strada che si snoda oltre la polvere,
e tu che parti. Somiglia
la separazione a una fiaba
spaventosa: quando vanno oltremare
non ha fine.
Somiglia la separazione allo stridio
dei treni notturni a mezzanotte. Spariscono
per sempre nelle voragini delle prigioni,
nelle celle frigorifere di Buchenwald,
nel fuoco tifoideo di Ravensbruck.
Ricordo come ti staccavi
dal caro mondo,
ricordo che sorridevi,
che segnavi con la croce
me, il cielo verde
e la città e i passanti…
La separazione somiglia
al frastuono delle ruote sul cuore.
La separazione somiglia a una lunga
canzone che qualcuno canta a qualcuno:
racconta il lungo assedio della capitale,
racconta che l’accerchiarono,
che cannoneggiarono
monumenti e palazzi,
lo scheletro, la superficie gelata.
E là, sulla riva
dell’azzurro mare,
viveva un vecchio con la sua vecchia…
(mia madre mi asciugava gli occhi
col fazzoletto di pizzo).
La separazione somiglia a una lunga
canzone nella quale non si incontra nessuno.
(Nina Nikolaevna Berberova)
…che può guidarci, ma che ci fa pure perdere quel bisogno di certezze da poco in cui rinchiudere i misteri della vita, il miele che la nutre. “Scrivere significa togliere il velo alle forme di una verità in ombra” dice Pierluigi Cappello, sfidando l’indicibile e lottando con le parole di cui è stilista formidabile.
Poesia è trovare il mistero dietro i contorni solidi delle cose, è cantare il mistero, è cantare perché la voce sia mistero, la parola mistero, inafferrabile eppure molto più luminosamente vera dell’asfalto su cui scorrono le miriadi di pneumatici della realtà che ha fretta e solo una fame bruta.
Anche il Novecento ha avuto il suo Pindaro, nascosto in un borgo nascosto in una regione nascosta dal resto d’Italia (salvo fugaci attimi di debolezza, o occasionali equivoci):
Tibet Maa normalità mia alta
crollata all’improvviso nel sonno, assorta già
in sogni grandiosi
già entrata docile respiro, in quella oscura faticache tutto spinge e trasforma.
Quanto dura la morte?
No, la fine è finita.
È finita la fatica
di rinascere ogni giorno in qualche modo.
Il morire di ogni giorno, Maa, è la morte
e io non ne posso più di morire, Madre.
In te ogni respiro, ogni azione
così faticati erano uguali e differenti
come le dita della tua mano
ancora tiepida tra le mie mani.
Un grande legame
univa ogni tuo fare dentro
il quieto massacro del tuo mondo contadinoaccettato come la siccità e la pioggia.
Tutto doveva essere fatto. Tutto aveva
nel suo essere uguale e differentela luce della necessità
la luce generale della tua vita.
Non è questo
voltarsi indietro al tuo mondo condannatoradicchio mio pieno di pioggia
ma il tuo mondo
non ti aveva ancora tolto
la sicurezza di arrivare a sera
non sfigurati.In me ogni interesse, ogni azione
sono da troppo tempo come staccati
ognuno per conto loro
foglie di alberi diversiche si staccano dallo stesso ramo.
Si è abbassata di tanto, Madre,
si spegne!
la luce generaleche illumina nella stessa maniera
ogni luogo di un luogo.
Quella luce che è tutto nella vitaE se non è questo
non c’è più niente.
io non sono più io, Madre.
“Taci, non darmi questo dolore”.
Se questa è ancora luce
e non invece gli occhi drogati
di questa lunga notte del venticinque maggioche sogna di avere occhi e piove
miele di acacia e luna sulla tua fronte
che si distende, sui prati, sulle città
sui continenti alla deriva.Ma guardami, tu che hai
le redini del tempo in mano.
Chi più di me ha voglia di vivere?
Chi più di me ha voglia di dormire?
Perché il mio tempo
è estraneo ai suoi figlinebbia di sangue pesato che svanisce in buio.
La sola sicurezza, nessuna sicurezza.
E tu, tu sei morta.
(Ida Vallerugo)
“Radicchio mio pieno di pioggia” è un inchino che la realtà della concretezza fa alla super-realtà dell’incanto. Perché rivolgersi così a una vecchia nonna morta in un piccolo paese su cui incombe la massa di montagne inospitali? Ecco il mistero e insieme la luce che ci guida oltre un mondo fatto di macchie sulla fronte, di rughe, di grembiuli blu da contadine a piccoli fiori e paioli incrostati di polenta e unghie grosse e sporche della fatica del raccogliere e del lavare la verdura dell’orto. Ecco di nuovo quell’acqua montaliana che inzuppa carta e cuore.
Ogni mattina
cammino nella guazza
scintillante
ogni mattina spicco una mela
da un ruvido melo
ogni mattina la mela
è più dolce
(Tito Maniacco)
Cercano la verità, i poeti, anche se letterati e sapienti di ogni epoca hanno riconosciuto che la verità è lo spavento peggiore che si possa fare a un uomo; che verità è sapere in bilico tra abissi tutte le cose: pneumatici e verdure, giornali e muri, genitori e figli e innamorati. Tutte sull’orlo del mondo, dove il poeta si spinge e le ritrova e distrattamente si lascia sfuggire un commento, che spesso è un lamento profondissimo, o una confessione di cui arrossire. Così: “…e io non ne posso più di morire, Madre”.
Oppure così:
Voglio masticare sabbia
fino a consumarmi i denti
voglio bere il mare
per rovinarmi lo stomaco
voglio fissare il sole
e il vento fino a diventare cieca.
A cosa mi servono occhi potenti
e voglie e appetiti
che me ne faccio della vita vita vita
tesa ubriaca ardente pazza vita
che me ne faccio.
(Idea Vilariño)
Rinunciare alla vita pur di vedere. Vedere dove la vita comincia, dove la vita finisce, dove la vita può portare chi non ha paura della sua verità.