“Era uno strano tipo, Gaetano Longobardi (1925-96), detto Nino, napoletano di Torre ‘o Grieco ma romano di indole, di giornali e di terrazze, elegantissimo di prosa, affabulatore micidiale, stile di vita dispendiosissimo senza averne donde, un po’ un Jep Gambardella, ante litteram ma di destra. Ahi, ahi, ahi… E così cadde dimenticato. Per ricordarlo, ecco – nel ventennale della mancanza – un bellissimo ritratto, doveroso e divertentissimo, firmato da Roberto Alfatti Appetiti: Nino Longobardi. Il Re del giornalismo che prese a pugni i potenti (Historica). Biografia da leggere. E biografato assolutamente da rileggere”.
Luigi Mascheroni ha presentato così, sul Giornale, la biografia che Roberto Alfatti Appetiti, già autore del bestseller Tutti dicono che sono un bastardo. Vita di Charles Bukowski (Bietti), ha dedicato a un altro gran “bastardo”: Longobardi, personaggio che, come ha argutamente notato Mascheroni, presenta non pochi tratti comuni con l’immaginario Gambardella di Sorrentino. “Quando sono arrivato a Roma, a 26 anni, sono precipitato abbastanza presto, quasi senza rendermene conto, in quello che potrebbe essere definito il vortice della mondanità. Ma io non volevo essere semplicemente un mondano. Volevo diventare il re dei mondani, e ci sono riuscito. Io non volevo solo partecipare alle feste. Volevo avere il potere di farle fallire”. Sono parole di Jep che avrebbe potuto tranquillamente pronunciare Nino. Partenopeo l’uno, partenopeo l’altro, Longobardi arrivò nella capitale della grande bellezza più o meno alla stessa età, assunto dal Messaggero, la testata di cui fu il giornalista più ammirato e temuto per circa un ventennio, senz’altro il più ascoltato dal direttore Mario Perrone. Ma a Longobardi fama e successo non bastavano. “Penna acuminata, gentiluomo di fortuna, bastian contrario per scelta e bon vivant per nascita e indole”, lo definisce Marco Valle nella recensione pubblicata su Destra.it, Longobardi, dalla sua reggia pariolina in via Polonia, aveva la pretesa di essere il re dei giornalisti, categoria che (fatte salve rare eccezioni) intimamente disprezzava. Attaccabrighe, polemista, si era messo in testa di combattere la più solitaria delle battaglie: far fallire l’odiata partitocrazia, la Rai occupata militarmente dai raccomandati, di far tremare con quel suo stile ironico e tagliente quei potenti che si divertita a prendere metaforicamente a pugni nella sua mitica trasmissione televisiva “I pugni sul tavolo”, andata in onda nella seconda metà degli anni Settanta, anticipando così di decenni un nuovo modo di fare giornalismo televisivo. “Nel suo mirino – ha scritto Marco Valle – entrarono le contesse che difendono i lupi indossando pellicce di giaguaro e i palazzinari romani, deputati d’ogni colore e le compagnie petrolifere, Dario Fo e i primi euroburocrati, gli antifascisti fasulli e i tromboni nostalgici. Tanti nemici, tanto onore….”. Quando il Messaggero svoltò a sinistra e la famiglia Perrone vendette il giornale alla Montedison, insediando alla direzione giornalisti di sinistra, Longobardi – che, come titola sua autobiografia romanzesca e romanzata, era pur sempre “Il figlio del podestà” (Rusconi, 1976) – sapeva bene che in Italia dare del «fascista» è il modo più falso e gratuito per sentirsi antifascisti. Fece le valigie e andò a Vita Sera di Luigi D’Amato.
Ebbe come praticanti, tra gli altri, Marcello Veneziani e Mattias Mainiero, autori rispettivamente della prefazione e della postfazione della documentatissima biografia scritta da Roberto Alfatti Appetiti. Se Veneziani lo ricorda come
“un curioso incrocio tra uno sceriffo e un guappo, una specie di Fred Buscaglione del giornalismo con cinturone, cappello a falde larghe, scarpe a cui mancavano solo per gli speroni per montare a cavallo”,
Mainiero, oggi redattore capo di Libero, ne ricorda l’immenso talento che faceva di lui una grande firma, forse davvero la più grande del suo tempo:
“Nino Longobardi giocava con le parole, le metafore, la realtà. È stato un giocoliere del giornalismo e della vita. Alcune volte, un trapezista. Camminava sul filo, sapendo che, se fosse caduto, ed è caduto, anche lui è caduto, ad ammortizzare il colpo non ci sarebbe stata alcuna rete. Un bel botto e tante ammaccature. Ma si rialzava, sempre con un sorriso, che era uno sberleffo, napoletano sberleffo alla cattiva sorte”.
Malgrado si ritenesse orgogliosamente di destra, per rimanere un uomo libero fino alla fine, Longobardi rifiutò l’offerta di Almirante di candidarsi capolista nelle elezioni del 1981 e anche le pressioni di Craxi, del quale pure apprezzava il socialismo tricolore tanto caro anche a Giano Accame. Non solo, riservava le sue pernacchie anche alla destra ufficiale, liquidando Fini e Rauti come due nullità. Forse anche per questo, persino la destra culturale, che pure avrebbe potuto “vantarsi” di aver annoverato tra le proprie fila scrittori della qualità di Nino Longobardi, ha preferito lasciare che cadesse nel dimenticatoio. Perché era la voce “contro”, il personaggio scomodo, pronto a denunciare “l’intreccio continuo, costante ed evidente tra affari e giornalismo”, senza lasciarsi condizionare dall’appartenenza, consapevole di crearsi pericolose inimicizie. Ecologista patriottico ed ante litteram, Longobardi, infatti, non esitò a scagliarsi anche contro i Gruppi di Ricerca Ecologici, colpevoli di aver munto, come gli altri, fondi ministeriali nel nome della difesa ambientale. Sempre controcorrente, anzi “contromano”, come titolava il corsivo con cui su Vita Sera faceva il verso allo stesso Montanelli.
La destra di Longobardi era quella delle anime libere, sulla barricata anticonformista di Flaiano e di Longanesi, che lo iniziò al Borghese, e dello stesso Montanelli. Alfatti Appetiti, dopo un lungo lavoro di ricerca e di raccolta di testimonianze dirette, ha dato alla luce un libro prezioso che, mescolando la giusta dose di empatia con fiction e crudezza, restituisce con dovizia di particolari la vicenda professionale (fu anche originalissimo soggettista cinematografico) e umana, non sempre edificante ed idilliaca, di un uomo esiliato dal pensiero dominante.
*Nino Longobardi. Il Re del giornalismo che prese a pugni i potenti (euro 15, Historica)